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"PIU' DEL CLAMORE DEGLI INGIUSTI TEMO IL SILENZIO DEGLI ONESTI"

 

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LE NOTE DELL'AVE MARIA

Post n°342 pubblicato il 25 Settembre 2006 da bargalla

Almeno una volta al giorno per rincasare compio un tragitto che mi porta a transitare nei pressi di una vecchia chiesa annessa a quel che resta di un convento da anni oggetto di atti vandalici e ripetutamente spogliato da ogni memoria finanche lapidea riconducibile all'antico e forse ormai estinto ordine monastico degli alcantarini che qui ebbero una piccola comunità fino ai primi anni dell'ottocento, prima cioè del celebre editto napoleonico col quale vennero soppressi buona parte degli ordini religiosi e conventuali.
Resiste la struttura muraria, sberciata e scrostata in più parti, il nudo chiostro con il pozzo centrale senza quasi più colonnine e portale e le cellette dei monaci prive perfino di quel poco di arredo che la regola monastica consentiva, in alcune delle quali, però non è raro trovare un piatto di terracotta ancora saldamente murato in quello che doveva essere l'angolo cottura del monaco alcantarino.

Se non fosse per l'abbondante malta, in cui si vede la terra rossa impastata alla calce, che li tiene incollati a quella specie di fornello a legna in muratura, probabilmente anche questi manufatti avrebbero fatto la fine degli arredi sacri, delle statue e dei capitelli vari che con delinquenziale e criminale maestria sono stati barbaramente trafugati.
L'ampio terrazzo ad archi manca del tutto di copertura, forse un tempo c'erano delle tegole o, per meglio dire degli embrici che donavano al complesso una grazia architettonica che ora si può solo immaginare al pari di tanti altri siti carichi di storia e di fede, che l'incuria dell'uomo e l'offesa del tempo hanno ridotto ad un cumulo di macerie.
Ricordi anche questi legati ad un passato, il mio, che a volte rivive vivido al passaggio dinanzi a quella scalinata in pietra tufacea che porta all'ingresso di una chiesa in cui prima da chierichetto e poi da seminarista sognai di essere il prete che per grazia di Dio non fui mai.
Sognai tante altre cose, sognai anche l'amore, il grande Amore, ma anche questo non fu mai abbastanza grande da crescere insieme alle mie speranze e divenne poco più di niente.
Come tutto il resto!
Un'angusta porticina dalla sacrestia di quella chiesa ormai chiusa ma aperta solo dalla mia memoria, consentiva di accedere all'adiacente convento.
Quel luogo lo conosco bene per averlo frequentato nel periodo in cui essendo un "addetto ai lavori" avevo libero accesso nell'antica e disabitata area conventuale che di certo vide spiriti più oranti e ferventi del mio e spero tanto conservi ancora integro l'oggetto del mio desiderio di seminarista intento ad apprendere i primi rudimenti da "colei che rallegra" e cioè da Euterpe, musa della musica. 
Attraversavo quel piccolo andito con la curiosità e l'ansia di salire in fretta le scale che portavano su nella cantoria in cui troneggiava maestoso un organo ligneo a mantice del 1700 di scuola napoletana, tarlato ma ancora perfettamente in grado di emettere suoni.
Per farlo suonare con una certa continuità bisognava essere in due e in questo mi aiutava il vecchio sacrestano spesso preda dei fumi dell'alcol.
Uno azionava una lunga stanga di legno e gonfiava il conflatorium, il mantice, e l'altro, signore della "domus organaria" fra registri vari e una pedaliera tenuta su con delle cordicelle, assiso sulla panca si esibiva alla tastiera ingiallita con delle toccate e fughe che avevano ben poco dell'originale "bachiano".
Almeno una volta al giorno passo davanti a quella chiesa, è quasi sempre chiusa, apre solo la domenica mattina, il tempo di una messa.
Ma io non vado più a messa, sono anni ormai che non partecipo alle celebrazioni in cui si officia l'uomo ma non Dio.
Vorrei entrare solo per vedere se quell'organo è ancora lì, al posto dove trecento anni fa le celesti armonie investirono il cuore e l'anima dei monaci alcantarini dei quali non è rimasto che il rudere ricordo di un ex seminarista eretico che una volta al giorno passa davanti alla loro chiesa e si rivede mentre suonava il loro organo, gli sembra quasi di risentire le note ansimanti che a fatica uscivano da quelle canne sfiatate e tarlate.
Anche da solo riuscivo per così dire a far suonare quell'organo, prima gonfiavo fino all'inverosimile il mantice e poi di corsa andavo a sedermi sulla panca alla tastiera e fra una corsa e l'altra per evitare che il mantice si sgonfiasse del tutto suonavo solo per me la preghiera più bella e più struggente: l'Ave Maria
di Schubert.

 
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