Creato da antonio.gambini il 12/02/2007

Morte Di Gambini

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HANNA ARENDT

Post n°525 pubblicato il 31 Marzo 2009 da antonio.gambini

Assistendo al processo contro Eichmann, uno degli artefici dell’organizzazione nazista per lo sterminio degli ebrei, Hannah Arendt intuisce di trovarsi di fronte ad un nuovo tipo di malvagità, sconosciuto alle epoche precedenti e legato all’apparato burocratico proprio dello Stato moderno. Questo piccolo uomo, che trasformato in solerte ed efficiente funzionario statale, ha operato per la morte di migliaia di suoi simili senza neppure rendersi conto pienamente di che cosa stesse facendo, ha perso la sua umanità e proprio per questo è diventato “hostis generis humani”. 

Naturalmente i giudici sapevano che sarebbe stato quanto mai confortante poter credere che Eichmann era un mostro, anche se in tal caso il processo sarebbe crollato o per lo meno avrebbe perduto tutto il suo interesse. Non si può infatti rivolgersi a tutto il mondo e convocare giornalisti dai quattro angoli della terra soltanto per mostrare Barbablú in gabbia. Ma il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensí erano, e sono tuttora, terribilmente normali. Dal punto di vista delle nostre istituzioni giuridiche e dei nostri canoni etici, questa normalità è piú spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, poiché implica – come già fu detto e ripetuto a Norimberga dagli imputati e dai loro patroni – che questo nuovo tipo di criminale, realmente hostis generis humani, commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male. A Gerusalemme lo si vide piú chiaramente che a Norimberga, perché là i grandi criminali di guerra avevano sí sostenuto di avere obbedito a “ordini superiori”, ma al tempo stesso si erano anche vantati di avere ogni tanto disobbedito, e perciò era stato piú facile non credere alle loro proteste d’innocenza. Ma sebbene la malafede degli imputati fosse manifesta, l’unica prova concreta del fatto che i nazisti non avevano la coscienza a posto era che negli ultimi mesi di guerra essi si erano dati da fare per distruggere ogni traccia dei crimini, soprattutto di quelli commessi dalle organizzazioni a cui apparteneva anche Eichmann. E questa prova non era poi molto solida. Dimostrava soltanto che i nazisti sapevano che la legge dello sterminio, data la sua novità, non era ancora accettata dalle altre nazioni; ovvero, per usare il loro stesso linguaggio, sapevano di aver perduto la battaglia per “liberare” l’umanità dal “dominio degli esseri inferiori”, in particolare da quello degli anziani di Sion. In parole povere, dimostrava che essi riconoscevano di essere stati sconfitti. Se avessero vinto, qualcuno di loro si sarebbe sentito colpevole?

H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano, 1993, pag. 282

+++

Ho cambiato idea e non parlo più di "male radicale". […] Quel che ora penso veramente è che il male non è mai "radicale", ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla sua superficie come un fungo. Esso "sfida" […] il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e, nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua "banalità". Solo il bene è profondo e può essere radicale.


(H. Arendt, Lettera a Scholem, 1963)

 

 
 
 
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Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.


 

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"Il mondo … questo grosso essere assurdo. Non ci si poteva nemmeno domandare da dove uscisse fuori, tutto questo, né come mai esisteva un mondo invece che niente. Non aveva senso, il mondo era presente dappertutto, davanti, dietro. Non c’era stato niente prima di esso. Niente. Non c’era stato un momento in cui esso avrebbe potuto non esistere. Era appunto questo che m’irritava : senza dubbio non c’era alcuna ragione perché esistesse, questa larva strisciante. Ma non era possibile che non esistesse.

 
Voglio dire che, per definizione, l’esistenza non è la necessità. Esistere è essere lì, semplicemente : gli esistenti appaiono, si lasciano incontrare ma non li si può mai dedurre. C’è qualcuno, credo, che ha compreso questo. Soltanto ha cercato di sormontare questa contingenza inventando un essere necessario e causa di sé. orbene, non c’è alcun essere necessario che può spiegare l’esistenza : la contingenza non è una falsa sembianza, un’apparenza che si può dissipare; è l’assoluto, e per conseguenza la perfetta gratuità. Tutto è gratuito, questo giardino, questa città, io stesso. E quando vi capita di rendervene conto, vi si rivolta lo stomaco e tutto si mette a fluttuare … ecco la Nausea".

"Eravamo un mucchio di esistenti impacciati, imbarazzati da noi stessi, non avevamo la minima ragione d'esser lì, né gli uni né gli altri, ciascun esistente, confuso, vagamente inquieto si sentiva di troppo in rapporto agli altri. Di troppo: era il solo rapporto ch'io potessi stabilire tra quegli alberi, quelle cancellate, quei ciottoli. Invano cercavo di contare i castagni, di situarli in rapporto alla Velleda, di confrontare la loro altezza con quella dei platani: ciascuno di essi sfuggiva dalle relazioni nelle quali io cercavo di rinchiuderli, s'isolava, traboccava. Di queste relazioni (che m'ostinavo a mantenere per ritardare il crollo del mondo umano, il mondo delle misure, delle quantità, delle direzioni) sentivo l'arbitrarietà; non avevano più mordente sulle cose. Di troppo, il castagno, lì davanti a me, un po' a sinistra. Di troppo la Velleda…
 
Ed io - fiacco, illanguidito, osceno, digerente, pieno di cupi pensieri - anch'io ero di troppo. Fortunatamente non lo sentivo, più che altro lo comprendevo, ma ero a disagio perché avevo paura di sentirlo (anche adesso ho paura - ho paura che questo mi prenda dietro la testa e mi sollevi come un'onda). Pensavo vagamente di sopprimermi, per annientare almeno una di queste esistenze superflue.
 
Ma la mia stessa morte sarebbe stata di troppo. Di troppo il mio cadavere, il mio sangue su quei ciottoli, tra quelle piante, in fondo a quel giardino sorridente. E la carne corrosa sarebbe stata di troppo nella terra che l'avrebbe ricevuta, e le mie ossa, infine, ripulite, scorticate, nette e pulite come denti, sarebbero state anch'esse di troppo: io ero di troppo per l'eternità"

(JP Sartre, La nausea)
 

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