Creato da antonio.gambini il 12/02/2007

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ANTONIUS STRADIVARIUS

Post n°536 pubblicato il 18 Luglio 2009 da antonio.gambini

Da Enciclopedie on line TagT:  Accardo Salvatore, Bergonzi Carlo, Cremona, Francescatti Zino, Guarneri, Madrid, Paganini Niccolo, Saint-Exupery Antoine de, Ughi Uto, Viotti Giovanni Battista, Ysaye Eugene-Auguste, abete, chitarra, liuteria, musica, viola, violino, violoncello
 

Stradivari, Antonio (lat. Antonius Stradivarius). - Liutaio (n. prob. presso Cremona fine 1643 - m. Cremona 1737). Divenuto ben presto celebre in tutta Europa, costruì, oltre ad archi, chitarre e strumenti di forma varia, tranne contrabbassi, a quanto si calcola, più di 1100 tra violini e viole e almeno 80 violoncelli, che sono stati suonati dai massimi violinisti di ogni tempo tra cui N. Paganini e G.B. Viotti.
Vita. Lavorò nella bottega di Nicola Amati a Cremona. Nel 1680 acquistò una casa in piazza S. Domenico (oggi piazza Roma) e vi aprì bottega propria, ove lavorò fino alla morte. Ebbe 11 figli, dei quali due, Francesco (1671-1743) e Omobono (1679-1742), seguirono la professione paterna, senza però eccellere.  Già prima del 1700 la sua fama aveva superato quella degli Amati e degli Stainer, e tra gli allievi della sua bottega si annoveravano valenti liutai quali: Carlo Bergonzi, forse Alessandro Gagliano, Francesco Gobbetti, Lorenzo Guadagnini. Tali allievi (soprattutto Bergonzi) insieme ai figli Francesco e Omobono portarono avanti il lavoro della bottega negli ultimi anni di vita di S., la cui celebrità non fece che aumentare dopo la morte. Nel 1782, per esempio, G. B. Viotti fece conoscere i suoi violini in Francia e poi in Inghilterra, e questi due paesi s'aggiunsero all'Italia, alla Spagna, alla Germania, nel ricercare febbrilmente i prodotti stradivariani, considerati la più perfetta espressione dell'arte della liuteria. 
Attività. Facendo tesoro delle gloriose tradizioni di due scuole, la bresciana e la cremonese, e valendosi del consiglio dei grandi violinisti italiani del tempo, S. nel corso di oltre 75 anni di lavoro, elaborò incessantemente i principî della propria arte, riuscendo ad affermare la propria personalità in tutti gli elementi essenziali (finalizzati alla resa acustica) e anche in quelli secondarî (finalizzati a un continuo perfezionamento estetico) nella costruzione degli strumenti ad arco. Di particolare importanza ai fini della resa del suono il dosaggio dei varî componenti della vernice. Agli strumenti anteriori al 1690 è stato dato l'appellativo di amatizzati perché prossimi allo stile di N. Amati (tipico il violino detto Sellire); nel decennio successivo alcuni elementi (dimensioni, colore della vernice) ricordano ancora Amati dal quale però differiscono l'aspetto più robusto e la costruzione del fondo in un solo pezzo anziché due (tipico il violino Hellier). Morto Amati (1684) S., ormai pienamente libero, raggiunse un più caldo tono di vernice e una voce più potente (tipico il violino Spagnolo). È però dal 1690 che si manifesta un intenso periodo di rinnovamento, dai grandi violini dal suono pieno e grave memori di G. P. Maggini (tipico il Toscano), del 1690, a quelli del periodo cosiddetto aureo che va dal 1700 al 1725. Generalmente lo stile si caratterizza ora nelle dimensioni (circa 36 cm), nell'ardito taglio delle esse, nel fondo a due pezzi d'acero, nella vernice variabile tra l'arancione e il bruno rossastro, con riflessi d'ambra, e nella voce di rara brillantezza e intensità (tipici i violini Viotti, Betti, Vieuxtemps, Parke, Boissier, Delfino, Alard, il portentoso Messia, il Medici, il Sasserno, il S. Lorenzo, il Lauterbach). Dal 1720 al 1725 permane la magnificenza del modello e della voce, ma diminuiscono la precisione del particolare e i pregi del legno e della vernice (il Rode ne sarebbe tipico, ma non per il timbro). Dal 1725 in poi si nota la decadenza e si nota anche la mano degli allievi, tranne alcuni esemplari mirabili come il Kreutzer e il Müntz. Meno pregevoli e del resto pochissime le viole, di formato incerto e di voce poco differenziata da quella del violino. La migliore è la Macdonald del 1701, la viola intarsiata e l'Archinto (tutte e due del 1696) e quella del 1731, posseduta da N. Paganini. Ottimi invece, quanto i violini, i violoncelli. A S. risale anche, dal 1707 in poi, la riduzione della lunghezza di questi da 79,7 a 75 cm, rimasta definitiva. Celebri i violoncelli Aylesford (1696), Cristiani (1700), Servais (1701), Duport (1711, probabilmente il migliore), Piatti (1720) e altri. Ebbero strumenti di S., tra gli altri, i violinisti P. de Sarasate, J. Joachim, A. Wilhelmj, E. Ysaye, i violoncellisti B. Romberg, C. Davidov e altri, il nome di alcuni dei quali è rimasto agli strumenti da loro posseduti.

 
 
 
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Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
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Bene non seppi, fuori del prodigio
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era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.


 

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"Il mondo … questo grosso essere assurdo. Non ci si poteva nemmeno domandare da dove uscisse fuori, tutto questo, né come mai esisteva un mondo invece che niente. Non aveva senso, il mondo era presente dappertutto, davanti, dietro. Non c’era stato niente prima di esso. Niente. Non c’era stato un momento in cui esso avrebbe potuto non esistere. Era appunto questo che m’irritava : senza dubbio non c’era alcuna ragione perché esistesse, questa larva strisciante. Ma non era possibile che non esistesse.

 
Voglio dire che, per definizione, l’esistenza non è la necessità. Esistere è essere lì, semplicemente : gli esistenti appaiono, si lasciano incontrare ma non li si può mai dedurre. C’è qualcuno, credo, che ha compreso questo. Soltanto ha cercato di sormontare questa contingenza inventando un essere necessario e causa di sé. orbene, non c’è alcun essere necessario che può spiegare l’esistenza : la contingenza non è una falsa sembianza, un’apparenza che si può dissipare; è l’assoluto, e per conseguenza la perfetta gratuità. Tutto è gratuito, questo giardino, questa città, io stesso. E quando vi capita di rendervene conto, vi si rivolta lo stomaco e tutto si mette a fluttuare … ecco la Nausea".

"Eravamo un mucchio di esistenti impacciati, imbarazzati da noi stessi, non avevamo la minima ragione d'esser lì, né gli uni né gli altri, ciascun esistente, confuso, vagamente inquieto si sentiva di troppo in rapporto agli altri. Di troppo: era il solo rapporto ch'io potessi stabilire tra quegli alberi, quelle cancellate, quei ciottoli. Invano cercavo di contare i castagni, di situarli in rapporto alla Velleda, di confrontare la loro altezza con quella dei platani: ciascuno di essi sfuggiva dalle relazioni nelle quali io cercavo di rinchiuderli, s'isolava, traboccava. Di queste relazioni (che m'ostinavo a mantenere per ritardare il crollo del mondo umano, il mondo delle misure, delle quantità, delle direzioni) sentivo l'arbitrarietà; non avevano più mordente sulle cose. Di troppo, il castagno, lì davanti a me, un po' a sinistra. Di troppo la Velleda…
 
Ed io - fiacco, illanguidito, osceno, digerente, pieno di cupi pensieri - anch'io ero di troppo. Fortunatamente non lo sentivo, più che altro lo comprendevo, ma ero a disagio perché avevo paura di sentirlo (anche adesso ho paura - ho paura che questo mi prenda dietro la testa e mi sollevi come un'onda). Pensavo vagamente di sopprimermi, per annientare almeno una di queste esistenze superflue.
 
Ma la mia stessa morte sarebbe stata di troppo. Di troppo il mio cadavere, il mio sangue su quei ciottoli, tra quelle piante, in fondo a quel giardino sorridente. E la carne corrosa sarebbe stata di troppo nella terra che l'avrebbe ricevuta, e le mie ossa, infine, ripulite, scorticate, nette e pulite come denti, sarebbero state anch'esse di troppo: io ero di troppo per l'eternità"

(JP Sartre, La nausea)
 

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