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Aloè

Post n°70 pubblicato il 05 Maggio 2007 da bartelio
 
Foto di bartelio






C'era poi questa poesia di Montale che diceva che è nostro il disfarsi
delle sere e la stria che sale al parco dal mare e ferisce gli aloè.
Io francamente non so cosa siano gli aloè, ma mi è sempre piaciuto
questo verso della stria che sale dal mare e li ferisce. A dire il
vero non so nemmeno cosa sia la stria, ma non è che si può sempre
sapere tutto. Del resto le cose che so mi bastano, non ho bisogno di
sapere cosa siano in realtà gli aloè, mi piace questo verso e sono
sicuro che gli aloè esistono. Magari ne ho uno pure in casa e non me
ne sono mai accorto e forse è pure meglio così perché potrebbe
capitare che accorgendomene io dica "ma tutto qui l'aloè?".
Quindi continuo a pensare agli aloè di Montale, che poi Montale in una sua
poesia famosa diceva che i poeti del suo stampo, i poeti non laureati
amano solo le ortiche i fiori del tarassaco o al massimo l'oleandro,
che a dispetto del nome altisonante è una pianta comunissima che a
volte ci fanno pure le siepi in autostrada. Però poi Montale se ne
viene fuori con questa cosa degli aloè, che saranno pure piante comuni
ma hanno un nome aristocratico: ci si immagina il marchese di
cavatrucioli che parlando con la duchessa del regno delle due
marzopole dice cara dice potresti per cortesia scostarti che vorrei
osservare la stria che ferisce gli aloè? 

Mentre sono tutto intento in questa occupazione che amo molto cioè
pensare a niente e poi scriverne, mi accorgo che la sera per dirla con
Montale si sta disfacendo e è mia è tutta mia, e è decisamente tardi.
Mi sono preso questi venti minuti per scendere dal santuario e
passeggiare tranquillo sul lungomare, ma è davvero ora che ritorni da
mio padre. Però si sta bene qui, accidenti.

Salgo i gradini che dal lungomare mi riportano verso la basilica.
Credo che a quest'ora la messa sia finita e mio padre sia già
piuttosto spazientito. E difatti come metto piede sul sagrato lo vedo
che mi attende con la testa un po' piegata verso sinistra. Dietro di
lui c'è la donna che mi ha aiutato a portarlo qui dalla clinica. Mio
padre è sempre stato molto devoto, ha sempre frequentato la chiesa,
lui e mia madre. "Un buon insegnamento" mi ripeteva sempre il parroco
del paese, "segui l'esempio dei tuoi genitori" diceva fregandosi le
mani come fanno sempre i preti. Beh, non è andata proprio così.

Comunque mio padre mi vede e fa con la voce storpiata che quando parla
non si capisce mai cosa dice: "Era ora che sei arrivato, sono stanco
ho sete." La signora dietro dice "Carlo stai tranquillo, sono passati
cinque minuti, non c'è niente da preoccuparsi."
"Altro che cinque minuti" dice lui e poi aggiunge qualcos'altro che
non capisco, ma non è molto contento. Mio padre è sempre stato un gran
rompicoglioni, anche prima della malattia, e non è che tra noi sia
filato proprio tutto liscio. Certo adesso la malattia lo ha fatto
decisamente peggiorare.

L'idea di scendere fin qui dalla clinica ce l'ha avuta più che altro
Domitilla, questa signora che ci accompagna, che è una signora gentile
che abitava vicino a mio padre e mia madre e faceva loro i mestieri,
li aiutava. Poi quando mia madre è morta ha continuato così. Ogni
giorno viene e si dà da fare, aiuta papà a alzarsi, lo fa camminare.
Ora che facciamo questo tentativo di recuperarlo, si è offerta
volontaria di accompagnarlo e mi ha tolto di impaccio, perché sennò
non avrei saputo come fare col lavoro. Non ce l'avrei mai fatta a
venire sin qui tutti i giorni, forse nemmeno il sabato e domenica.

Domitilla ha detto che vicino alla clinica c'era il santuario di
Arenzano, che è molto famoso, ci sono i carmelitani scalzi e venire
sin qui non può che fargli del bene, ha detto.
Mi ha aiutato a sistemare papà sull'auto, ho piegato la carrozzella
nel bagagliaio e siamo partiti direzione Arenzano. "Dopo Loreto è il
santuario più visitato", ha detto mentre salivamo per i tornanti.
E in effetti c'era un sacco di gente. Abbiamo parcheggiato di fianco a
un pullman di bergamaschi. Un ambulante scherzava e diceva loro
"Bergamo Zanica" e alcuni ridevano.
"Quanti turisti" ho detto quando siamo scesi dall'auto.
"Pellegrini, non turisti: è diverso" ha risposto Domitilla.

C'era questo tizio, un mendicante con le scarpe senza calze e un
giubbetto blu, che passava con tre tappeti piccoli tipo persiani sulla
spalla e francamente non capivo come potesse credere di venderli.
Erano davvero in cattivo stato. Quando è iniziata la messa si è
sistemato sul sagrato di fianco al portone e ha steso il braccio in
avanti con la mano aperta a chiedere la carità. Il sacrista dalla
chiesa gli faceva segno di no, ma lui non si è mica scomposto,
tutt'altro. E' rimasto in posizione per tutto il tempo della messa e
era ancora lì quando sono risalito dal lungomare. Ho sentito uno dei
bergamaschi che diceva "bisognerebbe fargli la carità anche solo per
la costanza."

All'ingresso della basilica c'è questa statua del bambino gesù,
sistemata su una colonna. Il santuario è dedicato a lui, al bambino
gesù di Praga. Non chiedetemi perché sia proprio di Praga.
Il bambino gesù di Praga è tutto particolare, tutto vestito di una
sottana lunga e rossa e con una corona da re sulla testa. L'effetto
che fa è strano: sembra un extraterrestre, uno di quei terribili
bambini con gli occhi fosforescenti. Mi aspettavo che da un momento
all'altro saettasse in giro il raggio della morte, colpendo ovviamente
solo i miscredenti come me.

Ho spinto mio padre nella basilica e lo abbiamo sistemato in prima
fila dove stanno gli ammalati. Non sono credente, mi pare chiaro, però
in certi momenti ci si aggrappa a tutto, anche se i medici dicono che
non ci sono speranze di miglioramento, che l'ictus bisogna accettarlo
così com'è. Papà non muove metà del corpo e ha difficoltà di parola,
ma io dico che un po' di esposizione al bambino gesù non può che
fargli bene.

Poi sono uscito ho guardato attorno, c'era una sera di Aprile così
bella. Ho passeggiato per qualche minuto tra i giardinetti davanti
alla chiesa, ho guardato giù verso il mare. La messa sarebbe finita
intorno alle sei, avevo una mezz'oretta e così ho deciso, come già
sapete, di scendere a mare.

C'era un sacco di alberi per la strada, forse persino degli aloè,
l'aria era fresca e benché fosse solo Aprile parecchia gente stava
stesa sulla spiaggia. Il sole era caldo ancora e lo si sentiva con
piacere sulla pelle. Ho camminato sul lungomare e poi mi sono messo su
una panchina, sotto una grossa palma. Ho guardato verso le onde
leggere e chiuso gli occhi. Respiravo piano e pensavo a quando con i
miei venivo al mare da bambino, a Pietra Ligure. Per andare in
spiaggia ci facevamo un bel pezzo a piedi lungo l'Aurelia. Ricordo
quella striscia sassosa in riva al mare e dietro noi la massicciata.
Stavamo in affitto in una casa alta con un balcone che girava tutto
intorno all'appartamento e una rete fina che impediva alle cose di
cadere verso il basso. Noi bambini, io e mia sorella, ci giocavamo per
ore sempre seguendo l'ombra che girava attorno alla palazzina. Ricordo
mia madre che ci preparava da mangiare il pesce, e poi l'odore di
fritto e mio padre che dormiva sul divano davanti alla tv.

Mi sono acceso una sigarettina. Pensavo a Montale, ai suoi aloè. Il
sole andava e veniva, si stava alla luce piena e poi improvvisamente
una nuvola grossa faceva ombra e le cose attorno cambiavano e era come
se perdessero il colore. Allora faceva un po' freddo e veniva voglia
di coprirsi, ma solo per qualche minuto.

"Forse adesso è ora di andare" mi dice Domitilla svegliandomi dai miei
pensieri.
"Sì, ora andiamo" le dico sorridendo.

Risaliamo in macchina e scendiamo verso la litoranea, nel traffico che
ci porta di domenica sera verso la clinica. Sul lungomare mio padre si
fissa che vuole scendere, che vuole un gelato.
"Gelato" dice "panna e cioccolato" e non c'è verso di convincerlo, fa
come un pianto da bambino e chiama mia madre, si rivolge a Domitilla e
la chiama Teresa, che era il nome di mia madre.

"Teresa un gelato, digli a questo qui di fermarsi" fa.

Accosto alla prima gelateria. Ci sono un sacco di persone, ragazzi con
lo scooter, famiglie in coda, ragazzine che leccano il cono e parlano
e ridono con gli amici. Scendo dall'auto, tolgo la carrozzella e aiuto
papà a sedercisi. Faccio parecchia fatica, papà è un uomo corpulento e
l'inattività forzata lo ha fatto anche ingrassare. Un signore gentile
mi aiuta a sollevarlo e Domitilla lo spinge sul lungomare. Mi metto in
fila, un gelato panna e cioccolato per lui, uno fragola e cocco per
me: sempre incompatibili noi due, anche nei gusti del gelato.

Passeggiamo, io con il mio cono, lui con una coppetta
che gli tiene Domitilla. Con l'unica mano che muove prende il gelato e
se lo porta alla bocca e ne perde un bel po'. Non è un bello
spettacolo, si sporca tutto.
"Si torna come bambini, da vecchi" dice Domitilla mentre gli pulisce
la bocca con un fazzoletto.
Le sorrido e così riprendiamo a camminare, col gelato, sotto il sole.
C'è una arietta che Domitilla pensa sia meglio coprirsi bene e gli
allaccia il golfino. Ci fermiamo dirimpetto i bagni Pucci: che nome
per un bagnino, penso, e guarda le sdraio costano quaranta euro al
giorno in agosto, dice il cartello.

Mio padre mangia il suo gelato e guarda verso il mare. Poi si volta e
osserva i ragazzini che giocano a rincorrersi sul marciapiede e nel
parco giochi. A un certo punto un ragazzino nel gioco si avvicina e
mio padre lo chiama. Lo chiama che non si capisce, ma è il mio nome,
dice Roberto, dice Roberto tutto storpiato. Il ragazzino si ferma
accanto a lui e lo guarda e non ha paura; di solito i ragazzini hanno
un po' di timore perché mio padre ha questa voce grossa e si fa
veramente fatica a capire che vuole dire. Il bambino si avvicina e non
dice niente, lo guarda. Lui fa Roberto e gli accarezza la testa, fa un
mezzo sorriso, un sorriso storto dei suoi che si fa fatica a capire
cosa sia. Poi gli chiede se vuole il gelato, ma il bambino fa no con
la testa e poi lo chiamano i genitori e lui corre via.

Mi passo una mano sulla faccia.

Domitilla dice: "fa freschetto Carlo e forse è meglio se andiamo."
Mio padre si lamenta, dice qualcosa che non capisco, ma il senso è che
vorrebbe restare ancora per un poco.

Ma è davvero tardi, dobbiamo andare. Ci incamminiamo verso la
macchina, i due vecchi e io, mentre il sole si abbassa e la stria
continua a ferire gli aloè.




 
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