Creato da bartelio il 18/11/2006
il diario infimo di bartelio
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Timbrare il biglietto
Alla stazione di Dalmine c'è una sola timbratrice funzionante. E' all'esterno, al termine della piattaforma. In realtà ce ne dovrebbero essere altre due, nella sala d'aspetto: peccato che la sala d'aspetto sia chiusa da mesi "causa lavori di ristrutturazione". Ogni mattina si forma così un codazzo. E' meglio non arrivare in ritardo se vuoi timbrare per bene.
In Agosto, niente abbonamento mensile. Lavoro una sola settimana su quattro, non è conveniente. Opto per un abbordabile settimanale, più un paio di biglietti giornalieri. Nel momento in cui mi avvicino alla timbratrice (obliteratrice, starete forse pensando, immagino: c'è qualcuno che si vuole unire al sottoscritto nella raccolta di firme per l'abolizione di questo lemma orribile, perché scompaia per sempre nelle spire dell'oblio, un bel referendum abrogativo, che dite?) penso: mi devo ricordare, questa sera, mi devo assolutamente ricordare di timbrare il biglietto del ritorno. Badate bene, so già che me ne dimenticherò, ma ugualmente incido in una piccola parte di me, quella degli atti mancati, incido questa frase a lettere d'oro: devi ricordare di timbrare il biglietto di ritorno, sennò sono cazzi. Bene.
Infilo il biglietto nella macchinetta gialla, che produce un rumorino familiare, brr trr sgrissigrì. Ritiro il biglietto e noto che tale sforzo onomatopeico coincide con uno sbuffo talmente modesto su un angolo del tagliando da sembrare una presa in giro. Già mi ci vedo di fronte al controllore, a giustificare: veda, è chiaro, 31 agosto 2010, non c'è ambiguità. Sì, risponde quell'uomo orribile, sì, fanno cinque euro, grazie. Insomma, niente. Provo a infilare di nuovo il biglietto, conscio dei rischi che possono seguirne, ma niente onomatopee, stavolta. La timbratrice resta muta. Riprovo da varie angolazioni, ma niente.
Dietro di me una donna di una cinquantina d'anni aspetta col biglietto in pugno: mi scanso, le faccio posto e le auguro una fortuna migliore. La signora inserisce il tagliando, ma nulla: lo stesso silenzio piccato. S'avvicina quindi un baldo giovane, il giovane che aiuta le signore a attraversare la perigliosa strada, che si offre di timbrare il biglietto al posto della signora. Col biglietto in mano fa un paio di movimenti ondulatori sussultori col polso, lo introduce quasi sfiorando la fessurina (dice così, ahem) e morbidamente si avvicina al lato sinistro. La timbratrice ha un sussulto, un fremito improvviso, fa brr ttrrrr sgrissigritrr. Il baldo giovane estrae il biglietto, perfettamente timbrato. Lo ammetto, non ho alcuna decenza, né dignità: gentile giovine, vorrebbe farmi il favore di timbrare pure il mio, e così riesco a montare sul treno per tempo e con il mio bravo timbro.
E' ovvio: per tutta la durata del viaggio verso Milano, non ci sarà alcuna traccia del controllore, il quale invece si sarebbe manifestato certamente se avessi avuto il biglietto mal timbrato.
Mentre salgo a bordo e mentre mi accomodo e per una buona parte del viaggio e comunque ogni volta che tocco casualmente il portafoglio, mi dico: devi ricordare di timbrare il biglietto del ritorno. Mi sovviene che potrei fare un timbro preventivo, in mattinata, alla stazione di Lambrate e togliermi il pensiero, ma sul tagliando trovo scritto inequivocabile, "il timbro scade dopo tre ore". Niente da fare. Devo ricordarmi di timbrare eccetera, ripeto, e affronto con questo tarlo la giornata di lavoro.
Verso sera esco dall'ufficio, mi accendo l'ipod, penso 'che bellino questo disco dei frightned rabbit' e m'incammino verso il metrò. Sulla strada mi raggiunge un collega. Spengo l'ipod, facciamo quattro chiacchiere cammin facendo e intanto mi capita di toccare casualmente la tasca posteriore con il portafoglio: devo ricordarmi di timbrare eccetera. Il collega mi dice svariate cose circa la caduta dei margini di guadagno dell'azienda, lo sviluppo della tecnologia e in particolare di quella informatica, mi dice che i combustibili a disposizione, da qualche decennio, sono sempre quelli e ogni altra forma di progresso non è data. Parliamo di spazio 1999, del telecomando e di come ancora le persone non girino nelle tutine gialle dei protagonisti della serie, benché ci sia internet, l'ipod-pad, il mondo globalizzato, l'email, lo scanner e il blackberry. A Lambrate scendo, faccio le cose solite, scale mobili, piazza bottini, giretto alla libreria mondadori, corsetta al binario sette, treno.
Salgo e trovo un posto bellissimo, in una carrozza bellissima, con i sedili in plastica bianca e tessuto verde: i migliori. La carrozza è condizionata, evviva. Il posto è il primo, al piano sopra, all'ingresso nello scompartimento: un sacco di spazio avanti a te per allungare le gambe. Mi distendo, tolgo il libro di somerset maugham, faccio per toccare il portafoglio e mi colpisce l'evidenza: ho dimenticato di timbrare il biglietto di ritorno. Deglutisco amaro, ripongo il libro in borsa, abbandono i miei vicini di triposto, chino il capo e scendo le scale: la regola vuole infatti che noi uomini probi, retti, vuole che si cerchi il controllore e si faccia atto di pubblica contrizione, sperando di ricavarne l'assoluzione e nessuna ammenda. Per dare testimonianza della mia assoluta buona fede, non bastassero i tre anni e mezzo di abbonamenti regolarmente acquistati e timbrati, attraverso ben due scompartimenti alla ricerca dell'uomo. Passo anche da un vagone all'altro, per tramite della passerella sospesa sulle rotaie, e ho una vaga visione di precipitamento: immagino la piattaforma dischiudersi e i binari inghiottirmi, uomo onesto precipita e si stritola nell'adempimento del proprio dovere, breve servizio su rai tre regione e un trafiletto sulle pagine milanesi di repubblica.
Apro una porta, salvo, e lo vedo, ecce homo. E' in piedi tra la gente, cappello e borsello, e sta elevando una contravvenzione a un tizio che evidentemente è manchevole di qualcosa. Il tizio riceve la copia gialla di un verbalino e passa dieci euro al controllore. Mentre questi cerca il resto nel palmo, mi avvicino e dico, mi perdoni ho dimenticato di timbrare. Il controllore, senza alzare l'occhio dal palmo, dice, e che devo fare. Dice così, senza guardarmi.
Ho il sospetto che la domanda sia rivolta al tizio o alle monete, che l'uomo non sappia ancora districarsi con l'euro e quindi faccio finta di nulla e aspetto. Quand'ha finito col palmo, si volta, mi guarda e ripete, e che devo fare. Chiaramente, parlava con me.
Devo fare il controllore o il buono, dice ancora.
A questo punto, mi innervosisco: senta, faccia quel che crede opportuno, io sono venuto a cercarla, ero seduto di là (faccio un vago gesto oltre le mie spalle, come a indicare l'altra sponda del mar rosso, un'enormità di scompartimenti e vagoni), credo che sia sufficiente come segno della mia buonafede, non trova? Se avessi voluto fare il furbo, me ne sarei rimasto seduto, non crede. Sorvolo sul posto in pole position e sul condizionamento perfetto.
Il controllore fa un ghigno come a dire, eh ne ho visti di furbetti, scarabocchia qualcosa sul mio biglietto, me lo restituisce e si volta da un'altra parte. Gli metto una mano sull'avambraccio, una cosa fastidiosa, ma sapete com'è: guardi che sono quattro anni (esagero per esigenze teatrali) che faccio questa linea e ho sempre comprato abbonamenti e timbri, che crede. Manca solo che aggiunga, lei non sa chi sono io. Mi accorgo di parlare alle mie scarpe. Non ho l'animo del piazzista di sceneggiate. Lascio l'avambraccio e torno verso il mio posto. Occupato, ovviamente. Mi devo accontentare della carrozza successiva, con refrigerazione modesta, seduto di fronte a una tizia proterva, ben decisa a difendere lo spazio conquistato per le sue gambe distese. Faccio il viaggio anchilosato, in imbarazzante intimità col ginocchio della tizia, che chiusi gli occhi, sistemato l'ipod, se la dorme della grossa.
E' inutile che vi dica che il controllore non passerà in quello scompartimento per tutta la durata del viaggio: la legge morale è dentro di me, ah. Il cielo stellato sopra, credo, per quanto siano solo le sei del pomeriggio.
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