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« Timbrare il bigliettoPiove »

Poesia del cantante di Crescenzago

Post n°200 pubblicato il 01 Ottobre 2010 da bartelio
 


Celentano nel Sessantuno,
si presentò a Sanremo per la prima volta,
con ventiquattromila baci.
Aveva un vestito scuro fuori taglia,
una cravatta da cowboy,
l'aspetto di un morto vivente con la frangetta.
Nel cambio di ritmo della canzone,
inquadratura convenzionale dell'orchestra,
orchestra che sembrava fare altro,
quasi assopita,
Celentano fece un salto,  
mostrò il culo al pubblico,
prese a muoversi come se avesse perso le viti
che tenevano assieme braccia e gambe.

Il cantante di Crescenzago
sale nel tratto scoperto,
prima che il metrò verde si inabissi.
E' mediamente disperato,
giacca sfatta, camicia fuori dai pantaloni,
scarpe marrone chiaro tipo timberland.

Ha un lettore cd portatile in una mano,
nell'altra un microfono,
sulle spalle uno zaino con le casse.
L'ho visto altre volte,
è alto, corpulento,
una cinquantina d'anni,
capelli grigi, radi e un po' scarmigliati,
un reticolo di capillari scuri sulle guance.  

Si accomoda vicino a una porta,
schiaccia il pulsante del lettore,
fa partire la musica,
una nenia balcanica su base elettrodance, credo.
Ondarock catalogherebbe come
balcan-psych-elettro-shoegaze
o qualcosa del genere.

Il cantante aspetta un minuto di nenia,
sino a che dal lettore non esce una voce lamentosa,
monocorde.
E' il suo momento:
l'uomo attacca a cantare,
canta sopra la voce,
come in un playback finto.

Canticchia piano, pianissimo,
in una lingua che potrebbe essere serbo,
o arabo, non so dire.
Mi viene da pensare
che la musica sia in realtà una nenia maghrebina,
ma l'uomo non ha l'aspetto del nord-africano,
no.

Si muove ancora un po'
nella luce verde delle sei del pomeriggio.
E' stonato, lamentoso, monocorde,
canta come canterebbe un uomo al volante,
uno che lavasse i piatti,
come fosse lì per caso,
o non gli importasse.

Mentre fa tutto questo,
la gente intorno,
le persone, voglio dire,
si guardano le scarpe
chiacchierano
appena un po' nervose.

Dopo Cimiano, il metrò si inabissa
e la voce dell'uomo viene coperta dal rumore inumano del ferro,
dallo stridio delle rotaie,
dei freni o di chissà che cosa,
amplificato in galleria.
Si percepisce solo la musica arabo-balcanica,
poco più.

E' qui che mi viene da chiedergli
se nel cd c'è lui, la sua voce.
E poi quale strada lo ha portato
fino alla linea del metrò,
verde.
Mi vengono le domande che fanno tutti,
prima che lui finisca di cantare,
spenga il lettore a fatica,
passi col sacchetto delle monete
e si prepari per un altro vagone.

Me ne sto zitto, invece,
e penso solo che se capitasse a me,
una linea del metrò verde di una città di Milano chissà dove,
se mi capitasse vorrei essere Celentano,
pensa la cazzata, mi dico,
come nel Sessantuno a Sanremo,
dio bastardo,
muovermi in quel modo,
girare il culo alla gente,
fare un sorriso storto,
mandare ventiquattromila baci
e passare in un altro vagone.

 

 
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