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Elinda e Odorica

Post n°711 pubblicato il 10 Febbraio 2014 da livieroamispera

Sogno o vaneggio! Ah mi rappiglia il cuore

Sequela del precedente (di Silverio Gioseffo Cestari, col nome di Momino, ed Appiano Buonafede, col nome di Fortunio)
Elinda, Odorica

El. Sogno o vaneggio! Ah mi rappiglia il cuore
Insolito stupor: per ogni vena
Sento che mi ricerca un sacro orrore.
Fia mai ver quel che intesi? Io reggo appena:
Ma non accaso fe’la forte amica,
Che tanto udissi: Io mi darò la pena
Di ragguagliare Arcadia; io la fatica
Imprenderò. Dolci compagne amate,
Amarilli, Nerea, Clori, Odorica:
Odorica a te parlo: ah trascurate
Non sian da te mie voci: un poco lascia
Di premer latte, e stringer le giungate.
Ecco ti son vicina; or via tralascia,
Ch’è fuor di tempo, il serio lavorio:
Vé che, per ratta a te venir, l’ambascia
M’ha concia, che parlar più non poss’io.
Neppur mi guarda, e più al suo far s’interna!
Pur cosa ho a dir che appaga il tuo desio.
Io già non reggo. Ormai più non governa
Ragione i sensi mie. Ninfa arrogante,
E credi tu, con la fint’aria esterna
Di rigidezza farti più prestante?
Se a te d’altri sì poco, ad altri cale
Nulla di te, superba e non curante.
Se ’l vuoi, già stringo il corpo alle cicale;
E un cantar sentirai che te n’incresca;
Sebben so che me n’abbi a voler male.

Od. Non più, non più gridar, che ormai rovinano,
Mercè i tuoi stridi i monti, ed i tugurii.
Ninfa vezzosa, no, non tanta collera.
Oh la Monna gentil, che sputa in aria!
Vedi che tanto sdegno ormai può toglierti
Dalle guance il color, dagli occhi il fulgido.
Langueria molto il bel regno di Venere,
Se te, che fe’ di quello il miglior mobile,
Per rio disdegno alfin dovesse perdere.

El. So che ’l tuo dir sempre col fiel si mesce:
Di te non fu, né vi sarà in appresso
Più trista, e cuor più avaro, ove ognor cresce
Brama di straricchir, che fatti spesso
Increscevole agli altri, a te noiosa.
Oh! per te e’farebbe il grand’eccesso,
Se andasse a mal picciola, e lieve cosa:
Una stilla di latte, o pur due fiori,
Che tu perdessi, non avresti posa!
E pinger credi a bei chiari colori
Di prudenza, modestia, e finto zelo
La malnata avarizia e i sozzi orrori;
Pensi coprir di specioso velo.
Chi detto avria, che fosse sì insolente!
Ma pria del vizio il lupo perde il pelo.

Od. Già si sa che chi lava il capo all’asino,
Il ranno ed il sapon sempre va a perdere:
Perciò ti lascio dir. Ma maravigliomi,  55
Come qui ti trattien: vé che t’aspettano
Pastori, e Pastorelle; e que’languiscono
Senza la gran maestra de’tripudii.
In altra parte, e appunto di Silvirio
Nel noto pian, forse già corso è il palio.
In riva al fiume, e non sai con qual’ansia,
Se’desiata fuora d’ogni credere
Per tesser danze a suon di cetre e pifferi.
Vedi ch’il Sole è già presso al meriggio,
E tu ne stai sì neghittosa e torpida 65
Col trascurar l’ufficiose visite
Per tutte le capanne e li tugurii,
Che nella nostra abbiam fiorita Arcadia.

El. Lingua di Momo, trista e mal dicente:
Vella, vella la Monna schifa il poco,
Che recarsi a coscienza ha sol’in mente
Non vietati piaceri; ed ora il foco,
Che vomita da quella infame bocca
Putente e nero le rassembra un gioco
Saper dei tu, ch’io so, qual forte rocca,
Mio contegno serbar: ma tu che dici...
Orsù partiam, che il sacco ormai trabocca.
Questo vo’dir, che sol stim’io felici
Que’momenti, in cui sappia conservarmi
Con maniere cortesi Amiche, e Amici.
Ciaschedun sa ferir colle sue armi.
Tienti la sordidezza a te gradita,
Né temer, ch’unquemai te ne disarmi:
Ch’io vo’seguir l’incominciata vita.
Eh Partenio, Partenio, sol tu sei
Cagion, ch’abbia i’a garrir con questa ardita.
Pur ciò, ch’io dir dovea, forma per lei
La maggior gloria; ed ella se n’offende.
Vé qual rende mercede a’merti miei.

Od. Anzi pan per focaccia io fui nell’obbligo
Renderti, se le tue frizzanti ingiurie
Mi fu forza con altre alfin ribattere.
Ma ogni cosa è dover ch’abbia il suo termine.
Lo so io, sallo il Ciel, se ne’precordii
Soffro di ciò, che avvenne, alto rammarico.

El. No no, Odorica non la dici intera.
Mosso s’è in te il vespaio per la strana
Cosa, che ho a dir prodigiosa, e vera.

Od. No, Elinda cara, non è come immagini;
Me sol costrinse l’amor forte, e tenero
Ch’ebbi sempre per te. Orsù finiamola.
So pur ben, ch’ogni nodo viene al pettine,
E infin sebben qui non siam’in Arcadia,
Pur rammento, che avemmo nostra origine
Ambe in un punto stesso, e non v’ha dubbio,
Nella bella, gentile, alma Partenope.
So pur che tu non se’di quella specie
Di Donne schive, che sputan nel zucchero;
Ma un cuoe in petto hai generoso e facile.

El. Tu perché sai l’indole mia, ch’è piana,
E sì dolce a piegar, così mi tratti:
Ma tua credenza non farò sia vana.
Fine dunque al garrir: si venga a’fatti.
Dal pian del cedro, come tu ben sai,
È lungi il mio tugurio pochi tratti.
Or già sparsi del Sol veggendo i rai,
Dritta al gregge ne gia studiando il passo,
Quando alcun grido intesi, e pochi lai:
Io a me stessa fei riparo in un sasso;
Ed ivi ascosa Monimo vid’io
Sgridar Partenio, che smagrato e lasso
Chiamava il suo destin barbaro e rio,
Perché l’altro destarlo allora gli piacque,
E un sogno infranse armonioso e pio.

Od. Aspetta: intendi tu del pastor Monimo,
Colui che pochi ha, ch’in saver l’agguagliano,
Caro tanto alle Muse, e a noi sì amabile?

El. Di questo appunto, ch’anche in seno ei nacque
Delle Sirene al bel Sebeto in riva.
Soglion sovente quelle limpid’acque
Dotta mente ispirar facile e viva.

Od. Perciò queste due alme chiare e lucide
Han tra loro legge tanta amicizia:
Perché, come ben sai, Partenio il giovine
È dotto molto, illuminato e savio...
Ma non tenermi a stento, il sogno narrami.

El . Disse: che gli parea esser del Mondo
Tratto in istante, e pe’l sentier, ch’apriva
Spirto sublime, in viso almo giocondo,
Rompendo i Ciel sen gia col chiaro Duce
Libero e scarco de l’usato pondo.
Ma che dir potran mai prive di luce
Che dan le scienze, ignare pastorelle?
Pure il forte desio mi sprona e induce
A dirt’in brieve delle cose belle,
Che lassù vide. Egli premè col piede
Nubi, Cieli, Pianeti, e Luna, e Stelle.
Anzi più Lune raggirarsi ei vede
Intorno al Sol; ed altri mari, e laghi,
Colli, piani ei truovò, ch’ivi han lor sede.
Tanto in su andò fra i spazi ameni e vaghi,
Che...Io ’l dirò; ma nol crederai tu,
O se ’l credi, non fia che te n’appaghi.
Fe’ la guida fissarli i lumi in giù,
E neppur vide nostr’Arcadia, tanto
Nel mondo nota. Or vé quant’era in su!

Od. Mi maraviglio: ma la nostra Napoli,
Che non si distinguesse egli è impossibile.

El. Che Napoi, che Arcadia! oh quanto, oh quanto
Cieche siam noi, che non veggiamo il vero!
Ma seguiam nostra narrativa intanto.
Cosa ora ho a dir, che renderà più altero
Il fasto tuo, perciò frena l’orgoglio.
Mentre che gìan per sì strano sentiero,
Disse a Partenio il Duce: Io saper voglio
(Giacchè di là tu vieni, u’annotta, e aggiorna,
Ed ove il Veglio ingordo ha sede e soglio)
Se la Stadera mia mantiensi adorna:
E poi benigno fe’ di te memoria.
L’altro rispose ciò, che innalza, ed orna
Fin a troppo il tuo nome, e la tua gloria.

Od. E d’onde la baldanza può in me nascere?
So pur troppo ben’io ove può giungere,
Se s’ha a librar con peso di giustizia,
Lo scarso d’una Donna angusto merito,
È vero, che in pensar sol che mi lodano
Persone tali, s’io fossi più facile,
Adombrar mi potria folle superbia:
Ma son d’inganno tal disciolta e libera.
Chi mi loda, tramanda in me sua gloria,
E mia parte sol fia l’umil modestia.

El. Ben pensi. Noi dappoco, ignare, e corte
Come degne sarem di chiara storia!

Od. Ma troppo uscite siam; tornare io pregoti
Al racconto stupendo, che sorprendemi.

El. Disserrar vid’ei dunque aurate porte,
Ed una uscir che ben non mi sovviene,
Urania parmi; e con maniere accorte,
Vaga saggia gentil. Dice che viene
Per introdur quell’Alma inclita e pura,
U’si gode in eterno il sommo Bene.
Altri nomò, ma par mia mente scura,
Che va a mãcarmi, or che son presso al varco;
Onde non son di ben narrar sicura.
Disse di alcuni, Tolomeo, Ipparco,
Copernico, Ticone, e che so io?

Od. Questi, se ’l vero intesi, son Filosofi,
Che ne’corpi celesti il guardo fisano,
E parmi, parmi, che chiamansi Astronomi;
Di que’, che fan sistemi, apron fenomeni;
Ma da ciò, narra, che mai venne in seguito?

El. Questo fu il punto, in cui al grave incarco
Tornò Partenio; punto odiato, e rio!
De’pria sopiti sensi a forza sveglio,
E ’l sogno, e ’l sonno in un svanì, finio.

Od. Ma come fu Partenio così semplice,
Ch’unqua non prese mai vera notizia
Del Nome, e gesta di quella chiar’Anima,
Che lieta or gode là su nell’Empireo?

El. Come? non tel diss’io? Lasciato ho il meglio;
Sovraffatta da gioia e da spavento,
Non m’accerto, s’anch’io dormo, o pur veglio.
Quello è, che noi ben cento volte, e cento
Piangemmo (ahi troppo amara ricordanza!)
Dareclide gentil, di fresco spento.

Od. Aimè, che dolce insieme atra memoria!
Questi bei prati, e colli, non v’ha dubbio,
Che con la morte del Pastor Dareclide
Feron acerba irreparabil perdita;
Ma la nostra Stadera ivi nel Portico
Sai quant’è immersa in dura amaritudine,
E nel lutto comun l’incomparabile
Nostr’Amico: e sì caro a Febo, Lelio
Sovra tutt’altri ingombro è di mestizia.
Quel desso, in cui costumi, e studi unisconsi,
Che in grazia del savere a comun’utile
Fe’palestra di scienze il suo tugurio,
Ove i più colti spesso insieme unisconsi,
Trovando ivi lor menti esca a lor genio.

El. Basta fin qui: se brieve è la distanza
Dal mausoleo, dove riposan l’ossa
Del Pastor Santo: andiam; ma rimembranza
Facciam, fin dove giunge or nostra possa,
Cantando pe ’l cammin sue eroiche gesta.

Od. Ecco ti sieguo: ma, a dir vero, sembrami,
Ch’esigga il caso alte, e sublimi formole;
Perciò cantiam, se vuoim quelle, che Opico
Nostro dotto Pastore a tal proposito
Rime intessè, che avrem forse a memoria.

El. Pronta son’io, ma tu darai la mossa,

Od. No, tu incomincia, io sieguo i tuoi vestigi.

El. Or, che nel sen di Dio
Godi, beato Spirto, eterna pace
Con quella di sapienza accesa face
Infiamma il petto mio,
Che se appien dir di te mai non potrei,
Non ti oltraggino almeno i detti miei.

Od. Ilaritade onesta,
Eguaglianza, splendor, venusto aspetto,
D’amicizia fedel sede e ricetto,
Lucida mente, e presta,
Gentilezza, decor, maniere accorte
Ci tolse in un con lui barbara morte.

El. Ma per dirne almen poco:
In quella di lassù Divina scienza
Nel penetrar la Trina Unica Essenza
Chi prenderà il suo loco,
In quella, in cui più l’Uom cõvien, ch’intenda
Per cieca Fé, che per ragioni apprenda.

Od. Tralasciar non si debbe
L’arte, che avea del dir dotto, e sublime,
Oltre il natio sermone in prose, e ’n rime.
Quella che si dovrebbe
Nomar, se con giustizia ho a diffinire,
Luminiera del vago e ornato dire.

El. Fu intelligente appieno
In ciò, che a stabilir ci aguzza e induce
L’Ente divino, Umano, il Ciel, la luce:
Siasi, o no, il vano, o il pieno.
Bella Filosofia, narralo tu,
Se meglio in divisarti altri mai fu.

Od. Per quel, ch’immagino, appunto è quello...
El. Si, non v’è dubbio, ecco l’avello,
Od. Ove or riposasi la fredda spoglia.
El. Ahi! che più aumentasi la nostra doglia.
Od. Or via orniamolo
Di fronde e fiori,
El. E a lor s’unificano
I nostri cori.
Od. Di caldo latte spargasi
El. Misto con mel purissimo.
Od. Ed ecco pervenutene
El. Del sacro rito al termine.
Od. Cara Elinda, posiamoci al sasso accanto
El. Si, per isfogo al troppo giusto pianto.

Isabella Mastrilli

Ultimi Ufficj del Portico della Stadera - Al P. Giacomo Filippo Gatti tra i Porticesi Pompeo Acquaviva - In Napoli 1746 nella Stamperia de' Muzj (pagine 204)

 
 
 
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