Creato da livieroamispera il 03/04/2013

Bibliofilo arcano

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Er fumo e la nuvola

Post n°717 pubblicato il 11 Febbraio 2014 da livieroamispera
 

Er fumo e la nuvola

Un Fumo nero nero e fitto fitto,
ch'esciva da la cappa d'un cammino,
annava dritto, a sbuffi, verso er celo.
Tanto che per un pelo
sbatteva in una Nuvola abbottata;
una Nuvola bianca ch'era stata
assieme a le compagne
a fa' 'na pioggia de beneficenza
pe' tutte le campagne.
— Perché te metti su la strada mia?
— je disse er Fumo — Levete davanti!
Io so' fijo der Foco! Passa via!
— Sai, nun m'incanti! —j'arispose lei —
Fai male a di' 'ste cose propio a noi:
nun te fa' der paese che nun sei!
Conosco tanta gente
che se dà 'st'arie e poi
l'acchiappi, strigni, guardi, e nun c'è gnente...
Datte puro 'sto fumo, ma fai male
a racconta che venghi su dar foco:
perché tu sai benissimo ch'è un coco
che còce una braciola de majale.

Trilussa

 
 
 

Desta dal mortal sonno ecco ten riedi

Desta dal mortal sonno ecco ten riedi

Desta dal mortal sonno ecco ten riedi
Anima bella, al tuo primier soggiorno;
E del Sol di giustizia al vero giorno
Le tue glorie e 'l mio pianto or godi e vedi.

Tu fra l'anime elette altera siedi,
Che fan corona al tuo Fattor d'intorno;
Io fra mesti sospir' pur, lassa, aggiorno,
Veri del mio natal seguaci eredi.

Se de' tuoi bei desir' giunta alle mete
Non obbliasti lo mio antico amore,
Prega il Signor, che le mie voglie acchete:

E faccia sì, che questo infermo core,
Dopo le fosche notti, ore più liete
Teco vegna a goder fuor d'ogni errore.

Ippolita Cantelmi Carrafa

Recanati, Giovanni Battista, Poesie italiane di rimatrici viventi, raccolte da Teleste Ciparissiano (Venezia: Per Sebastiano Coleti, 1716), p. 266
Bergalli Gozzi, Luisa, ed., Componimenti poetici delle piu illustri rimatrici d' ogni secolo (Venezia: Antonio Mora, 1726), pt. 2, p. 235.
Delle Rime Scelte di Varj Illustri Poeti Napoletani, Volume Primo, In Firenze a spese di Antonio Muzio, 1723.
Rime degli Arcadi, Volume 6.
 
 
 

D'inusitata luce ornata...

D'inusitata luce ornata, e bella

D'inusitata luce ornata, e bella
Per la via del piacer Venere andava,
E colla destra al picciol Dio mostrava
Coronata di fior l'Alma novella:

Rise allora Cupido, e rise anch'ella,
E del riso del figlio il fin pensava,
E fra se ne dicea: poc'anzi errava
Mesto, or lieto è Cupido, arde ogni stella.

Amor, poi disse, il tuo ridente aspetto
Nuova cosa mi addita; i tuoi focosi
Strali, chi sa di cui feriro il petto?

Ed egli: I miei trionfi or son pomposi,
Che, mercè del mio dardo, in uno ho stretto
Marcantonio, e Faustina, amanti, e sposi.

Ippolita Cantelmi Carrafa

Delle Rime Scelte di Varj Illustri Poeti Napoletani, Volume Primo, In Firenze a spese di Antonio Muzio, 1723.

 
 
 

Alme gentili...

Alme gentili, or d'ogni grazia ornate

Alme gentili, or d'ogni grazia ornate
Lassù nel Cielo infra i beati cori,

Ove d'eterni e non caduchi Amori

Per godere il ben fin l'ali spiegate,

O quanti Adria felice alla pietate
D'un sì nuovo stupor mostra stupori:
Adria, che i corpi accoglie, e i primi fiori
Vide di voi nella nascente etate!

Sposi di pari ardor, pari di sorte,
Ch'ambi sorte vi strinse a un egual male,
Ambi in un tempo egual vi chiamò morte.

E al vostro primo lume il corso eguale
Tenendo, gite là con fide scorte,
Ove mente non giunge, occhio non sale.

Ippolita Cantelmi Carrafa

In Rime degli Arcadi, Volume 6
Delle Rime Scelte di Varj Illustri Poeti Napoletani, Volume Primo, In Firenze a spese di Antonio Muzio, 1723.
 
 
 

Ippolita Cantelmi Carrafa

Ippolita Cantelmi Carrafa (Popoli, 7 dicembre 1677 - Roccella, 20 luglio 1754), secondo Bergalli e Recanati, o anche Ippolita Cantelmo Stuart (nota anche come Caraffa, nonché con il nome arcadico di Elpina Aroate o Elpina Aroeta), Duchessa di Bruzzano, fu una poetessa italiana vissuta a cavallo tra il XVII ed il XVIII Secolo, animatrice di un famoso salotto letterario nelle stanze di Palazzo Carafa di Roccella a Napoli.

Di lei conosco otto sonetti, sette dei quali sono riportati nel sesto volume delle Rime degli Arcadi ed altrettanti nel primo volume "Delle Rime scelte di Varj Illustri Poeti Napoletani", in Firenze a spese di Antonio Muzio, 1723; le stesse poesie sono contenute in varie raccolte.

La Carrafa fu molto amica del Vico (vedi "Logos", Rivista di Filosofia, n. 8/2013, pag. 32), il quale trasse da tale amicizia un gran giovamento, vedendo aumentare in modo considerevole la propria reputazione:  "A far «salire» il Vico, come è noto, contribuì anche l’epitalamio composto nel giugno 1696 per le nozze di Vincenzo Carafa di Bruzzano con donna Ippolita Cantelmo Suart, dato alle stampe qualche anno dopo, quando fu inserito dall’abate Giovan Lorenzo Acampora nella sua Raccolta di poeti napoletani non più ancora stampati, edita a Napoli nel 1701. Quei versi furono il primo anello di «un’amicizia fraterna» fra il filosofo e la nobildonna, che durò fino alla morte di quest’ultimo.".

Edizioni note:

1. Cantelmi Carafa, Ippolita, fl. 1716; Hillman, Cynthia; Quaintance, Courtney K., ed., Miscellaneous Poems (Chicago: Italian Women Writers Project, 2007).
2. Cantelmi Carafa, Ippolita, fl. 1716; Bergalli Gozzi, Luisa, 1703-1779, ed., "Rime" (Venezia: Antonio Mora, 1726) in Componimenti poetici delle più illustri rimatrici d'ogni secolo, pt. 2, p. 235-236.
3. Cantelmi Carafa, Ippolita, fl. 1716;3. Gobbi, Agostino, 1686-1709, ed., "Rime" (Venezia: Lorenzo Baseggio, 1739) in Scelta di sonetti, e canzoni de' più eccellenti rimatori d' ogni secolo Quarta ed., con nuova aggiunta.
4. Cantelmi Carafa, Ippolita, fl. 1716; Recanati, Giovanni Battista, 1687-1734/35 (pseud. Teleste Ciparissiano), ed., "Sonetti" (Venezia: Sebastiano Coleti, 1716) in Poesie italiane di rimatrici viventi raccolte da Teleste Ciparissiano pastore arcade.
5. Cantelmi Carafa, Ippolita, fl. 1716; Albani, Agnello; Antonini, Annibale, 1702-1775; Stampiglia, Silvio, 1664-1725; Antonelli, Gian Carlo, 1690-1769; Antonini, Annibale, 1702-1775, ed., "Sonetto" (1722) in Rime sulle nozze degli eccellentissimi signori D. Marc'Antonio Conti duca di Guadagnolo e donna Faustina Mattei de' duchi di Paganica, p. 203.

 
 
 

Scoscese rupi...

Post n°712 pubblicato il 10 Febbraio 2014 da livieroamispera
 

Scoscese rupi, orrido speco, e nero

Scoscese rupi, orrido speco, e nero,
Funesti alti cipressi, atre caverne;
L' occhio doglioso in voi più non discerne
Quel tetro taciturno orror primiero.

Da che mio reo destin spietato, e fero
Mi sferza, e pugne ognor con doglie interne,
Più dolci sembran vostre asprezze esterne
Al combattuto mio stanco pensiero.

Sprezzo l' umane cose, odio me stessa,
Scerno in lor, veggio in me d' infido amante
L' immago ingannatrice a segni impressa:

Ma, lassa, oh Dio, troppo quel bel sembiante
Un dì mi piacque, onde per legge espressa
L' amai fido, or l' adoro anche incostante.

Isabella Mastrilli

Gobbi, Agostino, ed., Scelta di sonetti, e canzoni de' più eccellenti rimatori d' ogni secolo, Quarta ed., con nuova aggiunta (Venezia: Lorenzo Baseggio, 1739), p. 627.
Mastrilli, Isabella (?-1717) Collected Poems [1700] (Chicago: Italian Women Writers Project, ca. 1700), Ed. Hillman, Cynthia; Quaintance, Courtney K
Delle Rime scelte di Varj Illustri Poeti Napoletani, Volume Secondo, In Firenze a spese di Antonio Muzio, 1723.

 
 
 

Elinda e Odorica

Post n°711 pubblicato il 10 Febbraio 2014 da livieroamispera

Sogno o vaneggio! Ah mi rappiglia il cuore

Sequela del precedente (di Silverio Gioseffo Cestari, col nome di Momino, ed Appiano Buonafede, col nome di Fortunio)
Elinda, Odorica

El. Sogno o vaneggio! Ah mi rappiglia il cuore
Insolito stupor: per ogni vena
Sento che mi ricerca un sacro orrore.
Fia mai ver quel che intesi? Io reggo appena:
Ma non accaso fe’la forte amica,
Che tanto udissi: Io mi darò la pena
Di ragguagliare Arcadia; io la fatica
Imprenderò. Dolci compagne amate,
Amarilli, Nerea, Clori, Odorica:
Odorica a te parlo: ah trascurate
Non sian da te mie voci: un poco lascia
Di premer latte, e stringer le giungate.
Ecco ti son vicina; or via tralascia,
Ch’è fuor di tempo, il serio lavorio:
Vé che, per ratta a te venir, l’ambascia
M’ha concia, che parlar più non poss’io.
Neppur mi guarda, e più al suo far s’interna!
Pur cosa ho a dir che appaga il tuo desio.
Io già non reggo. Ormai più non governa
Ragione i sensi mie. Ninfa arrogante,
E credi tu, con la fint’aria esterna
Di rigidezza farti più prestante?
Se a te d’altri sì poco, ad altri cale
Nulla di te, superba e non curante.
Se ’l vuoi, già stringo il corpo alle cicale;
E un cantar sentirai che te n’incresca;
Sebben so che me n’abbi a voler male.

Od. Non più, non più gridar, che ormai rovinano,
Mercè i tuoi stridi i monti, ed i tugurii.
Ninfa vezzosa, no, non tanta collera.
Oh la Monna gentil, che sputa in aria!
Vedi che tanto sdegno ormai può toglierti
Dalle guance il color, dagli occhi il fulgido.
Langueria molto il bel regno di Venere,
Se te, che fe’ di quello il miglior mobile,
Per rio disdegno alfin dovesse perdere.

El. So che ’l tuo dir sempre col fiel si mesce:
Di te non fu, né vi sarà in appresso
Più trista, e cuor più avaro, ove ognor cresce
Brama di straricchir, che fatti spesso
Increscevole agli altri, a te noiosa.
Oh! per te e’farebbe il grand’eccesso,
Se andasse a mal picciola, e lieve cosa:
Una stilla di latte, o pur due fiori,
Che tu perdessi, non avresti posa!
E pinger credi a bei chiari colori
Di prudenza, modestia, e finto zelo
La malnata avarizia e i sozzi orrori;
Pensi coprir di specioso velo.
Chi detto avria, che fosse sì insolente!
Ma pria del vizio il lupo perde il pelo.

Od. Già si sa che chi lava il capo all’asino,
Il ranno ed il sapon sempre va a perdere:
Perciò ti lascio dir. Ma maravigliomi,  55
Come qui ti trattien: vé che t’aspettano
Pastori, e Pastorelle; e que’languiscono
Senza la gran maestra de’tripudii.
In altra parte, e appunto di Silvirio
Nel noto pian, forse già corso è il palio.
In riva al fiume, e non sai con qual’ansia,
Se’desiata fuora d’ogni credere
Per tesser danze a suon di cetre e pifferi.
Vedi ch’il Sole è già presso al meriggio,
E tu ne stai sì neghittosa e torpida 65
Col trascurar l’ufficiose visite
Per tutte le capanne e li tugurii,
Che nella nostra abbiam fiorita Arcadia.

El. Lingua di Momo, trista e mal dicente:
Vella, vella la Monna schifa il poco,
Che recarsi a coscienza ha sol’in mente
Non vietati piaceri; ed ora il foco,
Che vomita da quella infame bocca
Putente e nero le rassembra un gioco
Saper dei tu, ch’io so, qual forte rocca,
Mio contegno serbar: ma tu che dici...
Orsù partiam, che il sacco ormai trabocca.
Questo vo’dir, che sol stim’io felici
Que’momenti, in cui sappia conservarmi
Con maniere cortesi Amiche, e Amici.
Ciaschedun sa ferir colle sue armi.
Tienti la sordidezza a te gradita,
Né temer, ch’unquemai te ne disarmi:
Ch’io vo’seguir l’incominciata vita.
Eh Partenio, Partenio, sol tu sei
Cagion, ch’abbia i’a garrir con questa ardita.
Pur ciò, ch’io dir dovea, forma per lei
La maggior gloria; ed ella se n’offende.
Vé qual rende mercede a’merti miei.

Od. Anzi pan per focaccia io fui nell’obbligo
Renderti, se le tue frizzanti ingiurie
Mi fu forza con altre alfin ribattere.
Ma ogni cosa è dover ch’abbia il suo termine.
Lo so io, sallo il Ciel, se ne’precordii
Soffro di ciò, che avvenne, alto rammarico.

El. No no, Odorica non la dici intera.
Mosso s’è in te il vespaio per la strana
Cosa, che ho a dir prodigiosa, e vera.

Od. No, Elinda cara, non è come immagini;
Me sol costrinse l’amor forte, e tenero
Ch’ebbi sempre per te. Orsù finiamola.
So pur ben, ch’ogni nodo viene al pettine,
E infin sebben qui non siam’in Arcadia,
Pur rammento, che avemmo nostra origine
Ambe in un punto stesso, e non v’ha dubbio,
Nella bella, gentile, alma Partenope.
So pur che tu non se’di quella specie
Di Donne schive, che sputan nel zucchero;
Ma un cuoe in petto hai generoso e facile.

El. Tu perché sai l’indole mia, ch’è piana,
E sì dolce a piegar, così mi tratti:
Ma tua credenza non farò sia vana.
Fine dunque al garrir: si venga a’fatti.
Dal pian del cedro, come tu ben sai,
È lungi il mio tugurio pochi tratti.
Or già sparsi del Sol veggendo i rai,
Dritta al gregge ne gia studiando il passo,
Quando alcun grido intesi, e pochi lai:
Io a me stessa fei riparo in un sasso;
Ed ivi ascosa Monimo vid’io
Sgridar Partenio, che smagrato e lasso
Chiamava il suo destin barbaro e rio,
Perché l’altro destarlo allora gli piacque,
E un sogno infranse armonioso e pio.

Od. Aspetta: intendi tu del pastor Monimo,
Colui che pochi ha, ch’in saver l’agguagliano,
Caro tanto alle Muse, e a noi sì amabile?

El. Di questo appunto, ch’anche in seno ei nacque
Delle Sirene al bel Sebeto in riva.
Soglion sovente quelle limpid’acque
Dotta mente ispirar facile e viva.

Od. Perciò queste due alme chiare e lucide
Han tra loro legge tanta amicizia:
Perché, come ben sai, Partenio il giovine
È dotto molto, illuminato e savio...
Ma non tenermi a stento, il sogno narrami.

El . Disse: che gli parea esser del Mondo
Tratto in istante, e pe’l sentier, ch’apriva
Spirto sublime, in viso almo giocondo,
Rompendo i Ciel sen gia col chiaro Duce
Libero e scarco de l’usato pondo.
Ma che dir potran mai prive di luce
Che dan le scienze, ignare pastorelle?
Pure il forte desio mi sprona e induce
A dirt’in brieve delle cose belle,
Che lassù vide. Egli premè col piede
Nubi, Cieli, Pianeti, e Luna, e Stelle.
Anzi più Lune raggirarsi ei vede
Intorno al Sol; ed altri mari, e laghi,
Colli, piani ei truovò, ch’ivi han lor sede.
Tanto in su andò fra i spazi ameni e vaghi,
Che...Io ’l dirò; ma nol crederai tu,
O se ’l credi, non fia che te n’appaghi.
Fe’ la guida fissarli i lumi in giù,
E neppur vide nostr’Arcadia, tanto
Nel mondo nota. Or vé quant’era in su!

Od. Mi maraviglio: ma la nostra Napoli,
Che non si distinguesse egli è impossibile.

El. Che Napoi, che Arcadia! oh quanto, oh quanto
Cieche siam noi, che non veggiamo il vero!
Ma seguiam nostra narrativa intanto.
Cosa ora ho a dir, che renderà più altero
Il fasto tuo, perciò frena l’orgoglio.
Mentre che gìan per sì strano sentiero,
Disse a Partenio il Duce: Io saper voglio
(Giacchè di là tu vieni, u’annotta, e aggiorna,
Ed ove il Veglio ingordo ha sede e soglio)
Se la Stadera mia mantiensi adorna:
E poi benigno fe’ di te memoria.
L’altro rispose ciò, che innalza, ed orna
Fin a troppo il tuo nome, e la tua gloria.

Od. E d’onde la baldanza può in me nascere?
So pur troppo ben’io ove può giungere,
Se s’ha a librar con peso di giustizia,
Lo scarso d’una Donna angusto merito,
È vero, che in pensar sol che mi lodano
Persone tali, s’io fossi più facile,
Adombrar mi potria folle superbia:
Ma son d’inganno tal disciolta e libera.
Chi mi loda, tramanda in me sua gloria,
E mia parte sol fia l’umil modestia.

El. Ben pensi. Noi dappoco, ignare, e corte
Come degne sarem di chiara storia!

Od. Ma troppo uscite siam; tornare io pregoti
Al racconto stupendo, che sorprendemi.

El. Disserrar vid’ei dunque aurate porte,
Ed una uscir che ben non mi sovviene,
Urania parmi; e con maniere accorte,
Vaga saggia gentil. Dice che viene
Per introdur quell’Alma inclita e pura,
U’si gode in eterno il sommo Bene.
Altri nomò, ma par mia mente scura,
Che va a mãcarmi, or che son presso al varco;
Onde non son di ben narrar sicura.
Disse di alcuni, Tolomeo, Ipparco,
Copernico, Ticone, e che so io?

Od. Questi, se ’l vero intesi, son Filosofi,
Che ne’corpi celesti il guardo fisano,
E parmi, parmi, che chiamansi Astronomi;
Di que’, che fan sistemi, apron fenomeni;
Ma da ciò, narra, che mai venne in seguito?

El. Questo fu il punto, in cui al grave incarco
Tornò Partenio; punto odiato, e rio!
De’pria sopiti sensi a forza sveglio,
E ’l sogno, e ’l sonno in un svanì, finio.

Od. Ma come fu Partenio così semplice,
Ch’unqua non prese mai vera notizia
Del Nome, e gesta di quella chiar’Anima,
Che lieta or gode là su nell’Empireo?

El. Come? non tel diss’io? Lasciato ho il meglio;
Sovraffatta da gioia e da spavento,
Non m’accerto, s’anch’io dormo, o pur veglio.
Quello è, che noi ben cento volte, e cento
Piangemmo (ahi troppo amara ricordanza!)
Dareclide gentil, di fresco spento.

Od. Aimè, che dolce insieme atra memoria!
Questi bei prati, e colli, non v’ha dubbio,
Che con la morte del Pastor Dareclide
Feron acerba irreparabil perdita;
Ma la nostra Stadera ivi nel Portico
Sai quant’è immersa in dura amaritudine,
E nel lutto comun l’incomparabile
Nostr’Amico: e sì caro a Febo, Lelio
Sovra tutt’altri ingombro è di mestizia.
Quel desso, in cui costumi, e studi unisconsi,
Che in grazia del savere a comun’utile
Fe’palestra di scienze il suo tugurio,
Ove i più colti spesso insieme unisconsi,
Trovando ivi lor menti esca a lor genio.

El. Basta fin qui: se brieve è la distanza
Dal mausoleo, dove riposan l’ossa
Del Pastor Santo: andiam; ma rimembranza
Facciam, fin dove giunge or nostra possa,
Cantando pe ’l cammin sue eroiche gesta.

Od. Ecco ti sieguo: ma, a dir vero, sembrami,
Ch’esigga il caso alte, e sublimi formole;
Perciò cantiam, se vuoim quelle, che Opico
Nostro dotto Pastore a tal proposito
Rime intessè, che avrem forse a memoria.

El. Pronta son’io, ma tu darai la mossa,

Od. No, tu incomincia, io sieguo i tuoi vestigi.

El. Or, che nel sen di Dio
Godi, beato Spirto, eterna pace
Con quella di sapienza accesa face
Infiamma il petto mio,
Che se appien dir di te mai non potrei,
Non ti oltraggino almeno i detti miei.

Od. Ilaritade onesta,
Eguaglianza, splendor, venusto aspetto,
D’amicizia fedel sede e ricetto,
Lucida mente, e presta,
Gentilezza, decor, maniere accorte
Ci tolse in un con lui barbara morte.

El. Ma per dirne almen poco:
In quella di lassù Divina scienza
Nel penetrar la Trina Unica Essenza
Chi prenderà il suo loco,
In quella, in cui più l’Uom cõvien, ch’intenda
Per cieca Fé, che per ragioni apprenda.

Od. Tralasciar non si debbe
L’arte, che avea del dir dotto, e sublime,
Oltre il natio sermone in prose, e ’n rime.
Quella che si dovrebbe
Nomar, se con giustizia ho a diffinire,
Luminiera del vago e ornato dire.

El. Fu intelligente appieno
In ciò, che a stabilir ci aguzza e induce
L’Ente divino, Umano, il Ciel, la luce:
Siasi, o no, il vano, o il pieno.
Bella Filosofia, narralo tu,
Se meglio in divisarti altri mai fu.

Od. Per quel, ch’immagino, appunto è quello...
El. Si, non v’è dubbio, ecco l’avello,
Od. Ove or riposasi la fredda spoglia.
El. Ahi! che più aumentasi la nostra doglia.
Od. Or via orniamolo
Di fronde e fiori,
El. E a lor s’unificano
I nostri cori.
Od. Di caldo latte spargasi
El. Misto con mel purissimo.
Od. Ed ecco pervenutene
El. Del sacro rito al termine.
Od. Cara Elinda, posiamoci al sasso accanto
El. Si, per isfogo al troppo giusto pianto.

Isabella Mastrilli

Ultimi Ufficj del Portico della Stadera - Al P. Giacomo Filippo Gatti tra i Porticesi Pompeo Acquaviva - In Napoli 1746 nella Stamperia de' Muzj (pagine 204)

 
 
 

Er pudore

Post n°710 pubblicato il 10 Febbraio 2014 da livieroamispera
 

Er pudore

In fonno all'orto c'è un pupazzo antico;
un gueriero de marmo, tutto ignudo:
co' la spada e lo scudo
e la foja de fico.
Una Lumaca scivola e je striscia
su la parte più lucida e più liscia
e se ferma in un posto che nun dico...
Ossia lo dico subbito, perché
co' quarche moralista c'è pericolo
che vada cór pensiero a chi sa che!
Se tratta der bellicolo.

Ecco che un Ragno nero,
ch'ha filato una tela rilucente
da la spada a la testa der gueriero,
(l'ha fatto certamente
pe' regolà l'azzione cór pensiero),
je va incontro e je chiede: - E indove vai?
Una Lumaca onesta nun fa mai
passeggiate sur genere de questa:
se poi perdi la stima, come fai? -

A la parola stima
la Lumaca s'imbroja, se confonne:
poi, risoluta, corre e s'annisconne
sotto a la foja che v'ho detto prima.
E dice ar Ragno: - Vedi, amico mio?
Ho conosciuto un sacco de signore
che in certi casi sarveno er pudore
co' lo stesso sistema che ciò io...

Trilussa

 
 
 

L'onore

Post n°709 pubblicato il 09 Febbraio 2014 da livieroamispera
 

L'onore

— Povera società senza giudizzio!
Povera nobbirtà senza decoro!
— diceva un Rospo verde in campo d'oro
dipinto su uno stemma gentilizzio. —

Che diavolo direbbe l'antenato
se doppo dieci secoli a di' poco
sapesse ch'er nepote vince ar gioco
cór mazzo de le carte preparato?

— Va' là! — je fece un'Aquila d'argento
appiccicata su lo stemma stesso. —
Quel'antenato che stimamo adesso
nun era che un teppista der Trecento.

È er tempo che nobbilita: per cui
è inutile che peni e te ciaffanni.
Er nipote che rubba, tra mill'anni,
diventa un antenato puro lui.

Trilussa

 
 
 

Quali vegg’io...

Post n°708 pubblicato il 09 Febbraio 2014 da livieroamispera
 

Quali vegg’io scoscese balze, e rupi,

Quali vegg’io scoscese balze, e rupi,
Fosche grotte, ner’antri, atri cipressi,
Minacciosi baleni orridi e spessi,
Larve, nottole triste, ingordi lupi.

Tutti in proprio sermon noiosi e cupi
Mandano stridi; indi dal duolo oppressi
Turban greggi, ed armenti; ond’è ch’espressi
Lascian segni di strage in que’dirupi.

Voci odo intanto miste a crudi lai:
Morte morte, alternando, orrida morte,
Morte, cagion del nostro acerbo affanno!

Lassa! qual grave danno esser può mai,
Che terra, ed aere a tanto duol trasporte?
Ahimè! Morto è Pompeo. Qual maggior danno?

Isabella Mastrilli

Ultimi Ufficj del Portico della Stadera - Al P. Giacomo Filippo Gatti tra i Porticesi Pompeo Acquaviva - In Napoli 1746 nella Stamperia de' Muzj (pagine 204)

 
 
 

Qual di barbara gente...

Post n°707 pubblicato il 09 Febbraio 2014 da livieroamispera
 

Qual di barbara gente inqua schiera

Qual di barbara gente inqua schiera
L'inerme peregrin tra via con fello
Impeto assale, ond'è ch' il meschinello
Scampo a la dubbia vita indarno spera;

Scorge da presso già l'ultima sera,
Nè sa se quello è il fatal colpo, o quello,
Che a morte il tragge, e indarno il fier drappello
Guatando piagne: ahi crudel sorte, e fiera!

Tal'io tra mille danni or serena,
Lassa, non veggio ancor, nè stanco, o sazio
D'insidie atroci Amor promette calma.

Così passando vo di pena in pena
Trista, e dolente, e d'uno in altro strazio,
Nè so qual di mia morte avrà la palma.

Isabella Mastrilli

Delle Rime scelte di Varj Illustri Poeti Napoletani, Volume Secondo, In Firenze a spese di Antonio Muzio, 1723.

 
 
 

La notte, che succede...

Post n°706 pubblicato il 09 Febbraio 2014 da livieroamispera
 

La notte, che succede al fausto giorno

La notte, che succede al fausto giorno
In cui s' adora il Redentor risorto,
Mentre ogni senso era nel sonno assorto,
Che l' umid' ali a me spandeva intorno;

Pareami di veder l' alto soggiorno
Del divo Apollo atro, dolente, e smorto,
E mesto ei dir; non più bramo conforto,
Dotte Muse, da voi col canto adorno.

Stupida allor chinando al suolo i rai,
Dissi con fievol voce: altero Nume,
Qual rea cagion si ti confonde, e attrista?

Ed ei: destati, Elinda, e lo saprai.
Sorgo, ed odo piangendo: e spento il lume,
Che al saver ne scorgea, morta è Batista.

Isabella Mastrilli

Bergalli Gozzi, Luisa, ed., Componimenti poetici delle piu illustri rimatrici d' ogni secolo (Venezia: Antonio Mora, 1726), pt. 2, p. 236.
Mastrilli, Isabella (?-1717) Collected Poems [1700] (Chicago: Italian Women Writers Project, ca. 1700), Ed. Hillman, Cynthia; Quaintance, Courtney K
Delle Rime scelte di Varj Illustri Poeti Napoletani, Volume Secondo, In Firenze a spese di Antonio Muzio, 1723.

 
 
 

Da la beata, eterna, alta magione

Post n°705 pubblicato il 09 Febbraio 2014 da livieroamispera
 

Da la beata, eterna, alta magione

Da la beata, eterna, alta magione,
Ove tra mille e mille eletti cori
Vivommi lungi dagli umani errori,
Dal tempo, che lasciai la fral prigione,

Perchè mi chiami? e dove? e chi l'impone
Sublime genio de' miei sacri allori?
Tu, che quaggiù tergesti i miei sudori,
E di palme e trofei fosti cagione,

Vuoi che là volga i lumi, ove del Lazio
Siede l'alma Città, che grata io veggo
Rinnovar la di me spenta memoria.

Chi m'illustrò dopo sì lungo spazio?
Sì, per te, Sommo Vero, in Cielo io seggo,
Per te, Luigi, in terra ho nuova gloria.

Isabella Mastrilli

Delle Rime scelte di Varj Illustri Poeti Napoletani, Volume Secondo, In Firenze a spese di Antonio Muzio, 1723.

 
 
 

Calde lagrime mie...

Post n°704 pubblicato il 09 Febbraio 2014 da livieroamispera
 

Calde lagrime mie, voi, che sovente

Calde lagrime mie, voi, che sovente
La più remota e solitaria parte
Del mio albergo irrigate a parte a parte,
Unico sfogo di mia doglia ardente;

Gitene a lui, che di mia stanca mente
Tien l' alto impero, e dite (onde abbia in parte
Pace il mio cor) che spesso in marmi, e in carte
Suo nome a imprimer va mia man dolente.

Dite che l' ardor mio, lassa, ormai veggio
In vasto incendio alzarsi, onde il martire
Forza è che scopra, o che tacendo io mora.

Ma perchè grave errore il primo fora,
E sperar pace altronde è van desire,
Morte chiamo sovente, e morte chieggio.

Isabella Mastrilli

Gobbi, Agostino, ed., Scelta di sonetti, e canzoni de' più eccellenti rimatori d' ogni secolo, Quarta ed., con nuova aggiunta (Venezia: Lorenzo Baseggio, 1739), p. 627.
Mastrilli, Isabella (?-1717) Collected Poems [1700] (Chicago: Italian Women Writers Project, ca. 1700), Ed. Hillman, Cynthia; Quaintance, Courtney K
Delle Rime scelte di Varj Illustri Poeti Napoletani, Volume Primo, In Firenze a spese di Antonio Muzio, 1723.

 
 
 

A che sì neghittosi...

Post n°703 pubblicato il 09 Febbraio 2014 da livieroamispera
 

A che sì neghittosi, e in aria mesta

A che sì neghittosi, e in aria mesta
Amici eccelsi Vati? Ah! Non è questa
L’antica vostra a me pur nota, e rara,
Umilmente altera, e lieta usanza.
Voi neppur me guardate! Io son pur quella
Tanto a voi cara Madre alma Colomba;
Per cui la chiara tromba
Di gloriosa fama appena ha fiato.
Ma, se il vero mi avviso,
L’insigne tra di voi io non diviso
Raro eccelso compagno, il mio Pompeo;
Quei che più volte feo
Tra noi del suo savere auguste prove.
Ahimè! quale in voi scorgo
Dirotto, e mesto pianto? Ov’ei s’asconde?
Tremo, né so perché. Niun risponde?
Cari Figli, voi piangete,
E fissate i lumi al suolo!
Per pietà mi rispondete,
Tanto duolo,
Oh Dio! perché?
Ah! che un roco mormorio
Va spiegando i mesti accenti,
Che l’amabil Figlio mio
Più tra i vivi egli non è.

Ah! che non ha compenso il nostro affanno.
Ma qual dal Ciel discende
Raggio di chiara luce? Egli m’accende
E vuol che rincorata a voi favelli.
Non più mestizia e duol, dolci miei Figli,
Ciocché fa il vostro lutto,
Bella cagion di nuovo gaudio è in Cielo.
Egli dal sommo Amore
Già penetrato, a lui divien simile,
Qual ferro, che rovente, esce dal foco:
Egli, ch’eterno in Dio fruisce, e gaude,
Divin savere impetreravvi e laude.
Qual chiaro fonte,
Che giù dal monte
Nel prato scende,
Inaffia, e avviva
Quell’Acquaviva
Questo, e quel fior,
Così dal Cielo
Nelle vostr’alme
Ei lume accende,
E allori, e palme
V’appresta ognor.

Isabella Mastrilli

Ultimi Ufficj del Portico della Stadera - Al P. Giacomo Filippo Gatti tra i Porticesi Pompeo Acquaviva - In Napoli 1746 nella Stamperia de' Muzj (pagine 204)

 
 
 

Siccome a' raggi del sovran Pianeta

Siccome a' raggi del sovran Pianeta

Siccome a' raggi del sovran Pianeta
Gira lo stelo ognor quel vago fiore,
Che da lui prende il nome, e ' l bel colore,
Con cui s' adorna la stagion più lieta;

Così de' guardi miei l' unica meta
E' quel leggiadro, angelico splendore,
Di cui dipinse a Tirsi il volto Amore,
Ove ogni suo desio quest' Alma acqueta.

Ma qual di crudeltà mostro spietato
Mi asconde il Sole, e vieta, che i miei lumi
Pascere io possa in quel bel volto amato!

Ah, che fiamma del Ciel t' arda, e consumi,
Crudel, che turbi il mio tranquillo stato;
L' ira volgan ver te ben tutti i Numi.

Aurora Sanseverino Gaetani

Gobbi, Agostino, ed., Scelta di sonetti, e canzoni de' più eccellenti rimatori d' ogni secolo, Quarta ed., con nuova aggiunta (Venezia: Lorenzo Baseggio, 1739), p. 126.
Sanseverino Gaetani, Aurora (1669-ca.1730) Miscellaneous Poems [1701] (Chicago: Italian Women Writers Project, ca. 1701), Ed. Hillman, Cynthia; Quaintance, Courtney K.
Rime degli arcadi, Volume 3, pag. 187

 
 
 

Sfoga pur contro me...

Sfoga pur contro me, Cielo adirato

Sfoga pur contro me, Cielo adirato,
Quanto più sai tuo crudo, aspro furore,
Che indarno tenti di fierezza armato
Spegner favilla al mio cocente ardore.

Puoi ben tormi, ch' io possa in su l' amato
Volto nutrir questo affanato core;
Ma sveller non puoi già dal manco lato
Il dolce stral, con cui ferimmi Amore.

Sia mi pur sorte rea, ognor più infesta;
Viva pur l' alma in pianto, ed in cordoglio,
Che il mio fermo desir ciò non arresta.

Io son di vera fede immobil scoglio,
Cui di continuo il vento, e il mar tempesta,
Ma non si frange al lor feroce orgoglio.

Aurora Sanseverino Gaetani

Bergalli Gozzi, Luisa, ed., Componimenti poetici delle piu illustri rimatrici d' ogni secolo (Venezia: Antonio Mora, 1726), pt. 2, p. 185.
Questa poesia appare anche in: Crescimbeni, Giovanni Mario, L' istoria della volgar poesia scritta da Gio. Mario Crescimbeni (Venezia: L. Basegio, 1730-31), vol. 2, p. 519;
Ronna, Antoine, ed., Parnaso italiano. Poeti Italiani Contemporanei Maggiori e Minori Preceduti da un Discorso preliminare intorno a Giuseppe Parini e il suo secolo Scritto da Cesare Cantù (Paris: Baudry, 1847), p. 1029.
Sanseverino Gaetani, Aurora (1669-ca.1730) Miscellaneous Poems [1701] (Chicago: Italian Women Writers Project, ca. 1701), Ed. Hillman, Cynthia; Quaintance, Courtney K.
Rime degli arcadi, Volume 3, pag. 186

 
 
 

Poveri fior! ...

Poveri fior! destra crudel vi coglie

Poveri fior! destra crudel vi coglie,
V' espone al foco, e in un cristal vi chiude.
Chi può veder le viölette ignude
Disfarsi in onda, e incenerir le foglie?

Al giglio e all' amaranto il crin si toglie
Per compiacer voglie superbe e crude,
E giunto appena aprile in gioventude,
In lagrime odorose altrui si scioglie.

Al tormento gentil di fiamma lieve,
Lasciando va nel distillato argento
La rosa il foco, il gelsomin la neve.

Oh! di lusso crudel rio pensamento!
Per far lascivo un crin, vuoi far più breve
Quella vita che dura un sol momento.

Aurora Sanseverino Gaetani

Ronna, Antoine, ed., Parnaso italiano. Poeti Italiani Contemporanei Maggiori e Minori Preceduti da un Discorso preliminare intorno a Giuseppe Parini e il suo secolo Scritto da Cesare Cantù (Paris: Baudry, 1847), p. 1029.
Sanseverino Gaetani, Aurora (1669-ca.1730) Miscellaneous Poems [1701] (Chicago: Italian Women Writers Project, ca. 1701), Ed. Hillman, Cynthia; Quaintance, Courtney K.

 
 
 

Poichè a volger da me...

Poichè a volger da me, Tirsi, le piante

Poichè a volger da me, Tirsi, le piante
T' astringe del mio fato empio rigore,
Che dopo così lunghe angosce, e tante,
Rende del mio goder sì brevi l' ore:

Ben chiuderà nel sen quest' alma amante
Men dolce sì ma non men caldo amore,
Che, qual scolpito in marmo, od in diamante,
Porto il vago tuo volto in mezzo al core.

Ma gli occhi resteranno orbati, e privi
De la lor luce, e da l' acerbo affanno
Saran conversi in lagrimosi rivi.

Solo in parte scemar potria lor danno
Tua bella immago, e riserbarli vivi
Con finto sì, ma troppo dolce inganno.

Aurora Sanseverino Gaetani

Gobbi, Agostino, ed., Scelta di sonetti, e canzoni de' più eccellenti rimatori d' ogni secolo, Quarta ed., con nuova aggiunta (Venezia: Lorenzo Baseggio, 1739), p. 128.
Sanseverino Gaetani, Aurora (1669-ca.1730) Miscellaneous Poems [1701] (Chicago: Italian Women Writers Project, ca. 1701), Ed. Hillman, Cynthia; Quaintance, Courtney K.

 
 
 

Pianger teco dovrei...

Pianger teco dovrei, gentil Pastore

Pianger teco dovrei, gentil Pastore,
E Arcadia tutta accompagnar dolente,
Se del buon Padre tuo già fosser spente
L'alte virtudi, e 'l primo antico onore;

Ma perche sol caduto è il debil fiore
Di sua terrena spoglia egra, e languente,
E ritornata è al Ciel pura, e lucente,
Qual scese a Noi, la parte alta, e migliore;

Non si conviene a lui doglia, nè pianto,
Nè di Pindo la sacra ombra immortale
Turbar con voci querule, e dolenti.

Ma al suon' di chiari armoniosi accenti,
Da ria Morte involar' quel, ch'era frale
In lui, con lieti carmi, e dolce canto.

Aurora Sanseverino Gaetani

Rime degli arcadi, Volume 3, pag. 185

 
 
 

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