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Messaggi del 13/03/2006

Messaggio N° 1780 13-03-2006 - 12:35

La storia del vecchio Pin


Oggi voglio raccontarvi del vecchio Pin. Credo fosse l’unico uomo al mondo, almeno tra quelli da me conosciuti, a cui crescesse la barba sul naso. Quando si radeva, altre alle guance e al mento, doveva insaponare anche la grossa nappa e passarvi il rasoio per asportarne i fitti peli che la ornavano.

Non era molto alto ma aveva due spalle sulle quali la giacca sembrava imbottita, tanto erano larghe e possenti. Gli occhi avevano un perenne lampo irritato che contrastava nettamente con la sua indole buona e gentile.

Quando successe il disastro del Vajont contava circa sessant’anni.
In gioventù aveva fatto una vita durissima, frequentando i lavori più umili. Aveva girato diverse città del nord come venditore ambulante di oggetti in legno, ma nei suoi racconti parlava solo di Brescia. Era anche un buon artigiano, abile soprattutto nel fabbricare rastrelli da fieno e oggetti di legno al tornio. Il suo ultimo impiego era stato alla cava di marmo del monte Buscalda sopra il paese. In quella cava in cui tutti noi, prima o dopo, abbiamo passato parte della nostra vita.
Si era sposato non più giovane.

Una moglie buona e sensibile che lo aiutava a eludere le ombre che stavano dietro ai patimenti passati. La guerra lo aveva portato sui fronti d’Albania e di Grecia. Era tornato con una scheggia nella spalla destra. L’arto era rimasto difettoso ma non abbastanza per lo stato, che non gli concesse nemmeno la pensione minima.

Infine, dopo il cinquanta, un impiego da minatore nella cava di marmo. Lavoro duro che gli permetteva però di stare tra i suoi monti.

L’aria dei duemila metri lo ringiovaniva. Luglio concede giornate lunghe.
Spaccava sassi con la mazza per dieci ore al giorno. Verso sera girava tra le rocce a cogliere stelle alpine che il sabato portava alla moglie.

Si coricava presto rispetto agli altri operai e prima di addormentarsi consumava il rito di bere mezzo bicchiere di grappa tutto d’un fiato. Ogni tanto chiedeva a noi di andargli prendere la dose di acquavite. Qualche volta, per fargli uno scherzo, versavamo mezzo gotto di acqua pura della sorgente. Lui come al solito ingollava d'un sorso poi esplodeva in una sequela di parolacce al nostro indirizzo e non smetteva fino a che non gli portavamo la grappa vera. Dopo averla mandata giù in un lampo, ci porgeva il bicchiere e con un sorriso e uno sguardo complici esclamava: “Grazie canàis” (Grazie canaglie). Con quel sonnifero si addormentava tranquillo.

Si trovava nella cava la sera che il monte Toc scivolò nell’acqua del lago artificiale.
“Udimmo un forte rumore – mi raccontava – e pensai subito che fosse successo giù alla diga.”

Al mattino scesero tutti, Lui, in silenzio, la giacca sulla spalla come usava quando andava di fretta, si diresse verso la sua abitazione al Colle delle Spesse. Non trovò più nulla.

Della casa sua rimaneva soltanto il pavimento di lastre antiche. E neanche le altre esistevano più. L’intera frazione era scomparsa. Restavano soltanto gli impiantiti di pietra, che la furia dell’acqua non era riuscita a strappare.
Buttò la giacca su un sasso e si sedette sopra. Con mano malferma arrotolò una sigaretta.
Guardandosi attorno, si accorse che anche le altre frazioni erano scomparse. Gli raccontarono di Longarone rasa al suolo.

Respirava a fatica con singhiozzi che non riusciva a trattenere. Allora nella sua testa qualcosa si inceppò. Rimase tutto il giorno e la notte che venne seduto su quel sasso, gli occhi spalancati sul nulla.
Lavorò ancora qualche stagione, ma parlava sempre meno e in modo strampalato.

Tornò giù al paese e iniziò a bere grappa anche al mattino. Nei giorni che gli restarono da vivere non ebbe più cura di sé.

Il sussidio che l’assistenza gli passava finiva tutto in vino. Ogni tanto qualcuno lo invitava per un pasto caldo ma lui rifiutava sempre; non era tipo da accettare elemosine. Solo nel suo anno di vita, dopo che lo stato reputò di avergli dato abbastanza e sospese il sussidio, si umiliava a chiedere cento lire qua e là.

Raccoglieva le cicche dalla strada e quando ne aveva tre o quattro rifaceva la sigaretta con una striscia di giornale.

Era diventato il compagno inconsapevole di noi giovani. Spesso, quando era ubriaco, gli mettevamo dei soldi sulla tasca della giacca.

Lui, un tempo uomo di fede, ingenuo e pulito, non riusciva a capacitarsi che il Padre Eterno avesse permesso quell’immane sciagura. Si mise a pensare giorno e notte senza più dormire, finchè i cavalli del giudizio spezzarono i recinti e se ne andarono dalla sua testa.

Discuteva di continuo col Signore imprecando qualcosa a bassa voce e guardando continuamente verso l’alto. Era convinto di parlare direttamente con Dio.
Dormiva in una vecchia casa abbandonata dove era entrato senza pensarci tanto, sfondando la porta con un calcio. All’interno vi era una stufa che non si degnò mai di accendere, un tavolo su cui poggiare la bottiglia e una panca di legno per passare le notti.

Dormiva vestito o al massimo si toglieva le scarpe senza lacci. Noi, gli procuravamo un po’ di legna ma era tutto inutile, perché non aveva più voglia di riscaldare nessuna casa: gli era entrato il gelo nel cuore e non badava al freddo dell’inverno.
Quando un uomo non accende più il fuoco nel cammino è segno inequivocabile della sua fine.

Negli ultimi anni i cavalli del giudizio si erano lanciati sempre più lontano. Iniziò una ricerca giornaliera e metodica sulle rive sconvolte di quella che era stata una delle più grandi dighe del mondo. Tra macerie di ogni tipo, in un caos indiscrivibile di tronchi, lamiere, pezzi di case, tavolame e alberi spezzati era convinto di trovare la fede nuziale della sua povera moglie.
Lo incontravo quasi tutti i giorni mentre tornava su dalle sponde martoriate, avvilito; ogni volta teneva in mano qualche reperto che la sua immaginazione malata attribuiva alla sua casa scomparsa.

Un giorno lo vidi arrivare con lo schienale di un lettino. Piangendo disse che era di sua figlia Lucia. Affermò di conoscere bene il pezzo, perché quel lettino lo aveva costruito lui stesso. Ma il vecchio Pin non aveva figli ne’ figlie, era segno che la sua povera mente se ne era andata devastata dal dolore.

Un pomeriggio d’estate mi venne incontro tutto agitato tenendo una mano infilata nella tasca della giacca. Portava sempre la giacca, qualsiasi stagione fosse.
“L’ho trovato” disse sottovoce.
Gli brillavano gli occhi. Entrammo nell’unica osteria sopravvissuta al disastro. Mentre si sedeva accanto a me, senza togliere la mano di tasca, mi sussurrò di ordinare due quarti di rosso.

Teneva stretto un sudicio fazzoletto a fiorellini; lo svolse e, al centro della tela, comparve quello che per lui era l’anello matrimoniale di sua moglie.
Eccolo qua finalmente! Glielo avevo comperato a Brescia” mormorò.

Presi quel piccolo oggetto tra le dita e non ci misi molto a scoprire che si trattava di un umile cerchietto d’ottone, di quelli usati per far scorrere le tendine nel bastoncino di sostegno.
Provai tenerezza verso quell’uomo che, solo nella follia, era riuscito a fare suo quel sogno.
Mi guardai bene dal deludere la sua certezza e gli feci i complimenti. Era raggiante. Si vedeva che era fiero di se stesso per quel ritrovamento. Uscendo dall'osteria si incamminò verso la casa abbandonata baciando quella reliquia. A me parve avesse ritrovato il cuore stesso della sua donna, e solo in quel momento capii quanto l’amasse.

Non visse molto, dopo il ritrovamento della fede nuziale però sembrò più tranquillo. Visse poco meno di un anno. Negli ultimi mesi venne portato all’ospizio di Longarone e di tanto in tanto noi ragazzi calavamo nel paese rinato per divertirci, e spesso incontravamo il vecchio amico e trascorrevamo qualche ora con lui.
“Non sopporto le suore del ricovero – ghignava – perché non mi lasciano fumare in camera.”

Poco dopo, la cirrosi, venne in suo aiuto e Pin si spense serenamente, assistito dall’amico sacerdote don Martin, anch’egli vecchio ospite della casa di riposo e compagno di osterie.

Quando fu raccattato il suo umile guardaroba, nelle tasche della giacca uscirono solamente cicche di sigarette, fazzoletti sudici, fiammiferi sparsi e qualche moneta da poche lire. Dal taschino interno di una giacca saltò fuori, accuratamente riposto in un fazzoletto pulito, anche il cerchietto d’ottone, di quelli che servivano un tempo a sostenere le tende della cucina.

Dopo una rapida occhiata si affrettarono a buttarlo nel cassone dell’immondizia assieme ad altre povere cose appartenute all’anima semplice del vecchio Pin…

Mauro C. di gnomo_wartje

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