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TUTTO SUL MOBBING.....

Post n°1742 pubblicato il 11 Novembre 2018 da blogtecaolivelli

Diritto del lavoro
Mobbing: elementi costitutivi e onere della prova
Manisi Antonella
23 agosto 2017

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Licenziamento durante la malattia del lavoratore

MOBBING: una serie di atti vessatori protratti

nel tempo, posti in essere nei confronti di un

lavoratore da parte dei componenti del gruppo

di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati

da un intento di persecuzione e di emarginazione,

finalizzato all'obiettivo primario di escludere la

vittima dal gruppo.

Si distinguono in dottrina e giurisprudenza due

forme di mobbing:

- verticale discendente o bossing, in cui la

prevaricazione e la violenza vengono esercitate

dal superiore gerarchico verso l'inferiore o più

debole; ascendente quando esercitato in danno

del superiore gerarchico;

- orizzontale, applicato tra persone di pari grado.

Per poter parlare di mobbing, devono esserci le

caratteristiche di sistematicità e durata: deve

essere giornaliero, con una durata di sei mesi

almeno; espletato attraverso angherie, vessazioni,

demansionamento lavorativo, emarginazione,

insulti, maldicenze, aggressioni fisiche e verbali,

ostracizzazione, privando la vittima della possibilità

di esprimersi in azienda, isolandola e escludendola

dalle informazioni aziendali; screditandola attraverso

dicerie e pettegolezzi; assegnando mansioni inutili e

insignificanti; esasperandola con forme di controllo

ripetute e ingiustificate o attraverso molestie sessuali.

[...] I singoli atteggiamenti molesti (o emulativi)

possono anche non raggiungere necessariamente la

soglia di reato né sono o possono essere di per sè

illegittimi, ma nell'insieme sono suscettibili di produrre

danni (essenzialmente a livello biologico ed esistenziale),

con gravi conseguenze quindi sulla salute della vittima,

sulla sua esistenza, e anche sul patrimonio, convincendola

di cose non veritiere inerenti alla propria persona.[1]

 

Corte appello L'Aquila, sez. lav., 04/06/2015, n. 685


Fonti: Ilgiuslavorista.it 2015, 7 settembre

In termini di ripartizione dell'onere della prova in

materia di mobbing, stante la natura contrattuale

dell'illecito, grava sul lavoratore l'onere di provare

tutta la serie di circostanze e accadimenti storici,

poiché occorre che sia necessariamente che sia

dimostrato l'intento persecutorio che avrebbe

permeato le condotte datoriali. (Nella specie si

è nel merito negato l'asserito demansionamento

del lavoratore, in quanto le mansioni svolte dal

dirigente medico - pur quantitativamente ridotte

- non assumevano un contenuto professionale

qualitativamente inferiore rispetto a quelle

espletate in precedenza).

 

T.A.R. Roma, (Lazio), sez. II, 02/03/2015, n. 3421

Fonti: Foro Amministrativo (Il) 2015, 3, 902 (s.m)

La dequalificazione (o cd. demansionamento) si

distingue da fenomeni piuttosto similari ad essa e,

tra questi, spiccano principalmente le cd. vessazioni

sul lavoro e cioè il cd. "mobbing" e il cd. "bossing".

Infatti, mentre "mobbing" e "bossing" rappresentano

condotte datoriali illecitamente finalizzate a mortificare

il lavoratore al di là di qualunque ragionevole misura

con lo scopo, rispettivamente, di farlo sentire

colpevolmente o incolpevolmente amareggiato

("mobbing") e di allontanarlo dall'ambiente lavorativo

("bossing"), la dequalificazione professionale si

estrinseca fondamentalmente nel denegato

riconoscimento della qualifica impiegatizia acquisita

dal prestatore di lavoro, previo affidamento, allo

stesso, di incarichi che presentino un minor grado

di responsabilità e di rilevanza all'interno dell'ufficio,

incarichi che dovrebbero essere affidati al personale

collocato nelle qualifiche inferiori. Ed è proprio la

detta componente che vale a distinguere l'aspetto

dequalificatorio da qualsiasi altro atteggiamento

che non sia direttamente collegato alla qualifica

rivestita dal soggetto dequalificato o in via di

dequalificazione.

L'adibizione del dipendente a mansioni inferiori

comporta, di regola, la sua dequalificazione

professionale, ma se all'assegnazione si accompagna

una condotta datoriale lesiva e denigratoria, cioè se

l'attribuzione dei compiti di minore qualità si palesa

quale pretesto finalizzato a vessare il dipendente,

verrà a configurarsi un vero e proprio "mobbing".

 

Corte appello Potenza, sez. lav., 08/07/2014,

(ud. 12/06/2014, dep.08/07/2014), n. 454.

In linea generale, va detto che la negazione

o l'impedimento delle mansioni, al pari del

demansionamento professionale, integrano

una lesione del diritto fondamentale alla libera

esplicazione della personalità del lavoratore anche

nel luogo di lavoro, determinando un pregiudizio

che incide sulla vita professionale e di relazione

dell'interessato, con una indubbia dimensione

sia patrimoniale sia, a prescindere dalla configurabilità

di un reato, non patrimoniale, che rende il

pregiudizio medesimo suscettibile di risarcimento

(Cass. Sez.3 n. 7980/2004; n. 10/2002; n.

8828/2003; n. 8904/2003).

Viene, in tal modo, recepita una definizione

"dinamica" del concetto di professionalità del

lavoratore, intesa come combinazione tra il

bagaglio di conoscenze, acquisite dalla persona

operando nel settore di inquadramento e

progressivamente affinate in ragione del

trascorrere del tempo e la professionalità

potenziale, che corrisponde, invece, a quanto

il prestatore di lavoro può apprendere in

relazione al contesto, organizzativo e di lavoro,

che quotidianamente lo circonda.

Costituisce, quindi, demansionamento qualsiasi

condotta datoriale che, per effetto del cattivo

esercizio dello jus variandi, ossia in conseguenza

dell'adibizione del lavoratore a mansioni

qualitativamente inferiori a quelle contrattuali,

rallenti o blocchi del tutto il processo evolutivo

geneticamente impresso nel concetto di

professionalità appena illustrato.

La violazione del diritto del lavoratore all'esecuzione

della propria prestazione lavorativa è fonte di

responsabilità risarcitoria per il datore di lavoro;

responsabilità che, peraltro, derivando dall'inadempimento

di un'obbligazione, resta pienamente soggetta alle

regole generali in materia di responsabilità contrattuale:

sicchè, se essa prescinde da uno specifico intento di

declassare o svilire il lavoratore a mezzo della

privazione dei suoi compiti, la responsabilità stessa

deve essere nondimeno esclusa- oltre che nei casi

in cui possa ravvisarsi una causa giustificativa del

comportamento del datore di lavoro connessa

all'esercizio di poteri imprenditoriali, garantiti

dall'art. 41 Cost. ovvero di poteri disciplinari, anche

quando l'inadempimento della prestazione derivi

comunque da causa non imputabile all'obbligato,

fermo restando che, ai sensi dell'art. 1218 c.c. la

prova della sussistenza delle ipotesi ora indicate

grava sul datore di lavoro, in quanto avente, per

questo verso, la veste di debitore (Cass. Sez.1 n.

17564/2006; n. 4766/2006; n. 13580/2001).

Tale pronuncia richiama perfettamente la fattispecie

de quo, caratterizzata anche dal mancato

riconoscimento del titolo di studio e della conseguente

qualifica impiegatizia cui avrebbe diritto il sig. ****,

anche a seguito del mancato invito a ricoprire il ruolo

da ultimo assegnato ad un soggetto esterno, senza

che il sig. ***** fosse stato informato.

Il risarcimento del danno da perdita di chance, presente

nell'ordinamento francese da cui ha preso spunto

l'esperienza italiana, è stato riconosciuto nel nostro

Ordinamento da non molto tempo grazie all'opera

interpretativa (decisiva) della Cassazione ed ha trovato

applicazione in variegati settori, soprattutto quelli

relativi alla responsabilità professionale sanitaria e

dell'avvocato nonché, in ambito giuslavoristico, da cui,

in verità, ha preso le mosse, quelli riguardanti

molteplici fattispecie, come a titolo di esempio,

il mancato avanzamento di carriera del dipendente

nonostante i requisiti posseduti (cfr. Cass. 2013/8443),

significandosi che "in tema è necessaria la allegazione

e la prova di quegli elementi di fatto idonei a far

ritenere che il regolare svolgimento della procedura

selettiva avrebbe comportato una concreta, effettiva

e non ipotetica probabilità di conseguire la promozione,

in forza della quale probabilità si giustifica l'interesse

stesso del lavoratore alla pronuncia di illegittimità della

procedura selettiva, altrimenti insussistente (v. Cass S.U.

23/09/2013 n. 21678; Cass. 10/01/2014 n. 3771).

Viene meno ogni aspetto di responsabilità qualora il

datore di lavoro abbia correttamente ed esaustivamente

adempiuto ai suoi obblighi, sicché non sia possibile

ravvisare a carico dello stesso alcun margine od elemento

di colpa, con rigoroso onere probatorio su di lui incombente,

laddove, in ipotesi contraria, la prova del nesso eziologico

tra l'evento dannoso ed il danno subito dal lavoratore

dipendente viene a gravare, esclusivamente, su quest'ultimo.

Siffatte osservazioni hanno, peraltro, trovato l'autorevole

conforto della Corte Costituzionale, la quale, partendo

dall'indefettibile presupposto che l'art. 2087 c.c. abbraccia

ogni tipo di misura utile a garantire il diritto soggettivo

del lavoratore ad operare in un ambiente esente da rischi,

ha posto in rilievo come la salute sia un bene primario,

che assurge a diritto fondamentale della persona ed

impone piena ed esaustiva tutela, tale da operare sia

in ambito pubblicistico che nei rapporti di diritto privato,

evidenziando, tra l'altro, che, a norma dell'art. 2087 cit.,

l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio

dell'impresa tutte le misure che, secondo la particolarità

del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a

tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei

prestatori di lavoro (v. Corte Cost., sent. n. 399 del 1996).

Quindi, in adempimento del principio della massima

sicurezza "tecnologicamente possibile" vigente nel nostro

ordinamento ai sensi del più volte richiamato art. 2087

(riaffermato anche dal D.Lgs. n. 626 del 1994) e non

potendo le esigenze di sicurezza essere subordinate a

criteri di fattibilità economica o produttiva, il datore di

lavoro è tenuto a trovare le misure sufficienti a conseguire

il fine della protezione della salute e dell'integrità fisica dei

suoi dipendenti in modo conforme al principio direttivo

costituzionale dell'art. 32.

E appunto perché norma di chiusura, volta a

ricomprendere ipotesi e situazioni non espressamente

previste, la disposizione di cui all'art. 2087 c.c., come

del resto tutte le clausole generali, ha una funzione

di adeguamento permanente dell'ordinamento alla

sottostante realtà socio-economica, che possiede

una dinamicità ben più accentuata di quella

dell'ordinamento giuridico, legato a procedimenti

e schemi di produzione giuridica necessariamente

complessi e lenti; principio atto a giustificare

questa valenza è, nella specie, quello del diritto,

di derivazione costituzionale, alla salute ed

all'integrità fisica, ormai acquisito per

via di interpretazione giurisprudenziale (da

parte del giudice costituzionale, ordinario,

amministrativo) in molteplici applicazioni.

[...] Analogo discorso deve farsi anche con

riferimento al lamentato danno da mobbing,

nel senso del demansionamento come condotta

strumentale alla realizzazione del mobbing,

precisandosi che quest'ultimo si configura a

fronte della reiterazione di comportamenti

persecutori e vessatori, posti in essere dal

datore di lavoro o dai colleghi e, quindi, si

risolve in sistematici e reiterati comportamenti

ostili che finiscono per assumere forme di

prevaricazione o di persecuzione psicologica,

da cui può conseguire la mortificazione morale

e l'emarginazione del dipendente con effetto

lesivo dell'equilibrio psicofisico e del complesso

della sua personalità.

Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore

di lavoro sono, pertanto, rilevanti:

a) la molteplicità di comportamenti di carattere

persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati

singolarmente, che siano stai posti in essere in

modo miratamente sistematico e prolungato

contro il dipendente con intento vessatorio,


b) l'evento lesivo della salute o della personalità

del dipendente;
c) il nesso eziologico tra condotta del datore di

lavoro o superiore gerarchico e il pregiudizio

all'integrità psico-fisica del lavoratore,


d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè

dell'intento persecutorio (Cass. Sez. lav. n. 3785/2009).

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE

LAVORO, Sentenza 5 ottobre 2009, n. 21223.

Le Sezioni Unite di questa Corte con sentenza

n. 6572/06, nel comporre il contrasto sorto in

senso alla sezione lavoro della Cassazione,

hanno sancito che "in tema di demansionamento

e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto

del lavoratore al risarcimento del danno professionale,

biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva

- non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di

inadempimento datoriale - non può prescindere da

una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo

del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche

del pregiudizio medesimo; mentre il risarcimento

del danno biologico è subordinato all'esistenza di

una lesione dell'integrità psico-fisica medicalmente

accertabile, il danno esistenziale - da intendere come

ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva

ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato

sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue

abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo

a scelte di vita diverse quanto all'espressione e

realizzazione della sua personalità nel mondo esterno

- va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti

dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo

la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva

valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche,

durata, gravità, conoscibilità all'interno ed all'esterno

del luogo di lavoro dell'operata dequalificazione,

frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative

di progressione professionale, eventuali reazioni poste

in essere nei confronti del datore comprovanti

l'avvenuta lesione dell'interesse relazionale, effetti

negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) -

il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna

del procedimento logico - si possa, attraverso un

prudente apprezzamento, coerentemente risalire al

fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno, facendo

ricorso, ai sensi dell'art. 115 cod. proc. civ., a quelle

nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali

ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella

valutazione delle prove".

 

Cass. civ. sez lav 23 maggio 2013, n. 12725

Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo

devono quindi ricorrere molteplici elementi: a) una

serie di comportamenti di carattere persecutorio -

illeciti o anche leciti se considerati singolarmente -

che, con intento vessatorio, siano stati posti in

essere contro la vittima, in modo miratamente

sistematico e prolungato nel tempo, direttamente

da parte del datore di lavoro o di un suo preposto

o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti

al potere direttivo dei primi; b) l'evento lesivo

della salute, della personalità o della dignità del

dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte

condotte e il pregiudizio subito dalla vittima

nella propria integrità psico-fisica e/o nella

propria dignità; d) il suindicato elemento soggettivo,

cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i

comportamenti lesivi.

 

QUANDO SI ESCLUDE IL MOBBING?

Quando manca la sistematicità degli episodi,

ovvero i presunti comportamenti lesivi siano

riferibili alla normale condotta del datore di lavoro,

funzionale all'assetto dell'apparato amministrativo

o imprenditoriale, nel caso del lavoro privato; o,

infine, vi sia una ragionevole ed alternativa

spiegazione al comportamento datoriale

(Cons. Stato, sez. VI, 6 maggio 2008, n. 2015);

quando la valutazione complessiva delle

circostanze addotte e accertate nella loro

materialità, pur se idonea a palesare

singulatim elementi ed episodi di conflitto

sul luogo di lavoro, non consenta di individuare,

secondo un giudizio di verosimiglianza,

il carattere unitariamente persecutorio e

discriminatorio nei confronti del singolo dal

complesso delle condotte poste in essere

sul luogo di lavoro (Cons. Stato, n. 4738/2008).

LA RILEVANZA PENALE DEL MOBBING

Non essendovi una fattispecie normativa ad hoc,

il fenomeno può essere sussunto nell'alveo

di diverse figure di reato, ove ne ricorrano i

presupposti. In prticolare, Cass. pen. sez. Vi,

20 marzo 2014, n. 13088 ha precisato che il

mobbing può integrare il delitto di maltrattamenti

in famiglia qualora le pratiche persecutorie

realizzate ai danni del lavoratore e finalizzate

alla sua emarginazione (c.d. mobbing)

si inquadrino in un rapporto tra il datore di lavoro

e il dipendente capace di assumere una natura

parafamiliare in quanto caratterizzato da relazioni

intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i

soggetti, dalla soggezione di una parte nei

confronti dell'altra, dalla fiducia riposta dal

soggetto più debole del rapporto in quello

che ricopre la posizione di supremazia (...).

Con la conseguenza che non è configurabile

(...) laddove non siano riconoscibili quelle

particolari caratteristiche, ad esempio se

la vicenda si è verificata nell'ambito di una

realtà sufficientemente articolata e complessa,

in cui non è ravvisabile "quella stretta ed

intensa relazione diretta tra datore di lavoro e dipendente".

 

RIMEDI ESPERIBILE DAL LAVORATORE

VITTIMA DI MOBBING.

RISARCIMENTO DEL DANNO PATRIMONIALE

E NON PATRIMONIALE;
DIMISSIONI PER GIUSTA CAUSA;
RIFIUTO DI ADEMPIERE la prestazione

ai sensi dell'art. 1460 c.c. (eccezione di

inadempimento);
AZIONE DI ADEMPIMENTO al fine di ottenere

la rimozione degli atti persecutori (anche in

via cautelare ai sensi dell'art. 700 c.p.c.).

Per completezza, si ricorda che in seguito

alle recenti riforme introdotte con il "Jobs Act",

a partire dal 12 marzo 2016 le dimissioni

volontarie e la risoluzione consensuale

del rapporto di lavoro dovranno essere

effettuate in modalità esclusivamente telematiche.

Il lavoratore potrà scegliere tra due opzioni:

■ inviare il nuovo modulo autonomamente

tramite il sito del Ministero del Lavoro.

In questo caso è necessario munirsi del

Pin INPS Dispositivo, accedendo al portale

dell'Istituto o recandosi in una delle sue sedi.

Si potrà così accedere al form online che

permetterà di recuperare le informazioni

relative al rapporto di lavoro da cui si intende

recedere dal sistema delle Comunicazioni

Obbligatorie. Per i rapporti instaurati

precedentemente al 2008, invece, il lavoratore

dovrà indicare la data di inizio del rapporto di

lavoro, la tipologia contrattuale e i dati del

datore, in particolare l'indirizzo email o PEC.

Nell'ultima fase dovranno essere inseriti i dati

relativi alle dimissioni o alla risoluzione consensuale

o alla loro revoca.

■ rivolgersi ad un soggetto abilitato (patronato,

organizzazione sindacale, ente bilaterale,

commissioni di certificazione, consulenti

del lavoro, sedi territoriali dell'Ispettorato

nazionale del lavoro) che avrà il compito

di compilare i dati e inviarli al Ministero del

Lavoro. Ogni modulo salvato, dai soggetti

abilitati o dai lavoratori, sarà caratterizzato

da due informazioni identificative: la data

di trasmissione (Marca temporale) e un

codice identificativo coerente con la data.

Il lavoratore ha sempre la possibilità di

revocare le dimissioni o la risoluzione

consensuale entro 7 giorni successivi alla comunicazione.

 

IMPUGNAZIONE DEL LICENZIAMENTO:

a pena di decadenza, entro 60 giorni da

l licenziamento, inoltrare al datore di lavoro

una comunicazione in qualsiasi atto scritto,

anche stragiudiziale, nel quale si manifesta

la volontà di impugnare il licenziamento;

a pena di inefficacia, nei successivi 180

giorni, promuovere ricorso giurisdizionale

o procedere al tentativo di conciliazione.

Se la conciliazione o l'arbitrato vengono

rifiutati, o se non si raggiunge l'accordo, il

ricorso deve essere proposto entro 60 giorni

dal rifiuto o mancato accordo.

 

INTIMAZIONE DEL LICENZIAMENTO.

- obbligo di forma scritta - motivazione

contestuale; requisiti a pena di inefficacia

del licenziamento. Se manca la giusta causa

(condizione imputabile al lavoratore che renda

improseguibile il rapporto[2]) o giustificato

motivo (inerente l'organizzazione dell'attività),

non essendo applicabile la tutela ex art. 18

St. Lav. (L. 300/1970) trattandosi di "azienda"

con meno di 15 dipendenti, né la cd tutela

crescente introdotta dal jobs act perché il

contratto è stato stipulato antecedentemente,

rimane l'area di tutela disposta dall'art. 8 L. 604/1966:

"Quando risulti accertato che non ricorrono

gli estremi del licenziamento per giusta causa

o giustificato motivo, il datore di lavoro e'

tenuto a riassumere il prestatore di lavoro

entro il termine di tre giorni o, in mancanza,

a risarcire il danno versandogli un'indennità

di importo compreso tra un minimo di 2,5

ed un massimo di 6 mensilità dell'ultima

retribuzione globale di fatto, avuto

riguardo al numero dei dipendenti

occupati, alle dimensioni dell'impresa,

all'anzianità di servizio del prestatore

di lavoro, al comportamento e alle

condizioni delle parti. La misura massima

della predetta indennità può essere

maggiorata fino a 10 mensilità per il

prestatore di lavoro con anzianità superiore

ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il

prestatore di lavoro con anzianità superiore

ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro

che occupa più di quindici prestatori di lavoro".

Qualora venisse intimato il licenziamento,

senza giustificato motivo o in assenza di

giusta causa, si avrebbe pertanto diritto,

alternativamente a:

- ricostituzione ex novo del rapporto di lavoro;

- risarcimento del danno, attraverso

un'indennità compresa tra 2,5 e 6 mensilità

dell'ultima retribuzione globale di fatto, fino

a 10 mensilità per chi abbia un'anzianità di

servizio superiore a 10 anni.

 

RAPPORTI TRA LIQUIDAZIONE COATTA

AMMINISTRATIVA/COMMISSARIAMENTO

DA PARTE DELLA BANCA D'ITALIA E

DIMISSIONI VOLONTARIE

Da un punto di vista normativo, non

esiste una specifica norma di legge che

regoli le conseguenze della dichiarazione

di fallimento sul rapporto di lavoro subordinato.

La norma che più si avvicina ad una

regolamentazione diretta è l'art. 2119 II

comma c.c.: non costituisce giusta causa

di risoluzione del contratto il fallimento

dell'imprenditore o la liquidazione coatta

amministrativa dell'azienda. La cessazione

del rapporto di lavoro, dunque, nel segno

della spersonalizzazione dell'azienda

(come si esprime efficacemente Cass. n. 8617/2001)

non deriva automaticamente dal fallimento

dell'imprenditore o dalla liquidazione coatta

dell'azienda, ma può aversi solo a seguito

del licenziamento intimato dal curatore o,

naturalmente, in caso di dissoluzione

della realtà aziendale.

Questo principio è perfettamente

applicabile all'ipotesi della liquidazione

coatta amministrativa della *** o eventuali

procedure interdittive/sanzionatorie che

potrebbe disporre la Banca d'Italia in

seguito ad ispezioni che accertino irregolarità

o sofferenze dell'istituto. Non sarebbero,

pertanto, circostanze valevoli come "giusta

causa" delle dimissioni che il lavoratore volesse

rassegnare.

 

 

[1] Fornari, Trattato di psichiatria

forense, IV ed., Torino, 2010, cit. in

TOPPETTI, Il danno psichico e la prova

nel processo, 2016, Maggioli editore, p. 218.

[2] La Corte Suprema con sentenza n.

24260 del 29 novembre 2016: alla stregua

del principio secondo cui, l'esercizio del

diritto di critica da parte del lavoratore,

che non si contenga entro i limiti del rispetto

della verità oggettiva e si traduca in una

condotta lesiva del decoro dell'impresa,

costituisce violazione del dovere di fedeltà

ex art. 2105 c.c. ed è comportamento idoneo

a ledere definitivamente la fiducia che sta alla

base del rapporto di lavoro, tale da integrare

una giusta causa di recesso datoriale.

 

NB. E' una forma di mobbing, molto grave, il fare 

i conti in tasca alla gente ed impicciarsi della vita privata

dei co-workers.

E' buona norma ribellarsi, querelare queste persone, farsi 

pagare i danni fisici, economici e biologici e con somme non

salate ma salatissime, giusto per insegnare a questa gente

i fonndamenti e le regole del vivere civile.

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