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La terra di porpora di W.H.Hudson

Post n°2079 pubblicato il 04 Aprile 2019 da blogtecaolivelli

 

La Terra Rossa è uno dei pochissimi libri felici

che ci siano al mondo» ha scritto Jorge

Luis Borges. Di fatto, questo romanzo

possiede la felicità, nell'unico modo, quasi

inconsapevole, con cui si può possedere la

più volatile dea: una felicità contagiosa,

anche per il lettore, che incontra questo

libro come uno di quegli amori immediati,

rapidissimi e crudeli che balenano nelle

sue pagine.

A Montevideo, verso il 1870, in un periodo

di aspre contese civili, il giovane inglese

Stephen Lamb abbandona la sua sposa

-bambina, Paquita, per trovare lavoro

all'interno del Paese.

Quando egli parte con questo proposito,

e una certa boria britannica, non sa che

la sua mente segue un pretesto labilissimo,

che servirà solo ad adescarlo all'avventura,

nella incantata esplorazione della immensa

Terra Rossa, illusoriamente monotona

come il mare, punteggiata dalle isole delle

 estancias, che celano vicende imprevedibili.

Stephen Lamb, come ogni ulisside, ha

quell'accortezza che gli permette di

indovinare sempre i gesti giusti - o per

lo meno i gesti che salvano la vita - in un

mondo dove vigono regole tutte da scoprire;

per il resto è un giovane «oppresso

dalle armi e dalla corazza della civiltà», ma

che non osa confessare a se stesso la

noia che quest'ultima gli ispira: carico di

vitalità, è pronto a trovare qualsiasi scusa

per rimandare il ritorno a quella sua

'adorata moglie'.

E ogni scusa è un incontro, ogni incontro

la scoperta di un intreccio sorprendente

di vite, e ogni scoperta porta presto le

sue conseguenze, che talora si dissolvono

nel fumo di una pistola o nella luce dei coltelli.

E ogni luogo lascia nella memoria del lettore

un grappolo di immagini animate da quella

portentosa vividezza nel particolare che

è il segreto dell'arte di Hudson - un vero

insolubile segreto, come sentì Conrad:

«Non è possibile dire come quest'uomo

raggiunga i suoi effetti. Scrive come l'erba cresce».

Molte e disparate cose incontriamo insieme

a Stephen Lamb: gauchos taciturni e temibili,

inglesi eccentrici e miserabili che affogano

nel rum le loro nostalgie, un enigmatico

capo rivoluzionario, bestie, piante e paesi

che vivono come personaggi, donne dal

fascino più diverso, fra le quali una

splendida pasionaria che l'ulisside non

potrà fare a meno di trattare meschinamente,

un vecchio di diabolica prolissità, un guerriero

cieco e pazzo, assassini e giudici - e tutti gli

oscuri destini, le battaglie e i fantasmi della

Terra Rossa. Alla fine, come vuole la regola

del genere letterario nomade e rischioso

cui appartiene il libro, il protagonista torna

al suo punto di partenza.

Ma ormai del tutto acriollado, beatamente

corrotto dalla semibarbara Terra Rossa,

alla quale non augura più, come all'inizio

delle sue avventure, i benefici civilizzatori

del dominio inglese: anzi, egli ora vede

che qualsiasi intervento europeo in quel

meraviglioso e precario equilibrio non

potrebbe che essere distruttivo, e le sue

riflessioni anticipano ciò che poi è successo,

sicché giustamente Martínez Estrada ha

scritto che «nelle ultime pagine della

 Terra Rossa è contenuta la massima filosofia

e la suprema giustificazione dell'America di

fronte alla civiltà occidentale e ai valori

della cultura cattedratica».

Con questi lucidi pensieri, che potrebbero

spingersi molto lontano, Hudson ci abbandona,

eppure il suo gesto di congedo non è più

nella riflessione ma ancora una volta nella

vita, poiché, come egli ci dice, adattando una

frase famosa, «ogni volta che tentavo di

essere un filosofo ne ero impedito perché

irrompeva sempre la felicità».

La Terra Rossa fu pubblicato per la

prima volta nel 1885.

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