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Ancora sul Covid19

Post n°2846 pubblicato il 30 Aprile 2020 da blogtecaolivelli

Fonte: articolo riportato dall'Internet

COVID-19 e mucca pazza: così diversi eppure così uguali

CoViD-19 e mucca pazza, due malattie che più diverse di

così non possono essere, richiedono la messa in atto di

procedure per la gestione dell'epidemia molto simili.

Combattere la COVID-19Vi sono strategie ricorrenti nelle più efficaci strategie

di contenimento delle epidemie. | SHUTTERSTOCK  

Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Cristina Casalone,

Dirigente Veterinario dell'Istituto Zooprofilattico Sperimentale

del Piemonte, Liguria e Valle d'Aosta, e Giovanni Di Guardo,

Professore di Patologia Generale e Fisiopatologia Veterinaria

all'Università di Teramo, che mette a confronto due epidemie

di origine zoonotica: la COVID-19 e l'Encefalopatia spongiforme

bovina - il "morbo della mucca pazza", una malattia neurologica

cronica causata da un prione (una proteina anomala) tipica dei

bovini ma trasmissibile all'uomo attraverso carne contaminata.

L'allarme su una possibile correlazione tra morbo della mucca

pazza e malattia di Creutzfeldt-Jakob (una forma grave di

demenza con decorso molto rapido) in soggetti giovani arrivò

in Gran Bretagna nel 1996. Oggi l'epidemia legata al consumo

di carni infette è stata praticamente eradicata. 

Proprio in un momento come questo, in cui il mondo intero sta

combattendo il virus SARS-CoV-2, responsabile della più grande

emergenza sanitaria globale, è quanto mai importante fare

memoria delle lezioni apprese nel corso di emergenze sanitarie

passate.

Una di queste è senz'altro rappresentata dall'encefalopatia

spongiforme bovina (BSE), popolarmente nota come "morbo della

mucca pazza". CoViD-19 e BSE infatti, pur nelle colossali differenze

che caratterizzano le due malattie, la prima causata da un virus

a tropismo respiratorio, l'altra di origine alimentare e causata da

un prione, un agente "sui generis" di natura proteica, presentano

tuttavia una serie di analogie gestionali estremamente

interessanti.

AGIRE PER SALVARE VITE. 

La prima di esse riguarda il principio di precauzione, un

"minimo comune denominatore" applicato alla gestione di

qualsivoglia emergenza, non meramente sanitaria e dalle

conseguenze imprevedibili in quanto se ne hanno conoscenze

imprecise e frammentarie se non largamente deficitarie.

Ove l'agente di malattia risultasse trasmissibile all'uomo, come

nel caso di quello responsabile della BSE, oppure fosse dotato

di una contagiosità quanto mai elevata a fronte della mancata

disponibilità di farmaci e/o di vaccini specifici, come nel caso del

coronavirus che provoca la CoViD-19, ecco che al principio di

precauzione viene ad affiancarsi il concetto di worst case scenario.

Tradotto in italiano, il peggiore scenario che si possa immaginare,

sulla cui scia verranno predisposte e adottate tutta una serie

di misure finalizzate a ridurre al minimo l'esposizione umana.

Nella gestione sanitaria e nella conseguente massima mitigazione

del rischio di trasmissione della BSE all'uomo tali misure hanno

comportato l'esclusione, dal consumo alimentare, di numerose

matrici biologiche a livello delle quali è stata documentata la

presenza d'infettività. Analogamente, nel caso della drammatica

"emergenza da coronavirus" sono state adottate una serie di

misure draconiane che, a partire dalla città di Wuhan e dalla

provincia cinese di Hubei (epicentro della pandemia da SARS-CoV-2),

sono state successivamente applicate in maniera progressiva da vari

Paesi, primo fra tutti l'Italia, il cui esempio è stato seguito a ruota da

molti altri Paesi europei ed extraeuropei.

UNA LACUNA DA COLMARE.

Il principale gap relativo all'adozione del principio di precauzione è

rappresentato dalla mancanza di conoscenze adeguate sul "nemico"

che ci si trova a combattere, un agente patogeno di dimensioni

submicroscopiche e come tale percepito come una minaccia ancor

più incombente sulle nostre vite.

La comunità scientifica non soltanto è chiamata a dare un nome e

un cognome a questo nemico, ma anche ad individuare i tessuti e

le cellule in grado di consentirne la replicazione, unitamente ai

meccanismi e alle risposte attuate dall'organismo per limitarne

la diffusione.

Queste fondamentali quanto imprescindibili conoscenze potranno

esser desunte dalle indagini "post mortem", come hanno

chiaramente documentato anche i numerosi studi finora condotti

sulle specie naturalmente (bovino, gatto, uomo, etc.) o

sperimentalmente infettate con l'agente della BSE.

Non vi è dubbio alcuno, in proposito, che le attuali conoscenze

sulla patogenesi dell'infezione da SARS-CoV-2, da ritenersi allo

stato attuale oltremodo lacunose e frammentarie, potranno

grandemente beneficiare dallo studio dei pazienti deceduti.

Nonostante le numerose interviste concesse dai pur autorevoli

colleghi e scienziati quotidianamente intervistati dai media

(virologi, infettivologi, epidemiologi, esperti di sanità pubblica

ed altre figure che si avvicendano nell'arena mediatica),

nell'inquadramento nosologico e nosografico oltre che nella

classificazione dell'infezione da SARS-CoV-2 e della malattia

da esso sostenuta, la CoViD-19, non si è visto fino a questo

momento un solo patologo esprimere la propria opinione

nel merito.

È infatti grazie alla fondamentale opera svolta dai patologi che

potremo ottenere una fotografia della dimensione post-mortem

della malattia, con specifico riferimento alla sequenza evolutivo-

patogenetica dell'infezione da SARS-CoV-2.

E, come dimostrato per i ceppi responsabili di malattie prioniche

"atipiche" con caratteristiche diverse dal ceppo originario, sia

nell'uomo che negli animali, potrebbero esistere ceppi del virus

SARS-CoV-2 dotati di differenti livelli di patogenicità nei confronti

del nostro organismo.

Ribadiamo, ancora una volta, la cruciale rilevanza delle indagini

post-mortem per chiarire questi fondamentali aspetti attinenti

alla biologia dell'agente virale e, nondimeno, alle sue dinamiche

d'interazione con l'ospite.

 

INDAGINI PIÙ CAPILLARI.

 Nel corso dell'epidemia di BSE l'introduzione dei cosiddetti

"test rapidi" a scopo diagnostico ha permesso di esaminare

tutti i bovini adulti che non presentavano sintomatologia clinica

ed eliminarli dal consumo umano riducendo così l'esposizione

della popolazione all'agente infettivo.

L'attuazione di questa sorveglianza definita attiva, in quanto

si cerca attivamente la malattia ha richiesto uno straordinario

sforzo tecnico ed organizzativo da parte di tutti coloro che si

occupavano del settore.

Si trattò, infatti, di allestire nuovi laboratori che permettessero

di esaminare dai 1500 ai 2500 campioni al giorno.

Analogamente, nel caso di SARS-CoV-2, recenti indagini

condotte sui macachi dimostrano come sia possibile rilevare

precocemente la presenza del virus in animali infettati

sperimentalmente e asintomatici.

Pertanto, in base a quanto sopra descritto si può affermare

che l'utilizzo dei test mediante effettuazione di tamponi sulla

popolazione adulta permetterebbe di ridurre in maniera

considerevole il numero dei contagi applicando conseguentemente

le misure di isolamento sui casi risultati positivi.

REALTÀ INTERCONNESSE.
 Mai come in questo momento si rende evidente il concetto di
"One Health", che riconosce quanto la salute dell'uomo sia legata
indissolubilmente alla salute degli animali e dell'ambiente.
Ne deriva il legame, parimenti indissolubile, attraverso il quale
medicina umana, medicina veterinaria e tutela dell'ambiente sono
reciprocamente interconnesse, un concetto che i nostri antichi padri
traducevano efficacemente con l'espressione "universal medicina".
Diviene pertanto cruciale la collaborazione interdisciplinare, nel cui
ambito il ruolo degli esperti in grado di modellare l'evoluzione delle
epidemie e l'impatto dei cambiamenti climatici sulle caratteristiche
eco-epidemiologiche dei relativi agenti causali sta acquisendo
un'importanza via via crescente.

Tanto più alla luce di quanto recentemente sottolineato dall'Organiz-

zazione Mondiale della Sanità (OMS), secondo cui il 75% delle

malattie infettive emergenti sarebbero sostenute da agenti di

dimostrata o sospetta capacità zoonosica (vale a dire in grado

di trasmettersi dagli animali all'uomo).

A 35 anni di distanza dalla scoperta del primo caso di BSE in

Inghilterra, oggi possiamo affermare che la malattia è stata

definitivamente sconfitta grazie all'applicazione di misure che,

nella loro drammaticità e nella parziale deprivazione di alcune

libertà individuali dalle stesse prodotta, hanno grandemente

penalizzato dal punto di vista economico alcuni settori più

direttamente coinvolti

26 APRILE 2020 

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