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Demolita la casa dell'8 marzo

Post n°169 pubblicato il 07 Marzo 2007 da circololenci

Dopo lo sgombero dello squat e gli scontri, le ruspe. Giù a Copenaghen lo storico edificio che immagineospitò Lenin e Rosa Luxemburg. Al suo posto una chiesa per una setta


Copenaghen-Una ruspa per le demolizioni, l'enorme palla di cemento che colpisce fino ad abbatterlo l'Ungdomshuset, la «Casa della gioventù», il cui sgombero ha causato una delle più grandi rivolte di piazza in Danimarca, almeno da dieci anni a questa parte. Ieri mattina gli operai sono arrivati alle otto, con il volto coperto per non farsi riconoscere. Una misura di sicurezza. Intorno a loro, però, nessuna protesta. Solo lacrime. Tantissime. E poi fiori deposti a terra, canti, biglietti di addio e uno striscione: «Potete abbattere i muri, ma le fondamenta restano». La distruzione del caseggiato di mattoni nel quartiere Noerrebro di Copenaghen è stato un vero e proprio lutto per i ragazzi che avevano occupato il centro sociale. Ma anche per tante persone della sinistra danese che, per un verso o per l'altro, sono state «iniziate» alla politica proprio in quel luogo. Che da ieri è un mucchietto di calcinacci.
Eppure, la «Casa della gioventù» era un vero e proprio monumento storico, anche se ormai giudicato inagibile dalle autorità danesi, visto che non è mai stato ristrutturato. Proprio tra quelle mura, il 29 agosto del 1910, Rosa Luxemburg e Clara Essner Zetkin proclamarono l'8 marzo giornata della donna, in occasione della seconda conferenza delle donne dell'Internazionale socialista. In quella stessa occasione si discusse anche del voto alle donne come diritto universale, e non legato al «censo» come chiedevano le suffragette. Sempre in quell'edificio di mattoni aveva parlato niente meno che Vladimir Ilic Ulianov, ovvero Lenin. Insomma, un pezzo di storia, aldilà delle polemiche contro l'occupazione dell'edificio e delle strane compravendite che lo hanno interessato (gli ultimi proprietari sono i rappresentanti di una setta cristiana). La palazzina era stata costruita nel 1897 in quello che era un quartiere operaio, proprio per offrire ai lavoratori un luogo di incontro. Era l'equivalente di una «casa del popolo» (e in effetti si chiamava «Folket hus»), dove avevano la loro sede sindacati e associazioni . Poi, verso gli anni '60, fu abbandonato: i sindacati si trasferirono in una nuova sede. Per molto tempo rimase disabitato. Negli anni '80 entrò nelle mire di una grande catena di supermercati, la Brugsen, che voleva raderlo al suolo per costruirci un grosso negozio. In quel caso, il municipio si mise di traverso e lo acquistò. Nel 1982 fu assegnato a un gruppo di giovani, e diventò la «Casa della gioventù». Poi, nel 1996, un incendio devastò la palazzina. Iniziò una lunga battaglia legale, con quelli che ormai erano diventati a tutti gli effetti degli occupanti che non si fidavano di mettere il palazzo nella mani delle istituzioni per una ristrutturazione, temendo che sarebbe stata cambiata la destinazione d'uso. Fino al 2000, quando il palazzo fu venduto dal municipio a una società . Un'offerta di acquisto era venuta già da allora dalla setta cristiana «La casa del padre», ma il municipio l'aveva scartata ritenendola poco seria. La portavoce della setta disse che aveva avuto una specie di visione leggendo uno striscione che gli occupanti avevano appeso fuori dalle mura per protestare contro la messa in vendita dell'edificio. Diceva più o meno: «In vendita, con 500 psicopatici venuti dall'inferno». Chiaramente il motto era ironico. Ma, evidentemente, non per la setta che da allora ha fatto di tutto per impossessarsi dell'edificio. E ci è riuscita, perché a un certo punto la società che aveva acquistato il palazzo l'ha rivenduto proprio alla «Casa del padre».
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Ieri, quindi, per la setta cristiana si è compiuta la « missione»: abbattere l'edificio. La portavoce della setta, Ruth Eversen, si è giustificata spiegando che all'interno, ormai, era tutto inutilizzabile. Gli occupanti pensano che, ora, i proprietari rivenderanno il terreno, perché l'unico obiettivo era quello di distruggere la palazzina.
Durante le operazioni di demolizione sono state fermate sei persone, che avevano oltrepassato le transenne. Il totale dei detenuti è ancora di 189 persone. Nei tre giorni di protesta i fermi sono stati in tutto 600, 149 erano cittadini stranieri. Tra di loro venti italiani: undici sono stati rilasciati e dovrebbero rientrare oggi in Italia. Altri nove ieri erano ancora in stato di fermo: tre dovranno di fronte a un giudice, mentre gli altri 6 potrebbero essere rilasciati. Nel pomeriggio di ieri si è svolta una manifestazione davanti al carcere. Copenaghen non è Roma o Milano o Torino, va da se. E se il modello sociale e di welfare non è commisurabile (anche se, come è stato giustamente sottolineato in questi giorni, in rapida e non positiva evoluzione), così l'immagine tollerante e un poco aliena pare destinata all'archivio. Pure colpiscono le centinaia di arresti, i fermi, gli scontri. Ma colpiscono chi? Quelli per cui sono cose da anni '80 o, al massimo, '90; i convinti dell'esistenza di politiche per i giovani in Europa e, magari, anche in Italia; quelli per cui la speculazione immobiliare è una tigre di carta; chi guarda e sostiene solo la famiglia pensando che i figli...
E invece c'è questa fastidiosa e perdurante tendenza a costruire modelli sociali alternativi che attraversa le generazioni, interferendo oltretutto con gli interessi altrui. E in parallelo una tensione autoritaria e normalizzante che si risveglia periodicamente in terre destroverse quanto in quelle socialdemocratiche. Certo qualcuno mi risponderà che ovunque esistono gli stessi fondamentali: anche lì si batte moneta, esistono rendite, salari e profitti, il mattone ha uguale consistenza. Ma dato che nazioni e municipalità diverse hanno sul tema prodotto politiche completamente dissimili, con modalità di governo dagli esiti antitetici, rimango convinto che il cattivo esempio dato da chi amministra Copenaghen possa essere battuto e non assumere le sembianze di un modello oltretutto dai costi immediati evidenti e da quelli futuri imprevedibili. Imponderabili al punto che bisognerebbe arrestare gli amministratori e rilasciare i manifestanti, o almeno metterli assieme.
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Qui da noi è ancora viva la campagna di criminalizzazione delle scorse settimane, ove la frequenza di presunte e residuali velleità lottarmatiste in questo o quel centro ha innescato la destra nazionale nel richiedere sgomberi e lacrime. Con buona pace del buon senso e dell'evidenza che sotto analoga denominazione lavorano realtà tra loro assai diverse, argine piuttosto che combustibile di soggettivi ritorni di fiamma. Quasi che sindacati, associazioni e centri fossero, per questi progetti, più naturale attraversamento di quanto possa essere la locale sezione del Rotary o l'assemblea di Confindustria.
Serve invece un radicale cambio di strategia e delle politiche pubbliche nei confronti di questi luoghi (centri sociali o spazi pubblici autogestititi che siano). E pronunciare la parola pubblico produce già una forte eco che ne evidenzia la totale assenza. Serve un indirizzo nazionale che non deleghi totalmente alla buona o cattiva volontà di questo o quel ente locale. Come per altro accade per le (poche) politiche abitative e di (modesto) contrasto alla precarietà.
Ad esempio un fondo nazionale di «emersione» a disposizione di comuni e province verso positive soluzioni per gli spazi sociali sarebbe stato, in Finanziaria, un ottimo segnale. Ma nel pur enciclopedico provvedimento del governo non si è trovata voce ne è stato possibile inserirla.
Siamo in tempo per rimediare. Mi rendo conto che di fronte a un sintomo, quale le vicende di questi giorni temo siano, bisognerebbe aggredire con ben altra forza l'insieme dei temi. Per intanto non guasta ringraziare gli amici e compagni/e danesi e tedeschi che stanno dando una mano anche a noi.

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