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Post N° 120

Post n°120 pubblicato il 04 Luglio 2006 da circololenci

Afghanistan accordo quasi fatto; ma restano i dissensi (e spunta il sì Udc)

La proposta del governo Prodi sulla proroga delle missioni militari all’estero comincerà paradossalmente: dalla fine di quella di “Antica Babilonia” e cioè dal ritiro delle truppe dall’Iraq, «completo entro l’autunno». Poi c’è l’altra guerra, per quanto “autorizzata” dall’Onu, quella in Afghanistan tuttora e anzi sempre più in corso. La proposta dirà che si mantiene invariato il finanziamento della missione, con un aumento della quota riservata alla parte civile e al sostegno alla cooperazione, e prevedendo 471 militari in meno rispetto al livello mantenuto ad oggi dal precedente decreto di proroga, votato sotto Berlusconi. Questo, per gli uomini, che il segretario generale della Nato al comando della missione multinazionale Isaf, De Hoop Scheffer, aveva chiesto di aumentare insieme ai mezzi, chiedendo anche i cacciabombardieri Amx. Quanto a questi, il governo non dispone poste di spesa per nuovi o aggiuntivi sistemi d’arma. Le «regole d’ingaggio» resterebbero, pure, «invariate».

Il tutto presentato al Parlamento accettando che la maggioranza prenda, contestualmene al voto di proroga, l’iniziativa di una mozione d’indirizzo: sulle missioni in generale, indicando anche una commissione di “monitoraggio permanente”; e sui tratti di fondo della politica estera, in cui segnare qualche «discontinuità» dalla linea del precedente governo delle destre.

Ma, appunto, dopo il varo della proposta governativa in Consiglio dei ministri dopodomani, la discussione sarà in Parlamento. E restano, di fatto e nella coscienza di molti deputati e senatori, aperti punti di merito e di metodo: dalla stessa modalità del voto - unico o distinto - sulle missioni, alla prospettiva di una reale smilitarizzazione dell’intervento italiano in Afghanistan, alla prosecuzione insomma del dibattito per verificare in maniera non unilaterale un consenso che resta l’unico metodo accettabile per la sopravvivenza di una coalizione plurale.

Mentre alle ombre dei giochi politici “di bandiera” si sovrappongono quelle di un gioco ben maggiore, l’incursione sulla stessa natura politica della maggioranza. Se il Pdci esce infatti dal confronto ministri-coalizione risollevando un dissenso che il Prc accusa essere stato invece consenso in quella sede, è dalle file centriste dell’opposizione - all’indomani della batosta nel referendum confermativo della controriforma costituzionale - che viene un annuncio teso ad acuire tutte le eventuali aporie e contraddizioni e infine ventilare ribaltamenti delle alleanze. E’ Baccini, e non a caso in quanto vicepresidente del Senato dove la maggioranza è più risicata, a dichiarare che il partito di Casini e Cesa voterà proroga e rifinanziamento dell’intervento militare in Afghanistan.

Quanto riportato all’inizio è, in effetti e stando alle parole riferite dai loro interlocutori, quel che i ministri degli Esteri e della Difesa, Massimo D’Alema e Arturo Parisi, hanno indicato ieri ai capigruppo dell’Unione al termine di una lunga riunione iniziata alle 12, interrotta alle 13 per riprendere alle 17 e 20 e conclusa alle 19 e 30. Un confronto travagliato: anche se fin dalla mattina l’approccio del governo, illustrato da una prima relazione del titolare della Farnesina, recava un novità. Più che di contenuto immediato, di procedura politica. Era stato lo stesso D’Alema nella sua intervista a la Repubblica sui «veti che devono cessare», infatti, a parlare unicamente di un disegno di legge governativo di inquadramento generale delle missioni cui competesse anche il merito della famosa «discontinuità» in politica estera. Ma nella sua relazione ai capigruppo ieri ha aperto la strada alla mozione parlamentare d’indirizzo cui essi stessi s’erano già impegnati, nel precedente vertice, recependo una proposta di Rifondazione comunista-Sinistra europea.

Un cambio di approccio, su questo punto, accolto subito dopo nelle dichiarazioni di mezza giornata alla stampa con una valutazione di «positività del confronto», dai presidenti dei senatori e dei deputati del Prc, Giovanni Russo Spena e Gennaro Migliore. Anche se, fino all’interruzione, il primo giro di confronto ha lasciato sul terreno nuove incognite: anzitutto un iniziale orientamento di D’Alema a mantenere il punto del disegno di legge governativo, proprio come modalità di proposta delle proroghe delle missioni, così prevedendo per ora solo quel che in linguaggio tecnico si chiama un «decreto a perdere». Lasciando intendere che la stessa verifica semestrale in Parlamento avrebbe potuto così essere superata per il futuro. E argomentando, con una certa pesantezza, che «in altri Paesi» questo tema non è nemmeno oggetto di pronunciamento parlamentare. Così come Parisi lasciava in sospeso la questione della «dotazione di mezzi» per i militari in missione a Kabul e nella Prt di Herat.

D’altra parte, sono stati i capigruppo dell’Ulivo a far pesare a loro volta il «costo politico» dell’indicazione di un totale ritiro militare dall’Iraq, segnalando l’«orientamento altro» inizialmente tenuto e la «sofferenza» di un parte, segnatamente per la Margherita. Stessa sottolineatura insistita da parte dell’Udeur. Notazioni significative delle distanze di partenza. E però all’assegnazione all’iniziativa parlamentare dell’indirizzo generale su missioni e politica estera, nessuno ha stavolta fatto opposizioni: valeva d’altronde, per la parte dei capigruppo, la parola già data.

Alla sera, con oltre due ore di discussione, il nomade fantasma del ddl pare sia stato dissolto, così come quello di nuove panoplie in cambio del contenimento dei militari impegnati. Lo stesso e tanto più per lo spettro dell’adozione della richiesta d’un voto di fiducia, almeno nelle intenzioni dichiarate da parte ministeriale. Anche se non si sono risolte le differenze di prospettiva sulla permanenza medesima d’un ingaggio militare italiano nel teatro afghano. Russo Spena e Migliore, infatti, annunciando la valutazione «positiva» sulle proposte dichiarate dal governo nel quadro dell’«intesa» sulla contestualità della mozione parlamentare, con la «novità» della commissione di monitoraggio, hanno ribadito che «l’idea» del Prc resta quello «di giungere al ritiro delle truppe», tanto quanto resta la stessa quella sul «fatto che in Afghanistan c’è un guerra». Sarebbero questi, per quanto D’Alema e Parisi non abbiano acceduto ad alcuna «indicazione di exit strategy», i nodi su cui dovrà intanto esercitarsi il confronto nella maggioranza parlamentare per definire i contenuti della mozione, e poi il «monitoraggio» previsto.

Diverso il discorso per il Pdci. Dice Manuela Palermi, per il gruppo “Insieme per l’Unione” coi Verdi al Senato, sostenendo che non si è entrati «nel merito» nella riunione: «La mozione non l’ho letta e la relazione è la stessa dei giorni scorsi. Non ho visto nessuna volontà di mediazione e quindi non c’è l’accordo dei Comunisti italiani». Angelo Bonelli, per i Verdi della Camera, argomenta diversamente: «La questione che resta aperta su cui dovremmo lavorare nelle prossime ore è la ridefinizione della natura della missione perchè di fatto resta militare». Mentre anche Marina Sereni per i Ds ricorda a Palermi: «Siamo uscite dalla stessa riunione con un indirizzo che ci sembrava unanimemente condiviso».

Dopo, la riunione dei senatori e deputati Prc: «complessa», dicono i partecipanti all’uscita. Soprattutto aperta, oltre le stesse posizioni già segnate delle minoranze. Mentre aleggia il fantasma dell’Udc.
Anubi D’Avossa Lussurgiu (mercoledì 28 giugno)

da liberazione

 
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Unitisivince
Unitisivince il 17/07/06 alle 07:14 via WEB
Cari compagne e compagni, siamo dei compagni di Rifondazione, prevalentemente non riconducibili all’area di maggioranza, profondamente preoccupati per i contrasti sorti all’interno del partito sulla questione del finanziamento alla missione militare italiana in Afghanistan. Premettiamo anzitutto, che, come del resto tutti nel partito, siamo contrari alla presenza militare italiana in Afghanistan, che a nostro parere rappresenta: a) Un atto di indubbia complicità con l’aggressione imperialista statunitense nell’ambito di un progetto di “nuovo ordine mondale” contro cui il partito tutto si oppone strenuamente b) Una missione così “pacifica” da ottenere invariabilmente il nostro voto contrario quando ci trovavamo all’opposizione. c) Una grave violazione della nostra costituzione e del diritto internazionale d) Un conflitto – in particolare proprio per i compagni che si riconoscono nella prima mozione - col principio di non violenza, che si agita ad esempio contro chi propugna la solidarietà con la resistenza irachena, ma cessa misteriosamente di valere quando si parla dei soldati italiani in missione di “pace”. Rileviamo tuttavia che a) Nel partito non esistono componenti favorevoli alla missione in Afghanistan: la maggioranza del partito che propugna il voto favorevole alla missione lo ritiene – a torto o a ragione – un compromesso “inevitabile” con le componenti più moderate della compagine governativa. b) La posizione del partito al proposito era già stata resa pubblica prima delle elezioni politiche. c) È stato formulato dai nostri dirigenti un accordo con gli altri partiti del governo impegnando il voto di tutto il partito in questo senso. d) Per quanto possiamo essere in disaccordo su questa come su molte altre posizioni assunte dalla maggioranza del partito, e nonostante esista indubbiamente un problema di democrazia all’interno del partito stesso, riconosciamo che la dirigenza del partito, democraticamente eletta nell’ultimo congresso, rappresenta legittimamente la maggioranza degli iscritti. Riteniamo allora che - Il solo fatto di minacciare pubblicamente di votare in modo difforme da quanto deciso dalla dirigenza del partito, e ancor più se si arrivasse alla malaugurata eventualità di mettere in atto questa minaccia, rappresenta anzitutto una grave violazione della democrazia interna del partito, e risulta ancor più contraddittoria per chi – come i compagni dell’area dell’Ernesto - ha sempre sostenuto la necessità di un vincolo più rigido dei rappresentanti del partito nelle istituzioni alla dirigenza del partito, unica legittimata democraticamente ad assumere decisioni. Naturalmente è assolutamente legittimo il dissenso, e ogni tentativo di far cambiare idea all’attuale dirigenza, o eventualmente anche di sostituirla nei modi previsti dallo statuto. Ma quando si tratta di esprimere un voto nelle istituzioni – anche in un consiglio municipale, e a maggior ragione in parlamento – il partito deve presentarsi unito. Risulta poi ovvio che questo voto assume particolare gravità se si considera che potrebbe causare la caduta del governo. A differenza dei compagni della maggioranza, non abbiamo mai nutrito eccessiva fiducia nella possibilità di portare a termine una legislatura alleati a Prodi, D’Alema, Rutelli e compagnia bella, e quindi mettevamo in conto una logorante, durissima, continua trattativa e la costante possibilità di una rottura. Questa rottura però deve essere decisa dal partito attraverso i suoi organi dirigenti, e non da una minoranza che – approfittando dell’indispensabilità di ogni singolo voto al Senato – pieghi la maggioranza del partito al suo volere e decida autonomamente di far cadere il governo. Non ha senso invocare maggior democrazia e richiedere una stretta subordinazione dei rappresentanti nelle istituzioni agli organi del partito se poi quando ci fa comodo facciamo l’esatto contrario. - Anche supponendo che – pur verificandosi un voto contrario da parte di alcuni nostri senatori – il governo non cada, oltre alla violazione delle regole interne – che permarrebbe comunque – dobbiamo capire cosa succederebbe a partire dal giorno dopo. a) Anzitutto il nostro partito verrebbe seriamente indebolito in tutte le trattative che ci troveremo a fare fino alla fine della legislatura, obbligandoci ad accettare compromessi al ribasso o ad uscire dal governo quando questo si sarebbe potuto evitare negoziando da posizioni di forza: • La campagna sulla nostra “inaffidabilità” che è in atto da ben prima delle elezioni, verrebbe certamente rafforzata, e la nostra credibilità risulterebbe intaccata. • Si presenterebbe sicuramente il rischio di essere estromessi dalla coalizione governativa senza che la destra della coalizione ne debba pagare il prezzo politico. • Si presenterebbe soprattutto il rischio di una maggioranza “a geometria variabile” che torni ad accettare i voti della destra su temi come le leggi sul lavoro, i Pacs, o semplicemente minacci di farlo in ogni trattativa. b) Ma, e questo è un punto ben più importante, sarebbe difficile sostenere che esista ancora Rifondazione Comunista: Immaginiamoci un qualsiasi tavolo di trattative, dove si siedano i rappresentanti dei partiti della coalizione. Una volta raggiunto l’accordo col nostro segretario, anche nel caso venisse confermato dalla nostra segreteria, gli esponenti degli altri partiti dovrebbero negoziare anche coi compagni che rappresentano le minoranze del nostro partito, per assicurarsi anche i loro voti. Nel nostro partito le correnti – o aree, come vengono misericordiosamente ribattezzate – sono già fin troppo forti, e a volte ingessano il dibattito interno invece di favorirlo. Le nostre “aree” hanno già feste proprie, organi di stampa propri, e a volte persino un tesseramento interno. È forse una spiacevole necessità in questa fase della vita del partito, ma quel che è certo è che se poi a tutto questo si aggiungesse anche che i parlamentari di ogni area votano in modo disgiunto, ci troveremmo davanti ad una scissione di fatto del partito in due o tre partitini, eventualmente alleati in caso di elezioni. - La minaccia di un voto contrario non è utile neppure per ottenere quanto ci si propone, e cioè di bloccare la missione militare italiana. L’opportunità che si presenta all’ala moderata della coalizione di sferrare un duro colpo contro il partito più forte della sinistra radicale lascia temere che si arrivi a un irrigidimento delle posizioni davanti al quale i nostri compagni potrebbero trovarsi in una situazione senza vie d’uscita. Resta poi da capire come mai gli stessi compagni che minacciano un voto contrario continuano a rassicurarci sull’inesistenza di un rischio di una crisi di governo o – peggio – di una scissione nel partito. Hanno forse deciso fin d’ora di prendere a pretesto una qualsiasi modifica insignificante alla mozione per “cantare vittoria e levare le tende”? Vogliamo sperare di no, perché siamo assolutamente convinti che i compagni che li sostengono lo fanno in perfetta buona fede, con molte e nobili ragioni, accompagnati al di fuori del partito da figure a cui va tutta la nostra stima ed il nostro rispetto. Se invece si è già deciso unilateralmente – a dispetto delle decisioni della maggioranza del partito – di portare avanti delle posizioni di “area”, e cioè di arrivare alla rottura col governo Prodi – col quale del resto alcuni non avrebbero mai voluto fare un’alleanza, neppure elettorale e tantomeno di governo, sarebbe stato più coerente farlo prima delle elezioni e – aggiungiamo – prima di accettare delle candidature che implicavano anche l’accettazione dei principi di rappresentanza nelle istituzioni. Vorremmo anche sapere come mai i dirigenti della seconda mozione non hanno pensato di consultare estesamente i compagni di base che fanno riferimento alla loro area prima di prendere una decisione così grave. - Naturalmente riconosciamo che – massimamente per una questione fondamentale come quella di un intervento militare – è più che legittimo assumere posizioni “di coscienza” che prescindano da qualsiasi disciplina di partito, e non manchiamo di rinnovare la nostra stima ai tanti compagni che appoggiano l’iniziativa dei parlamentari “dissidenti”. Però risulta altrettanto evidente che chi effettuasse una scelta in questo senso si porrebbe di fatto al di fuori del partito e coerenza vorrebbe che venisse accompagnata da una rinuncia all’incarico parlamentare, tantopiù che gli eletti in questa legislatura non possono vantare preferenze espresse direttamente dagli elettori, ma solo la designazione da parte di un partito, ed è solo quest’ultimo che è stato votato dai cittadini. Concludiamo invitando a proseguire il dibattito all’interno del partito sull’opportunità di votare il finanziamento alla missione militare italiana in Afghanistan, dibattito questo che certamente arricchisce il partito, ma rinunciando fin d’ora alla possibilità di un voto parlamentare difforme dalle scelte della maggioranza del partito, e richiamiamo i compagni senatori al senso di responsabilità e a valutare pienamente le gravi conseguenze delle loro azioni. Alessandro Barducci Renato Buffa * Se qualcuno volesse sottoscrivere l’appello, la forma più corretta è quella di stampare il documento, firmarlo (uno o più compagni) indicando nome e cognome (e magari anche numero di tessera), scansionarlo ed inviarlo per mail a appello_rifondazione@yahoo.it In caso questo non sia possibile, inviare per mail un documento Word o di testo con la lista dei compagni ed i corrispondenti numeri di tessera. Naturalmente il compagno che invia il documento si fa responsabile dell’autenticità delle sottoscrizioni inviate. Ovviamente potete anche inviare la sottoscrizione in cc a chi volete voi Saluti comunisti
 
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