Creato da Lola76 il 11/09/2014

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Penne all'arrabbiata western

Post n°2 pubblicato il 25 Settembre 2014 da Lola76

Florindo era il proprietario della trattoria che faceva angolo in cima alla salita. Era anche il cuoco, il cameriere, il barista e l’interior designer. Il suo era uno di quei postacci che tanti scrittori descrivono benissimo persino nei granelli di polvere, senza però mai averci messo piede. Loro, indottrinati ai sottopiatti in pizzo di Cantù dalla guida Michelin.

Era coscritto di mio nonno, l’annata dei balordi, e sebbene fosse certamente passato attraverso un’infanzia, una gioventù e una mezz’età, nessuna di quelle epoche storiche è mai stata rintracciabile nella sua persona.  Chiunque lo conosceva, sapeva che Florindo ha sempre avuto una sola età: quella che aveva all’epoca del locale.
Con una capacità imprenditoriale disarmante, l’aveva ricavato da un vecchio garage: ci aveva aperto una finestra, messo quattro tavoli, e in uno slancio di originalità l’aveva chiamato “Trattoria”. L’aveva fatto scrivere sul muro sopra la saracinesca, con la vernice bianca e azzurra.
Nessun palato, tranne quello ruvido degli operai della segheria adiacente, aveva mai provato l’ebrezza delle sue portate. In effetti nessuno sapeva quali fossero, non esisteva menù, se non quello che la fantasia dello chef si compiaceva di offrire. Avete presente l’insegna sopra la saracinesca? Ecco.
Nei giorni di buona, Florindo serviva penne all’arrabbiata tanto cariche di peperoncino da bruciare le papille gustative ad un messicano doc. E guai a lamentarsi, perché “arrabbiata” stava anche a notificare che non accettava appunti alla sua cucina: si narrava che se lo si faceva incazzare sputava nel sugo, prima di innaffiarci la pasta. Il vecchio la sapeva lunga in fatto di vendetta. E anche in fatto di vino. Fiumi e fiumi di rosso zampillavano quotidianamente dalle botti  per gorgogliare nelle gole dei soliti avventori: per ogni bicchiere versato, Florindo ne beveva mezzo. E i suoi aficionados erano sempre molto assetati:  Bepi “il cacciatore”, anche se non gli ho mai visto imbracciare un fucile. Giulietto, autista dello scuolabus (bambini allacciate le cinture). E Ferruccio, precursore, anche se di insuccesso,  di tutti gli affittacamere.

A metà pomeriggio noi ragazzetti scendevamo in paese  a prendere il gelato. Era il momento della scopa d’assi, ad uno dei quattro tavoli. Florindo per quell’ora era imbenzinato a dovere, sicchè eravamo noi a scavare nel congelatore per poi mettergli in mano i soldi contati (fare calcoli a quell’ora non era cosa, e nessuno voleva rischiare di sganciare 2000 lire per un Maxistecco). Ci affidavamo al tabellone Motta del 1980, in cui la metà dei gelati era fuori produzione. Lui ci guardava inebetito come fossimo folletti, mentre risistemavamo le vaschette al loro posto . Se non aveva l’intuizione di allungare la mano, gli allineavamo  le monete sul bancone, perché le controllasse. A quel punto sgranava un solo occhio (l’altro arrivava poi,  in differita), come se glie le avessimo regalate. Sghignazzavamo aspettando il rituale dell’occhio, scommettendo i tempi di reazione. Senza nemmeno contarle le infilava in cassa. Poi non salutava, faceva “Ohibò”, mentre i quattro presenzialisti dell’après-midi alzavano il naso dalle carte solo per prendere un altro sorso di rosso.

Mi sono sempre chiesta come facesse ad arrivare alla fine del giorno, ogni giorno. Per me era un po’ come uno di quei personaggi senza nome dei film western, quelli sempre ubriachi al bancone del saloon, che finiscono per crollare dagli sgabelli, innescare involontariamente una rissa o prendersi per errore una pallottola in fronte. Di certo, non ne uscivano dritti con le loro gambe. Florindo era uno di loro: immaginavo che qualcuno se lo caricasse in spalla, la sera. Che gli abbassassero la saracinesca e gli infilassero le chiavi nella tasca dei pantaloni. Poi nessuno sapeva che fine facesse ma, contro ogni pronostico, apriva puntuale il giorno dopo. Non ne perdevano nemmeno uno, lui e il suo fegato.

Dopo di lui nessuno sollevò, o ebbe il coraggio di sollevare, la saracinesca. Il tempo e il sole si sono portati via la ruspante poesia dell’insegna. Dentro, tutto sarà rimasto come l’aveva lasciato. Il bancone di legno con le monetine in fila indiana. Sedie vaganti per il pavimento in cemento armato. Il congelatore, trasformato in impenetrabile cupola di ghiaccio contenente fossilizzati Maxistecco  del 1988, in attesa che qualche paleontologo li rinvenga, in perfetto stato di conservazione. Il sugo arrabbiato, sopra fornelli spenti. Quattro bicchieri dal fondo bruno, sul tavolo imbrattato di chiazze dello stesso, profondo colore.
E una scopa servita, all’ultima mano.

 

 
 
 
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