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Post n°2 pubblicato il 25 Settembre 2014 da Lola76
Florindo era il proprietario della trattoria che faceva angolo in cima alla salita. Era anche il cuoco, il cameriere, il barista e l’interior designer. Il suo era uno di quei postacci che tanti scrittori descrivono benissimo persino nei granelli di polvere, senza però mai averci messo piede. Loro, indottrinati ai sottopiatti in pizzo di Cantù dalla guida Michelin. Era coscritto di mio nonno, l’annata dei balordi, e sebbene fosse certamente passato attraverso un’infanzia, una gioventù e una mezz’età, nessuna di quelle epoche storiche è mai stata rintracciabile nella sua persona. Chiunque lo conosceva, sapeva che Florindo ha sempre avuto una sola età: quella che aveva all’epoca del locale. A metà pomeriggio noi ragazzetti scendevamo in paese a prendere il gelato. Era il momento della scopa d’assi, ad uno dei quattro tavoli. Florindo per quell’ora era imbenzinato a dovere, sicchè eravamo noi a scavare nel congelatore per poi mettergli in mano i soldi contati (fare calcoli a quell’ora non era cosa, e nessuno voleva rischiare di sganciare 2000 lire per un Maxistecco). Ci affidavamo al tabellone Motta del 1980, in cui la metà dei gelati era fuori produzione. Lui ci guardava inebetito come fossimo folletti, mentre risistemavamo le vaschette al loro posto . Se non aveva l’intuizione di allungare la mano, gli allineavamo le monete sul bancone, perché le controllasse. A quel punto sgranava un solo occhio (l’altro arrivava poi, in differita), come se glie le avessimo regalate. Sghignazzavamo aspettando il rituale dell’occhio, scommettendo i tempi di reazione. Senza nemmeno contarle le infilava in cassa. Poi non salutava, faceva “Ohibò”, mentre i quattro presenzialisti dell’après-midi alzavano il naso dalle carte solo per prendere un altro sorso di rosso. Mi sono sempre chiesta come facesse ad arrivare alla fine del giorno, ogni giorno. Per me era un po’ come uno di quei personaggi senza nome dei film western, quelli sempre ubriachi al bancone del saloon, che finiscono per crollare dagli sgabelli, innescare involontariamente una rissa o prendersi per errore una pallottola in fronte. Di certo, non ne uscivano dritti con le loro gambe. Florindo era uno di loro: immaginavo che qualcuno se lo caricasse in spalla, la sera. Che gli abbassassero la saracinesca e gli infilassero le chiavi nella tasca dei pantaloni. Poi nessuno sapeva che fine facesse ma, contro ogni pronostico, apriva puntuale il giorno dopo. Non ne perdevano nemmeno uno, lui e il suo fegato. Dopo di lui nessuno sollevò, o ebbe il coraggio di sollevare, la saracinesca. Il tempo e il sole si sono portati via la ruspante poesia dell’insegna. Dentro, tutto sarà rimasto come l’aveva lasciato. Il bancone di legno con le monetine in fila indiana. Sedie vaganti per il pavimento in cemento armato. Il congelatore, trasformato in impenetrabile cupola di ghiaccio contenente fossilizzati Maxistecco del 1988, in attesa che qualche paleontologo li rinvenga, in perfetto stato di conservazione. Il sugo arrabbiato, sopra fornelli spenti. Quattro bicchieri dal fondo bruno, sul tavolo imbrattato di chiazze dello stesso, profondo colore.
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