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Assegno di Ricollocazione: non è un flop, ma bisogna correggerlo in fretta..!

Post n°87 pubblicato il 18 Aprile 2017 da claudionegro50
 

 

Il principio che nel Jobs Act ispira il provvedimento dell'Assegno di Ricollocazione è forse il più innovativo e quello con maggior potenziale per determinare la trasformazione del mercato del lavoro in senso più flessibile e “friendly”. Soprattutto il collegamento tra il percepire un'indennità di disoccupazione e l'obbligo di attivarsi per ricollocarsi attraverso una rete di operatori specializzati (quindi non semplicemente attraverso dichiarazioni formali o iscrizioni in liste gestite burocraticamente) costituisce una vera e propria rivoluzione culturale rispetto alla tradizionale politica di assistenza e, possibilmente, accompagnamento alla pensione che per decenni ha costituito la linea guida delle politiche del lavoro statali. Il fatto che entri in vigore per ora a titolo sperimentale in fondo è accettabile in linea di principio, stante la necessità di metterne a punto i meccanismi sulla base di un'esperienza concreta e stante l'insufficienza di risorse (ma occorre abituarsi all'idea che nel momento in AdR andrà a regime dovrà avere la priorità sui finanziamenti destinati al lavoro). Tuttavia non si può non rilevare come nella normativa varia emessa da ANPAL che regola la sperimentazione si nascondano, più o meno tra le pieghe, vincoli e disposizioni che rischiano, nel concreto, di modificare la natura di AdR e scoraggiarne l'utilizzo.

Vediamoli un po': su 25.000 lettere inviate ai soggetti destinati ad essere percettori di AdR, una infima minoranza ha dato riscontro (AFOL Milano, cioè il Centro per l'Impiego, ha “staccato” appena 15 Assegni!). In questo c'entra la normativa ANPAL, ovviamente comunicata ai destinatari con la lettera, la quale chiarisce che non c'è né obbligo né fretta di attivare le procedure di AdR. Il che legittima la conclamata propensione dei percettori di integrazione al reddito a sfruttarlo fino in fondo prima di attivarsi sul serio sul mercato del lavoro. Ciò da un lato distrugge le possibilità di ricollocazione dei soggetti interessati: è ben noto che già dopo tre mesi di disoccupazione la probabilità di reimpiego diminuisce rapidamente; in questi casi siamo a 4 mesi (minimo di NASPI per accedere all'Assegno) più N mesi (fino a 20) fino a che il percettore di NASPI decida di attivarsi. Il fiasco è quasi assicurato..! Dall'altro, di conseguenza, marcherà un risultato decisamente negativo sull'esito della sperimentazione.

Un altro “bug”: nell'Avviso di Sperimentazione emesso da ANPAL è previsto un vincolo per il riconoscimento dell'erogazione di servizi ai titolari dell'AdR anche nel caso in cui non vi sia un esito positivo (ossia, la persona non sia stata ricollocata). Come è giusto per evitare abusi, quest'erogazione è vincolata ad alcune condizioni. E qui comincia il problema: la condizione per riconoscere all'operatore (pubblico o privato) il pagamento “a processo” dei servizi comunque erogati, è subordinato al fatto che l'operatore in questione abbia ricollocato nei sei mesi precedenti una certa percentuale di titolari di AdR, variabile per territorio. Per Milano, ad esempio, l'operatore deve avere ricollocato almeno il 33% dei titolari di AdR che si è preso in carico nei sei mesi precedenti per aver diritto ai 106€ che spettano per i servizi erogati ai non ricollocati.

Ora, mi domando, perché mai l'operatore (pubblico o privato) di Milano dovrebbe infilarsi in un percorso così incerto e complicato quando per la stessa persona da ricollocare potrebbe usare Dote Unica Regionale (DUL), che ha il vantaggio di essere un sistema collaudato e ben noto agli operatori, con una premialità migliore e meno difficile da ottenere? E' bene ricordare che anche con Garanzia Giovani affiorò un problema analogo, con casi di candidati che venivano tenuti a bagno maria per il tempo necessario ed essere poi dirottati su DUL.

Per cui abbiamo almeno due spinte “convergenti”: gli operatori poco motivati ad accettare portatori di AdR, i destinatari di AdR non disincentivati a prolungare fino a quanto possibile la posizione di assistiti.

Mi rendo conto che una soluzione universale non potrebbe che prevedere elementi coercitivi tipo l'obbligo degli operatori di farsi carico di un certo numero di AdR, e/o la perdita del NASPI per i destinatari di AdR che non si attivano. Ma mi rendo conto anche delle difficoltà politiche che comporterebbe.

Tuttavia: paradossalmente, in virtù di una delle “diversità” italiane delle quali fino a poco tempo fa andavamo fieri, temo si debba prendere atto che mediamente l'interesse del licenziato ad essere ricollocato si manifesta in tempi più lunghi rispetto all'interesse dell'operatore di politiche attive a ricollocarlo.

Su questo si potrebbe costruire una “leva” per incentivare l'utilizzo di AdR da parte dei destinatari: se gli operatori (pubblici e privati) potessero accedere all'elenco dei destinatari delle 25.000 (per ora) lettere inviate da ANPAL, e presentare in modo non burocratico ma incoraggiante ai destinatari il percorso di ricollocazione, magari dando loro, in Lombardia, la possibilità di proporre AdR o DUL a seconda della convenienza forse si riuscirebbe a coinvolgere più persone e più operatori.

Ma, in conclusione: se è prematuro parlare di flop dell'Assegno, è però evidente che se gli esiti della sperimentazione continueranno su questo registro il fallimento sarà incontrovertibile, e non vorrei che si facesse strada, come nel caso dei voucher, la tentazione di rimettere tutto nel cassetto e ritornare al buon vecchio assistenzialismo: non sono pochi quelli cui non parrebbe vero di demolire un altro pezzo, e stavolta un pezzo fondamentale, del Jobs Act. Meglio sarebbe correggere in corsa le regole prima che sia troppo tardi: in fondo di sperimentazione se ne è fatta abbastanza per capire che è necessario metterci mano!

 

 
 
 

Scusate il disturbo, stiamo lavorando per voi. I paradossi dello sciopero ATM

Post n°86 pubblicato il 06 Aprile 2017 da claudionegro50
 

 

Uno sciopero è uno sciopero. Il suo scopo è di creare tanti danni alla controparte da indurla a cedere alle richieste del sindacato. Nel comparto del trasporto pubblico, come è noto, la controparte non è l'Azienda, che anzi dallo sciopero ci guadagna (la gran parte degli introiti da traffico derivano da abbonamenti, che comunque sono già incassati, e per le ore di sciopero risparmia le retribuzioni) ma il committente dell'Azienda (nel caso di ATM IL Comune di Milano) e la comunità che usa il mezzo pubblico che subirà i danni e quindi farà pressione sul Comune perché intervenga sull'Azienda affinché accontenti i Sindacati.

E' sempre stato così, nonostante molte proposte, sempre lodate nei convegni ma mai praticate, intese a scaricare i danni sulle aziende ma salvaguardare gli utenti. Chi decide lo sciopero sa benissimo che il disagio, il danno collettivo, talvolta il caos che provoca lo sciopero del trasporto pubblico in una grande città è assai superiore, in termini anche di visibilità, di uno sciopero che coinvolga solo le due parti in lotta. E' una lezione che è stata imparata anche dalle organizzazioni sindacali dell'industria, che non disprezzano, in vertenze "dure", di prendere in ostaggio un po' di popolazione civile bloccando strade o stazioni.

Il caso dello sciopero ATM del 5 aprile, in concomitanza (per favore, non si dica casuale) con il Salone del Mobile, è un esempio di ottimizzazione di questa logica: se blocco la città in una giornata così importante produrrò un danno multiplo di quello che provocherei scioperando in una giornata qualunque, e senza costi aggiuntivi.

Si potrebbe anche tentare un'equazione di sapore "giustificazionista": la posta in gioco per il sindacato è veramente talmente alta da valere il danno inflitto?

Il danno è grosso: mette in discussione l'immagine e l'affidabilità di Milano; una metropoli all'avanguardia, centro di una rete di relazioni economiche e civili in crescita, candidata a diventare una delle capitali del sistema Europa, non può permettersi di bloccarsi proprio quando da tutto il mondo la gente viene qui attratta da un evento di quelli su cui Milano ha ricostruito la propria immagine e la propria credibilità.

La posta in gioco dal punto di vista del sindacato? La versione divulgata è quella di evitare lo "spacchettamento" dei servizi gestiti da ATM: trasporto, car sharing, bike sharing. Sarebbe un fatto grave? Gli utenti ne sarebbero danneggiati? Se a gestire il car sharing fosse un soggetto diverso da ATM per i cittadini che differenza farebbe? In realtà ciò che i sindacati dei trasporti fanno fatica ad accettare è il fatto che il sistema del trasporto pubblico non faccia capo ad un monopolista pubblico: è l'ansia da rottura del monopolio che pavlovianamente attanaglia il sindacato in queste circostanze. Dice: ma l'ATM ha una gestione sana, efficiente e perfino profittevole; vero, ma perchè affidare pezzi di servizio ai privati lo peggiorerebbe? Se ne può discutere, naturalmente, ma l'unico criterio accettabile è quello di valutare vantaggi e svantaggi per gli utenti del servizio. Cosa che anche il sindacato dei trasporti sa e declama "Uno sciopero con Milano e non contro Milano" era lo slogan.

In realtà il danno inflitto alla città è certo e grave, quello paventato dal sindacato è opinabile, soggetto comunque ad una discussione che era ancora aperta e non aveva ancora prodotto alcun effetto. In conclusione: i sindacati dei trasporti hanno aperto il fuoco a scopo preventivo, infischiandosene dei danni causati alla città, anzi ricercandoli per massimizzare la propria forza di interdizione.

Va be': non è la prima che vediamo e non sarà l'ultima. Ma almeno ci risparmino la litania del "lo facciamo nell'interesse della città". Questa sbandierata vocazione universalista è sempre più una copertura per una politica di autotutela di interessi costituiti, legittimi ma non universali. E quando l'autotutela di un interesse specifico entra in contrasto con l'interesse collettivo può esserci un momento in cui la corda si spezza.

Sarebbe bene che il Sindacato Confederale facesse in proposito una riflessione seria e mettesse in atto comportamenti conseguenti, prima che lo facciano altri.

 

 
 
 

Scissione: la passione dei comunisti dal 1921. Ma forse è meglio così...

Post n°85 pubblicato il 18 Febbraio 2017 da claudionegro50
 


In fondo ha ragione Speranza ad affermare che la scissione nel PD non dipende dalla data del Congresso ma dal merito della linea politica del Partito. Naturalmente, come sempre nella Storia, il merito si mescola e interagisce con il carattere, le aspettative, le emozioni delle persone, che spesso finiscono per prevalere e condizionare il merito, ma alla fine non lo modificano.

Mi spiego: chi si sente erede del "grande Partito Comunista di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer" non può tollerare di essere messo da parte e anche un po' sbeffeggiato da giovanotti che non sono mai passati dalle Frattocchie e non mostrano rispetto per i fasti di una storia che "viene da lontano e va lontano".

Peraltro Renzi e i suoi non nascondono l'insofferenza per chi rivendica l'esclusiva della certificazione del termine "sinistra".

Anch'io non sono equidistante e obiettivo, ovviamente. Quando ci inoltriamo sul terreno delle emozioni e della sensibilità, non riesco a dimenticare il killeraggio del PCI nei confronti del riformismo craxiano, né la festosità con cui Occhetto e i suoi sodali accoglievano l'opportunità di ottenere per via giudiziaria il potere che erano stati sempre incapaci di conquistare attraverso libere elezioni. Pertanto non nasconderò che l'idea dei nipotini di Berlinguer che organizzano l'ennesima scissione minoritaria della sinistra come dei Cossutta o dei Vendola, e magari D'Alema che prende il 5% alle elezioni mi dà qualche soddisfazione...

Però vorrei restare sul terreno indicato da Speranza: le ragioni di merito della scissione, che ci sono eccome e sono ben più gravi dei capricci e delle giravolte su Congresso o Conferenza Programmatica, Primarie ed Elezioni e relativa cronologia cui un po' ipocritamente buona parte della minoranza si aggrappa per giustificare una scissione che avviene per motivi ben più seri.

La minoranza reclama uno spostamento "a sinistra" del baricentro del PD; il merito concreto non è mai stato declinato in modo compiuto, ma oggi Emiliano (intervista a Corsera, pag.2) ne fotografa con una battuta sintetica quanto efficace la filosofia fondante: "Come si concilia la posizione del PD con il referendum della CGIL?". Appunto: il dissenso è di merito ed è enorme. E' sul lavoro, per il quale la sinistra chiede l'abolizione sostanziale del Jobs Act; è sulla scuola, per la quale si rivendica l'eliminazione delle poche novità introdotte dalla Buona Scuola in materia di autonomia e responsabilità dei dirigenti, di reclutamento degli insegnanti, di valutazione del merito; è sulla previdenza, per la quale si chiede di svuotare la Legge Fornero; è sul fisco, per il quale, dopo le dovute geremiadi sull'eccessiva pressione fiscale, si invoca come prerequisito ad ogni altra operazione la tradizionale "lotta all'evasione"; è sulla spesa pubblica, per la quale, dopo il tradizionale richiamo alla "lotta agli sprechi" si chiede una bella espansione tramite un vasto programma di assunzioni nella Pubblica Amministrazione; è sul ruolo dello Stato in economia, che si sostanzia nell'opposizione alle privatizzazioni (eh, non ci sono più i capitani coraggiosi...).

Ma, ancora a monte, c'è un pensiero, e stavolta serio e non strumentale, che identifica il "sentiment" della sinistra e dal quale scendono a cascata le sue opinioni. Ben lo riassume Veltroni, che pure alla sinistra PD non appartiene ma a quella cultura sì: "Oggi assistiamo a una rivoluzione tecnologica affascinante, seducente, ma che non genera lavoro; lo distrugge. Scompone le classi sociali. Riscrive l'esistenza umana sotto il segno della precarietà permanente". Questo punto di vista ritaglia alla sinistra un ruolo di "resistente" al cambiamento del sistema economico, la identifica come ultimo baluardo allo sconquasso che l'introduzione dell'intelligenza artificiale nel sistema produttivo produrrà in termini di distruzione-creazione di posti lavoro. Un ruolo passivo, da Ridotta Valtellinese, o velleitario, se si pensa di invertire la tendenza per cui i robot distruggeranno posti di lavoro "esecutivi" ma ne creeranno di più nella programmazione, nella manutenzione, per non parlare della cura delle persone, della cultura, della socialità, della ricerca; fino a non escludere che la ricchezza prodotta dei robot possa finanziare una qualche forma di reddito universale.

Ma la sinistra PD ha voglia di confrontarsi con queste prospettive? Certo che no! Ha voglia di candidarsi a governarle? Giammai arrischiarsi oltre l'orizzonte dell'esperienza socialdemocratica (alla quale tuttavia ai bei tempi tante sapute critiche e sbeffeggiamenti di intelligenza col nemico di classe erano stati riservati).

No: la scissione ha il compito storico di testimoniare l'esistenza di una forza politica dei "bei vecchi tempi": statalista ma rispettosa delle corporazioni, dedita alla conservazione delle vestigia istituzionali (Senato, Cnel) e risolutamente determinata a non mettere in discussione pilastri della Repubblica quali i TAR e l'unicità delle carriere dei Magistrati. E soprattutto a restaurare il buon vecchio principio del tax and spend.

E con questa scissione il percorso comunista che "viene da lontano e va lontano" sarà finalmente arrivato.

Non lo rimpiango: in Paesi più fortunati è finito prima!



 

 

 

 
 
 

Ma è radical chic dire che gli elettori possono credere alle frottole?

Post n°84 pubblicato il 30 Gennaio 2017 da claudionegro50
 

 

Ho sempre trovato ridicolo quanto benintenzionato il politically correct, e ho sempre detestato l'approccio del "antropologicamente differente" con cui, anche da noi negli anni di Berlusconi, da sinistra venivano bollati gli elettori del centro destra (vezzo che comunque già si trovava nelle intemerate di Sant'Enrico Berlinguer sul tema dell'onestà).

Ora però mi sembra che, in epoca di populismi trionfanti, stia prendendo piede il vezzo opposto: quello per cui per non sembrare radical chic occorre santificare il voto popolare comunque. Ovvio che il voto decide, ci mancherebbe altro... Ma che occorra dargli alibi e giustificazioni qualunque sia la scelta che fa non mi pare obbligatorio.

Partirei da una constatazione di base: un'opinione può essere una minchiata, magari anche dannosa, pure se viene dal popolo ed è suffragata del voto elettorale. Il che non deve vietare a chi la condivide di sostenerla. Ma non deve neppure vietare a chi se ne rende conto di dire che è una minchiata; senza tanti giri di parole e ricerca di circostanze attenuanti (queste sì insopportabilmente politically correct).

Gli americani hanno votato Trump in odio all'establishment di Washington e agli squali di Wall Street? A parte che adesso si ritrovano con un Governo composto quasi totalmente di miliardari, si sono domandati che effetti avranno i dazi doganali ("buy american") sull'esportazione americana quando gli altri paesi avranno prese le loro contromisure? E' il mito ricorrente dell'autosufficienza della grande potenza, della guerra alla globalizzazione, della sovranità che, grazie ad una politica impavida e gagliarda, sana ogni problema. Sfasciamo la NATO: hanno pensato gli elettori di Trump come sarà il futuro degli USA isolati militarmente e commercialmente in un mondo dove, piaccia o no a Tremonti, la globalizzazione andrà avanti, con Cina, India, Russia a dividersi il pianeta a partire dall'Europa? Certo che no! Si sono riconosciuti in Trump perchè dice le stesse stupidaggini che dicono loro al drugstore o dal barbiere. Dire che si tratta di stupidaggini fa di me uno schifiltoso capalbino? Dice: ma hanno sofferto molto durante la crisi. A parte che in America la crisi è passata da un po' e mica tutti sono ex operai dell'industria dell'auto, si dice che hanno votato "con la pancia": ma la pancia si sa, non è organo preposto al ragionamento; non è proprio il caso di rivalutare il voto di pancia esclusivamente in odio alle pur odiose intelligentzje della sinistra.


Da noi il referendum ha azzoppato Renzi. A parte i NO politici (magari strumentali ma comunque consapevoli), è stato enfatizzato il NO dei giovani. E si è detto che hanno votato contro perché sono disillusi sul futuro, ostili a un sistema che li esclude, sfiduciati da una politica che si presenta distante e sempre uguale a se stessa. E allora hanno per conservare tutto com'è, contro l'unico tentativo fatto negli ultimi trent'anni di cambiare le Istituzioni! Sapevano che votavano per conservare tutto così com'è? Credo di no: hanno votato "contro", non "per". Colpa nostra che non gli abbiamo fornito i "per"? Forse i nostri "per" avevano meno appeal delle bufale e dell'odio che ribollono nei social. Un'osservazione: Renzi ha attirato su di sé un odio non spiegabile con qualunque episodio del suo operato. Un odio distruttivo, che si nutre di falsità, ma perfettamente in sintonia con quanto ci si vuol sentir dire.


E qui mi sembra necessaria un'altra osservazione: il populismo non sopporta la competenza e la conoscenza dei problemi. Ognuno è portatore della sua soluzione, e uno vale uno. L'opinione di Veronesi su come curare un tumore vale come quella della casalinga innamorata del metodo Di Bella. Una bufala di Di Majo vale quanto la spiegazione di Padoan (anzi, piace di più perché vicino a quel che si dice al bar ed evita di doversi documentare). Ognuno in rete può proporre la sua soluzione. Bello: al bar da decenni ognuno propone la propria formazione per la Nazionale. Ma la formazione della Nazionale poi non è sottoposta a suffragio universale: le scelte politiche sì!

 

Quando Grillo dice di voler sottoporre ad una "giuria popolare" le menzogne della stampa, dice esattamente questo: non è importante se la notizia sia giusta o falsa, importante è che la gente la condivida o no.

 

Il virologo Burioni su Facebook si dichiara indisponibile a discutere in materia di vaccini con chi non ha una preparazione specifica in merito. Ha perfettamente ragione: in assenza di una discriminante che si rifaccia alle competenze non c'è confronto, ma un frullato di chiacchiere e sermoni autoreferenziali. C'è il rischio di consegnare la materia ai "colti" escludendo il popolo? Certo! Dall'altra parte c'è il rischio di affogare le questioni in un magma di luoghi comuni, pregiudizi e sciocchezze legittimati dalla categoria dell'ignoranza quale elemento fondante del "sentire popolare" (basta con gli esperti, urlavano gli attivisti pro Brexit...).

 

In fondo Lenin sosteneva che anche una cuoca deve poter dirigere lo Stato, ma probabilmente anche lui avrebbe esitato davanti alla candidatura di Salvini o di Grillo.

 


 

Abbiamo sempre pensato che le menzogne (e ce ne sono state tante, ma a quei tempi la diffusione era limitata dalla scarsa diffusione dei media) potessero "condire" un'elezione, ma non determinarla. Credo che le cose comincino ad essere differenti. Non si tratta infatti semplicemente di una notizia falsa ( tipo: Romani, Cesare vuole farsi re..!) ma di una complessiva percezione falsata della realtà: la criminalità è in aumento (ma non è vero, i reati diminuiscono); i prezzi corrono e la gente non ce la fa più (non è vero, i prezzi sono in discesa); il Governo salva le Banche per compiacere i "poteri forti" (non è vero, si tutelano i correntisti e i lavoratori), la disoccupazione galoppa (non è vero, i posti di lavoro aumentano da più di un anno a questa parte). Il ribellismo populista ha la possibilità di inventare notizie, lanciare allarmi, senza alcun timore di essere giudicato irrealistico: bestialità come il no alle vaccinazioni, le scie chimiche, il "signoreggio" bancario (vecchia invenzione di Beppe Grillo) vengono contrabbandati nel bagaglio di conoscenze comuni e condivise di un numero crescente di persone.

 

Il divide non sarà antropologico (ma in termini di antropologia culturale forse sì) ma è grave lo stesso: segmenti interi della comunità perdono il contatto con tutto quello che è stata la cultura occidentale, l'approccio induttivo alla conoscenza, il metodo razionale, la capacità critica. La sfiducia nella scienza, la paura del nuovo (caratteristiche ahimè riscontrabili anche nella sinistra non certo Trumpiana, e perciò ancora più preoccupanti perché evidentemente tendono a diventare dominanti) sono patrimonio comune.

 

Allora: sono radical chic se dico che questa inclinazione mi pare estremamente pericolosa per l'Occidente e tutto ciò che esso rappresenta a partire dalla democrazia? Non ho da proporre una soluzione: non ce l'ha nessuno, anche perché i golpisti stanno piuttosto dall'altra parte. Ma vogliamo ammettere che il problema esiste, e mette in luce le contraddizioni che possono esistere tra i metodi e i fini della democrazia?

 

 

 
 
 

Dietro i referendum CGIL su voucher e appalti c'è una motivazione profonda: "non ci indurre in tentazione"

Post n°83 pubblicato il 14 Gennaio 2017 da claudionegro50
 

 

A prescindere dal merito, c'è un aspetto curioso e paradossale nei quesiti referendari (voucher e appalti) proposti dalla CGIL: in entrambi i casi si tratta di abolire norme che consentono (non "obbligano") al sindacato di utilizzare determinati strumenti.

Mi spiego.

E' certamente possibile e probabile che in alcuni casi si sia fatto un uso scorretto dei voucher, sia per nascondere lavoro in nero sia per pagare di meno gli straordinari a lavoratori regolarmente assunti. Occorre, direbbe il buon senso, metter mano alla normativa in modo da evitare abusi. Sapendo che comunque nessunissima regola è a prova di truffa..! Ma, ce lo dice l'ottima ricerca dell'INPS di settembre 2016, nella maggioranza dei casi se ne è fatto l'uso previsto e corretto. In particolare da parte della CGIL Pensionati, che li ha usati per retribuire le collaborazioni, ovviamente occasionali, di militanti dell'Organizzazione in determinati momenti; e motivandolo con un'ovvia osservazione: se no che facevamo, li pagavamo in nero? Osservazione ragionevolissima, che vale per la CGIL Pensionati ma anche per la gran maggioranza degli utilizzatori di voucher. Tutto ciò però alla CGIL non sembra ragionevole: meglio abolire i voucher, e basta! Del resto "se la tua mano o il tuo piede ti sono occasione di scandalo tagliali, e gettali via da te" (Vangelo s. Matteo).


Ancora più curioso il merito del quesito sulla responsabilità solidale negli appalti. Esso propone l'abolizione di parte dell'art.29 del D.Lgs 276/2003 (la Legge Biagi) in particolare la seguente

"Salvo diversa disposizione dei contratti collettivi nazionali sottoscritti da associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative del settore che possono individuare metodi e procedure di controllo e di verifica della regolarità complessiva degli appalti," . Si tratta di una norma che consente alle Organizzazioni Sindacali e Datoriali di stabilire che in determinate condizioni possa essere derogato l'obbligo alla responsabilità solidale del committente rispetto all'appaltatore e subappaltatore nei crediti verso i lavoratori. Si tratta, badate bene, non di un obbligo, ma di una possibilità messa a disposizione del Sindacato, che può usarla oppure no a seconda del proprio giudizio. E per Sindacato non s'intende un sindacato di comodo padronale, ma i sindacati "comparativamente più rappresentativi", ossia CGIL CISL e UIL. Ma evidentemente la CGIL non si fida di se stessa: teme di poter abusare di questa facoltà e si sente più sicura se ne viene privata. Siamo ancora alla mano o al piede che va tagliato perché non ti sia occasione di scandalo.

Curiosissimi quesiti referendari, proposti da un Sindacato affinché la Legge non gli consenta di fare determinate cose. Che dire? Si vede che la CGIL si considera, richiamandosi alla tradizione evangelica, un "povero peccatore" e chiede di non essere indotta in tentazione: et ne nos indúcas in tentatiónem.


P.S. Secondo me anche nel caso di successo del SI, la possibilità di deroga resterebbe garantita dall'esecrato art. 8 L.148/2011, che consente alla contrattazione collettiva di derogare a norme contrattuali e di legge. Dice: ma allora perché non chiedere di abrogare per via referendaria l'art.8? Elementare, Watson: perché il nefando art. 8 è quello che consente alla CGIL di reintrodurre, tramite accordi collettivi, le tutele dell'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. La deroga alla legge è esecranda, ma alcune deroghe sono meno esecrande delle altre...

 

 

 
 
 

Il Paese si piace così?

Post n°82 pubblicato il 05 Dicembre 2016 da claudionegro50
 

Credo che sarebbe inopportunamente consolatorio raccontarci che si è trattato del voto contro l'establishment espresso da una classe media impoverita e rabbiosa, come afferma l'analisi trendy del voto populista. Intanto occorrerebbe spiegare perché questo ceto medio decide di incazzarsi proprio quando le cose cominciano ad andare meglio: l'occupazione aumenta (non tornerò ad elencare i dati: sono noti), la Cassa Integrazione diminuisce drasticamente, la produzione industriale aumenta, per la prima volta i lavoratori autonomi hanno tutele confrontabili con quelle dei lavoratori dipendenti, diminuisce la pressione fiscale per imprese e famiglie, si allontana lo spettro di fallimenti bancari a catena che comprometterebbero i risparmi anche di chi strilla contro i "salvataggi" delle banche. Peraltro, paradossalmente, aumenta l'indice di fiducia delle famiglie. Quelle stesse che vanno a votare.

E poi: gli incazzati americani hanno votato contro l'establishment e per un candidato che comunque aveva un'apparenza "innovativa", addirittura di rottura. Ma da noi chi è il Trump di questo referendum? Renzi era molto più innovativo dei leader del no, in alcuni casi autentiche cariatidi. Come fa il ceto medio inferocito e affamato di cambiamento a riconoscersi in un'opzione che dice: "non cambiamo niente"? E non sono certamente stati i risibili allarmi alla deriva autoritaria o gli strazianti lamenti per la fine del bicameralismo perfetto a smuovere le coscienze. Del resto chi elevava lamenti più alti era appunto chi nei recenti anni aveva con vigore rivendicato modifiche costituzionali assai simili a quelle bocciate ieri: D'Alema ai tempi della Bicamerale, delegittimata da magistrati che hanno svolto nei suoi confronti ruolo analogo a quello che lui ha avuto contro Renzi; Berlusconi col discorso alla Camera del 1995; la CGIL col documento approvato al Congresso del 2014 (andarsi a rileggere i documenti è sbalorditivo, ma la memoria storica in Italia viene generata e rimodellata ogni giorno dai media e dai social: troppa gente vive in un eterno presente, il cui passato è dimenticato e il cui futuro è sempre una rabbiosa rivendicazione, mai un progetto). Tutti costoro, quando è stato il momento di tradurre in pratica, si son battuti perché nulla cambiasse. Le motivazioni addotte sono palesemente strumentali e implementate da falsi e menzogne; fanno eccezione quelle avanzate da studiosi e teorici rispettabilissimi ma innamorati, come spesso in Italia, del rispetto formale del canone più che dell'efficacia del canone sulla vita reale.

E d'altra parte: ma quanti dei NO popolari sono riconducibili alle pensose riflessioni dei costituzionalisti di cui sopra o all'indignazione per la derubricazione del Senato o alla sollecitudine per le sorti del CNEL? Sappiamo tutti benissimo che la stragrande maggioranza di questi elettori non conoscono assolutamente la Costituzione e non gliene importa niente. Che cosa hanno votato allora, e perché? Hanno votato contro. Ma contro cosa?

Contro il cambiamento! Perchè? Perchè non interessa il cambiamento, che implica progetto e responsabilità. La maggioranza del Paese è affascinata dalla rabbia, dal ribellismo, dalla lamentazione. L'eroe di questi (anche se naturalmente non lo sanno) è Masaniello, o i Lazzari del Cardinal Ruffo che affossarono la Repubblica Rivoluzionaria Partenopea.

E' molto più gratificante potersi affacciare con un potere "altro" al quale si può rivendicare, pretendere, minacciare. E in fondo va bene così: perché mai prendersi la rogna di dovere assumersi responsabilità in prima persona, quando nel gioco tra potere e ribellione si possono aprire cospicui spazi in cui coltivare la clientela? Di fatto, il ribellismo e la clientela sono sempre andati a braccetto. O rivoluzione o niente. Quindi niente! Intanto ci arrangiamo...

Sarà questa tara genetica ad avere impedito al riformismo di avere successo nel Paese?

Il Governo Renzi è stato l'ultimo tentativo (speriamo non "ultimo") a tentare di riformare il Paese. Il Paese gli ha risposto di non volere essere riformato. Legittimo.

Un'ultima nota: a Milano, la più europea delle città italiane, il SI ha vinto. Il Paese si sta spaccando in due?

 

 

 

 
 
 

L'alternanza scuola-lavoro e l'imitazione dell'anticapitalismo

Post n°81 pubblicato il 24 Novembre 2016 da claudionegro50
 

Le manifestazioni degli studenti nei primi tre mesi di ogni anno scolastico sono endemiche come l'influenza: una ripetizione rituale di fasti passati, uno scimmiottamento che un antropologo marziano potrebbe interpretare come un rito di iniziazione, e che riesce a perpetuarsi perché, anche se agli osservatori esterni appare una liturgia ripetitiva e monotona, per gli interpreti è ogni volta nuova ed eccitante, grazie al fattore età.

A quasi 50 anni dal '68 direi che che questa ritualità ripetuta ogni anno possa essere definita folklore. Ma: il folklore è una manifestazione culturale, rappresenta tramite i suoi riti il sentire di una comunità, le sue convinzioni, i suoi giudizi e pregiudizi.

Gli slogan delle manifestazioni studentesche, per quanto imparaticci e buffamente truculenti (ci bocciano, ci sfruttano...) dicono qualcosa in cui i manifestanti si riconoscono. Tra qualche anno non ci crederanno più, ma gli stessi slogan serviranno a nuovi manifestanti: una staffetta generazionale che si perpetua da più di 40 anni.

Cosa ci dicono queste manifestazioni? Che il mondo della scuola vede il mondo del lavoro come "altro", sospetto, insidioso, perfino ostile. Un'idea corrente è quella che i due mondi vadano tenuti separati, perché il mondo del profitto non contamini il mondo della conoscenza. Per chi condivide questa idea è ripugnante il modello di alternanza scuola-lavoro; o meglio, può andare bene per gli Istituti Professionali ma non per i Licei. Buffo che proprio dal mondo della scuola riemerga, a 55 anni dalla riforma della Scuola Media Unificata, un'implicita concezione della separazione dei percorsi formativi tra quelli destinati alla mano d'opera e quelli riservati alla attività intellettuale.

Ma in fondo un discorso sulla "purezza" della cultura e sostanzialmente segregazionista nel dividere i percorsi formativi tra il "sapere" e il "saper fare" te lo aspetti da vecchi baroni universitari o anziane professoresse di liceo: invece questo discorso alligna floridamente a sinistra. Ma, naturalmente, non senza un make up politically correct: perché siamo contro l'alternanza scuola lavoro? Perché configura lo sfruttamento degli studenti, e per giunta ad opera di odiose multinazionali che affamano i popoli e distruggono l'ambiente (McDonald in primis).

Il ragionamento è risibile ma un sedicenne può crederci. E ci crede per due motivi: uno, che a scuola passa questo tipo di messaggio (insegnanti, assemblee,ecc.); due, che gli è stata inculcata un'idea del lavoro profondamente distorta.

Da un lato che il lavoro sia essenzialmente sfruttamento, dall'altra una bolsa retorica sul "lavoro" inteso come categoria spirituale: l'Italia è una Repubblica fondata sul "lavoro", il lavoro è un "diritto". Ma il lavoro di chi? E quale lavoro? In che consiste il lavorare? Il manifestante liceale messo di fronte ad un piccolo assaggio di realtà del lavoro si ritrae indignato: giammai la nostra fatica (?) serva al profitto! Ma che lavoro si aspetta il liceale manifestante? Il suo modello più vicino è quello degli insegnanti, che (fatemi grazia della semplificazione) rivendicano posto fisso, sotto casa e retribuzione garantita a prescindere dai risultati. Non lo sa, il liceale manifestante, che lavoro vuole. Ha l'implicita convinzione che, siccome è un diritto, qualcuno glielo deve dare. Nessuno gli ha mai detto che il "lavoro" non coincide con il "posto". Che il lavoro è una delle principali attività umane, implica attivarsi, darsi da fare, essere creativi, attrezzarsi per rispondere alla domanda del mercato. Che la conoscenza da sola (ammesso che la scuola media superiore fornisca conoscenza) non dà diritto al "posto". Che per lavorare occorre non solo sapere, ma "saper fare". E che qualunque contaminazione tra il percorso accademico e l'esperienza lavorativa aiuta ad attrezzarsi in questo senso.

Ultime due osservazioni.

Uno: se da oltre 40 anni gli studenti manifestanti (che in fondo sono probabilmente quelli più interessati a confrontarsi col mondo reale) ripetono lo stesso mantra, forse è la scuola stessa che glielo tramanda. E la scuola significa essenzialmente gli insegnanti. Sarebbe il caso che i Sindacati della Scuola si ponessero il problema di quali valori i propri iscritti trasmettono agli studenti, e del fatto che in questa trasmissione non possono essere prevalenti quelli riconducibili agli interessi professionali dei docenti.

Due: i dati sulle start up create da giovani sono sbalorditive. Sono gli stessi giovani che facevano i liceali manifestanti qualche anno fa? Chi lo sa? Ma è evidente che al di là della retorica anticapitalista delle manifestazioni c'è una capacità dei giovani di creare il lavoro. Credo che promuovere questo genere di skill dovrebbe essere la missione principale del sistema scolastico. Che altrimenti, così come del resto buona parte dei servizi pubblici, serve soltanto ai propri dipendenti.

 

 

 

 

 
 
 

Beati i protetti, pochè a loro appartiene la Repubblica!

Post n°80 pubblicato il 15 Ottobre 2016 da claudionegro50
 


Giavazzi sul Corriere dell'11 settembre notava come gli investimenti sull'innovazione in Italia siano fermi alle cifre del 2007, mentre nella UE sono aumentati mediamente del 20%. La mancanza di innovazione fa sì che la crescita del fatturato dipenda totalmente dall'andamento della domanda aggregata, e questa consapevolezza determina in gran parte degli operatori delle politiche economiche il riflesso pavloviano, radicato nella tradizione ideologica keynesiana, di aumentare la domanda attraverso la crescita dei redditi. A parte il fatto che in tempi di inflazione scarsa o nulla la liquidità che si butta sul mercato non produce un incremento equivalente della domanda (e questo vale per i consumi come per gli investimenti), e fermo restando che la domanda aggregata va comunque sostenuta, soprattutto con la leva fiscale, le imprese per crescere devono creare nuova domanda, o sottrarre quote di domanda ai concorrenti: se un'impresa non può crescere di più della sua domanda tradizionale si ferma, e troverà sempre qualcuno che le sottrarrà il mercato o con prodotti nuovi o con costi più bassi. La creazione di nuova domanda e la competitività sono funzione della capacità di innovare, e l'innovazione è il valore aggiunto che fa crescere l'economia. La gestione dell'esistente, conclude Giavazzi, ci condanna alla stagnazione: infatti la nostra economia è cresciuta, negli ultimi 20 anni, ad una media dello 0,46%.

A conclusioni analoghe giunge una recentissima ricerca del Centro Studi Assolombarda sulla competitività delle imprese manifatturiere lombarde, catalane, bavaresi, del Baden-Wurtenberg e del Rhone-Alpes: i dati smentiscono in maniera abbastanza netta l'idea che un basso costo del lavoro per unità di prodotto (o CLUP) sia da sola condizione necessaria per una elevata competitività internazionale. Viceversa le imprese che offrono bonus, brevettano, utilizzano elevati livelli di digitalizzazione ottengono quasi 30 mila euro per addetto in più rispetto al resto del campione (in Lombardia addirittura € 88.000 contro € 44.000).

E' chiaro come la capacità di innovare fino al punto di produrre brevetti come esito finale della R&S poggia innanzitutto sulla qualità del capitale umano. Ma questa è gravemente insufficiente. L'Italia è agli ultimissimi posti nell'UE per numero di laureati rispetto al totale della forza di lavoro, per effetto di una dispersione che avviene in due direzioni: è altissima la quota di abbandono universitario (45%) e molto più alta dei livelli medi OCSE la percentuale di laureati (e in genere sono tra i migliori) che si trasferiscono all'estero. Dal 2014 il numero di laureati disponibili per le imprese in Italia non cresce più; Irlanda e Corea sono già a percentuali triple delle nostre, e anche la Polonia ci sta superando.

Questo significa che il Paese non considera una priorità perseguire l'eccellenza nella formazione: non è considerato, né a livello di governo né di opinione pubblica, un obiettivo prioritario delle politiche dell'istruzione e dell'università; i finanziamenti non hanno questo scopo, l'establishment universitario e scolastico ha tutt'altre priorità, nessun interesse organizzato spinge seriamente in questa direzione.

Ho l'impressione che nel Paese vi sia un atteggiamento, assolutamente trasversale, apatico e indolente rispetto a queste sfide. Nell'immaginario collettivo italiano le priorità di gran lunga più sentite si possono ricondurre al termine “protezione”. In parte si tratta dello shock perché le tutele cui la welfare society ci ha abituati, ormai considerate naturali, eterne e dovute, sono messe in discussione; in parte si tratta della paura per le rotture che la globalizzazione ha introdotto nell'economia e nel lavoro.

Ma, mi perdonerete se tento di fare un po' di antropologia, credo ci sia qualcosa di più profondo, attinente alla nostra tradizione culturale. Proviamo a metterla così: in Italia è stimata la povertà, spregiata la ricchezza. La prima è virtù, la seconda segno di egoismo e ingiustizia. Dalla cultura cattolica a quella “di classe” questa visione è tracimata nell'immaginario collettivo. Non è, si badi bene, una rassegnazione al disagio, ma il convincimento che esso richieda in primo luogo protezione. Quello che nella società occidentale è stato un parametro decisivo per valutare l'incremento del benessere, ossia la mobilità sociale, è visto con sospetto perché in qualche modo implica un venir meno della condivisione di un percorso comune, dei legami di solidarietà, il rifiuto, o la rinuncia, ad un'identità sociale. Il Sindacato nella sua epopea più sfolgorante, l'Autunno Caldo, ha scelto l'operaio-massa, ossia il terzo livello metalmeccanici e su quel profilo ha tarato la propria politica rivendicativa: aumenti uguali per tutti, punto unico di scala mobile, disincentivazione dei percorsi di carriera individuali, disinteresse quando non ostilità (servi dei padroni…) verso i livelli professionali più alti.

Nella scuola, a parte le stupidate del Movimento Studentesco tipo il voto politico o il voto di gruppo (confesso di averle fatte anch'io a 18 anni), tutte intese a contrastare la selezione, è fiorita ed ha attecchito una cultura che ha come sua massima preoccupazione la protezione degli insegnanti: l'accesso al ruolo, la garanzia di non essere mai valutati nel merito, la regola della “libertà d'insegnamento” per non essere sottoposti a verifiche, la progressione di carriera per sola anzianità, la rivendicazione del posto di lavoro sotto casa sono i corollari di una politica della scuola che da decenni ormai si misura, di riforma in riforma, non con l'efficienza e i risultati dell'insegnamento, ma con la rivendicazione di combattere il precariato degli insegnanti.

E, quando si parla di povertà, qual'è la figura cui si pensa subito? Il Pensionato, destinatario peraltro della quota di gran lunga più cospicua della spesa pubblica per la protezione sociale. Vi sarebbe molto da ragionare sulla povertà dei pensionati, ma farlo è assai impopolare. Ancor meno far notare che i giovani sono parecchio più poveri: anzi, qualcuno conclude che bisogna aumentare le pensioni, visto che gli anziani devono mantenere i giovani...

D'altra parte, ed è una buona cartina al tornasole per riscontrare la mentalità dominante, è considerato umano e caritatevole pagare per anni sussidi ai disoccupati piuttosto che investire i soldi per aiutarli a rientrare nel mercato del lavoro.

La cultura della protezione non è di classe: attraversa tutta la società, si declina nella rivendicazione di giammai toccare i baluardi che un'infinità di corporazioni ha eretto a difesa delle proprie rendite di posizione; dalle più modeste (i tassisti..?) alle più prestigiose (notai, farmacisti,…).

Nell'Università, per esempio, i meccanismi di accesso all'insegnamento e alla ricerca sono costruiti per selezionare non in base al merito, ma all'appartenenza (a un clan familiare o alla corte di un cattedratico).

Alla fine bisognerà scegliere: risorse finanziarie e politiche vanno spese per conservare l'esistente, o per consentire di volare a chi ne ha la voglia e la capacità? Continuiamo a considerare più importante redistribuire la ricchezza, o a crearla? Non illudiamoci che, al di sopra di una certa misura, le due cose siano compatibili senza metterci mano in modo significativo. Non si tratta ovviamente di penalizzare i “poveri” ma di ripensare se la spesa sociale che oggi finanziamo serva davvero a proteggere i poveri.

Nella società italiana le capacità e le volontà mettersi a correre ci sono: basti guardare il successo che sta avendo Milano, ormai più vicina a Londra e Monaco che a Roma, e i rilevamenti sull'andamento del valore aggiunto e dell'occupazione della Lombardia.

Il rischio è che la radicata diffidenza nei confronti del successo, il sospetto con cui si guarda all'impresa, il timore per il cambiamento, abbiano la meglio. In questo caso la tensione tra le due velocità cui si muove il Paese potrebbe diventare lacerante con rischi gravi per la tenuta del tessuto sociale, delle istituzioni democratiche e della stessa unità del Paese.

 

 

 

 

 

 

 
 
 

Ma la libertà di stampa si misura da quante frottole un giornale sa inventare?

Post n°79 pubblicato il 21 Settembre 2016 da claudionegro50
 


Tripudio bipartisan della stampa antirenziana, di destra e di sinistra, alla pubblicazione dei dati trimestrali dell'Osservatorio INPS sulla precarietà:


“Il Jobs Act è tutto un flop: in 7 mesi giù le assunzioni” (Il Manifesto)

“Anche l'Inps certifica il fallimento del Jobs Act” (Il Tempo)

“Senza la droga di governo persi 76.000 posti” (La Verità)

e via così.


Il messaggio che viene comunicato è che l'occupazione diminuisce. Alla base di questi titoli si fa fatica a capire se ci sia più ignoranza (incapacità di comprendere i dati e i testi, problema peraltro diffusissimo in Italia come testimoniano le ricerche annuali PISA-OCSE sul grado di preparazione degli studenti) o più malafede (spacciare menzogne per verità, come sperimentato con successo dai tabloid inglesi con la Brexit).

Infatti l'occupazione non diminuisce, ma aumenta: in numeri assoluti dal gennaio 2014 al Luglio 2016 i lavoratori con contratto di lavoro subordinato sono aumentati di 600.000 unità.

Nello stesso periodo la variazione netta tra nuovi rapporti di lavoro e rapporti cessati è sempre stata positiva, e lo è anche per il primo semestre 2016: 804.000, di cui 76.000 a tempo indeterminato (vedi tab. 3 dell'Osservatorio INPS sul precariato, la stessa fonte “consultata” dai nostri tabloid).

Ciò che accade è cosa ben diversa dal calo dell'occupazione: è che l'occupazione aumenta a velocità inferiore a quanto ha fatto nel 2015.

Per capirci: i nuovi rapporti di lavoro avviati nel gennaio-luglio 2016 sono stati 3.428.000 contro 3.809.000 dello stesso periodo 2015, e le trasformazioni in contratto a tempo indeterminato 229.000 contro 329.000 (tab. 1 del medesimo infame Osservatorio).


Come mai rallenta la crescita dell'occupazione? Essenzialmente per tre ragioni, due delle quali previste e inevitabili:

1) nel 2015 le imprese che avevano intenzione di stabilizzare i contratti a tempo indeterminato lo hanno fatto, approfittando anche del bonus contributivo. In questo modo hanno in buona parte prosciugato lo stock dei contratti da trasformare e adesso le trasformazioni sono di meno. Infatti lo stock (per fortuna!) non si ricostituisce alla stessa velocità con la quale si svuota.

2) come il sindacato e le imprese hanno sempre detto, uno dei principali ostacoli all'occupazione (e tanto più a quella stabile) è il peso del cuneo fiscale contributivo. Con la forte decontribuzione attuata dal Governo per il 2015 le assunzioni a tempo indeterminato hanno decollato. Riducendosi la decontribuzione, e quindi ridimensionandosi il taglio al costo del lavoro, il tasso di aumento delle assunzioni diminuisce. Ma guarda un po'! Come volevasi dimostrare: avevamo ragione noi, direbbe un sindacalista che volesse fare il proprio mestiere e non quello di castigarenzi. Particolarmente significativo in proposito il titolo de “La Verità (?!?)”: senza la droga di governo persi 76.000 posti. E qui non riesci a distinguere se prevale l'ignorantaggine o la malafede: 76.000 sono i nuovi posti di lavoro a tempo indeterminato al netto di quelli cessati! Almeno imparare a leggere le tabelle…


C'è poi una terza ragione, nota anche se non inevitabile: l'occupazione non si può creare per legge (anche se nel Piano del Lavoro della CGIL pare far capolino questa convinzione, ma ne parleremo un'altra volta). Una buona riforma del Mercato del Lavoro può eliminare gli ostacoli che disincentivano le imprese dall'assumere; può creare le condizioni per cui le imprese siano più propense a tradurre le variazioni positive del ciclo economico in nuove assunzioni. Questo doveva fare e ha fatto il Jobs Act.


Infine qualche dato recentissimo, che riguarda la Lombardia ma che quindi, come direbbe Maroni, non può che essere paradigmatico per il resto del Paese: gli occupati in Lombardia nel 2° trimestre 2016 sono 436.700.000, 116mila in più rispetto al II trimestre 2015 e 67mila in più rispetto al trimestre precedente, ma soprattutto contro i i 4.300.000 del III trimestre 2008, quindi pre-crisi; il tasso di disoccupazione resta invece più alto (7%) rispetto ai livelli antecrisi (inferiori al 4%) in ragione dell'aumento della popolazione intervenuto in questi ultimi 8 anni di 596.000, di cui 277.000 di forze di lavoro (elaborazioni ARIFL su dati ISTAT).


Questa è la realtà; non so se nell'ambito della libertà di stampa sia anche iscritto il diritto di negarla e reinventarla. Devo dire che sento nostalgia della disinformacija dei tempi dell'URSS, che almeno cercava di essere verosimile e aveva un certo stile...

 

 

 
 
 

La Democrazia può essere suicidata?

Post n°78 pubblicato il 17 Settembre 2016 da claudionegro50
 

 

Che la democrazia non consista soltanto nel libero suffragio universale, ma anche (e a parità di valore) nei diritti civili (libertà d'espressione, di stampa, di associazione, pari opportunità, giustizia equa, certa e garantista, ecc.) è convinzione diffusamente accettata, almeno in Occidente. Cercare società in cui al requisito del suffragio universale non corrispondano le libertà non è un esercizio difficile: dall'Iran alla Russia, dal Pakistan alla Turchia, ecc. Paolo Mieli, in un suo bel fondo sul Corriere della Sera, aggiunge una considerazione: il suffragio universale è come il fonte battesimale; non esiste democrazia se non origina da libere elezioni. Il che è certamente vero, ma vista la realtà induce una domanda: il suffragio universale può anche generare mostri? La storia ci dice di sì: oltre agli esempi prima citati, non dimentichiamo che Hitler andò al potere vincendo le elezioni.

Ma queste sono questioni su cui si è sempre dibattuto, e portano spesso alla considerazione che in politica si tende a considerare informati e consapevoli gli elettori della propria parte, ignoranti e/o corrotti gli altri. Ricordo che quando Martelli fece il pieno di voti alle elezioni politiche a Palermo i professionisti dell'antimafia li classificarono senza indugio come “voti della mafia”. Quando poco dopo Orlando venne eletto sindaco più o meno con gli stessi voti , questi da voti mafiosi si trasformarono in voti “contro la mafia”.

Ma se il suffragio universale è l'unico e insostituibile generatore di democrazia, qualche riflessione è opportuno farla circa il modo, il percorso, le pressioni emozionali che nel contesto reale in cui vivono gli elettori condizionano l'esercizio di questo formidabile potere.

E' chiaro che il principio alla base del suffragio universale è la considerazione che ogni singolo elettore fa sintesi delle informazioni che riceve riguardo la situazione concreta in cui vive, i problemi, gli aspetti positivi, quanto ostacola i suoi interessi e quanto li favorisce, e alla fine fa le somme mettendo nel bilancio anche quanto lui percepisce come interesse generale, valutando quanto sia funzionale al suo proprio.

Questo presuppone, in una situazione ideale, un'informazione accettabilmente obiettiva e diffusa, una consapevolezza passabile della realtà. Che questo sia stato effettivamente nelle consultazioni elettorali del passato, ed in quale misura, non saprei. Però mi sembra che in questo momento il contesto vada in tutt'altra direzione. E non solo il Italia, ma in tutto l'Occidente.

Non voglio fermarmi sull'impresentabilità di candidati come Trump, ma sull'informazione e la comunicazione che li genera. Che sono fondamentalmente false, attingono a luoghi comuni legittimandoli (un maestro, Casaleggio, diceva che se una informazione diventa virale diventa vera…), fanno da megafono a idiozie e isterie che (come diceva Umberto Eco) un tempo erano proprie dell'idiota del villaggio, e come tali considerate, o delle chiacchiere del barbiere o del bar.

La disinformazione è stata protagonista nel referendum britannico sulla Brexit, con i tabloid che davano notizie inverosimili e il dibattito politico surreale, una gara a chi la sparava più grossa senza nessun riguardo per la realtà o almeno per la verosimiglianza. Le elezioni in Mecklenburgo-Pomerania sono state un referendum contro l'immigrazione, che in quel land non esiste. In Italia il linguaggio della politica è tra il grottesco e l'irresponsabile: al Governo si danno “avvisi di sfratto” (il che indica quale sia la visione che si ha delle istituzioni e del servizio allo Stato: arcaica e proprietaria); se al referendum vince il sì “tireremo fuori gli schioppi”; la riforma costituzionale è pensata per “instaurare un regime autoritario”; l'Italicum è finalizzato a produrre un Parlamento di nominati e non di eletti (ma a Bersani, Berlusconi, Calderoli, andavano bene quando c'era il Porcellum perché erano i loro nominati…).

Su qualunque questione manca totalmente la volontà di discutere nel merito: tutto è spiegato e se necessario inventato a vantaggio della propaganda.

Non che la credulità popolare, la diffusione ad arte di menzogne e le sue tragiche conseguenze siano una novità: basti pensare alla caccia alle streghe nel XVI e XVII secolo. Ma adesso, oltre al fatto che disinformazione, superstizione ( pensare al pregiudizio contro OGM, gas scisto, nucleare, e in genere a tutti gli interventi cui si oppone il nimby), credulità e ignoranza sono dilatate grazie ai media, c'è il fatto che tutto ciò incide direttamente sull'esercizio di quello che Mieli, come detto, considera il fonte battesimale della democrazia: il suffragio universale

Vi sono scelte che emergono dalle consultazioni popolari che vanno con ogni evidenza contro gli interessi reali dello stesso elettorato: vogliamo pensare a come migliorerà la vita del popolo americano quando, con Trump presidente, sarà isolato dal mondo da barriere doganali e politiche? E se i populisti dovessero vincere in Europa, ci immaginiamo lo spasso delle economie italiana, francese, tedesca, senza l'euro a fare i conti col mercato globale? O vogliamo farla finita con la globalizzazione? Forse sarà necessario spiegarlo a sudamericani e asiatici, che non han più tanta voglia di riconoscere privilegi all'Occidente.

Ma questi temi non sono visibili per la stragrande maggioranza di chi vota: son più gratificanti le sparate dei populisti. Non solo: prende piede un'ideologia dell'elogio dell'ignoranza e dell'insofferenza per la documentazione, la verifica dei fatti, il riconoscimento della complessità dei problemi (“il popolo britannico è stufo degli esperti” si è gridato durante la campagna sulla Brexit).

E allora mi faccio una domanda alla quale, peraltro, non so dare risposta: se il fonte battesimale della democrazia, il suffragio universale, è inquinato, la democrazia si prenderà qualche brutta malattia?

Temo di sì, ma non vedo alternative che non siano una sospensione o una limitazione della democrazia stessa: qualcuno spiegherà che in Cina e in generale nel Sud Est Asiatico c'è poca democrazia ma molta crescita economica… Ma in questo modo la democrazia cancella se stessa: chiudere il fonte battesimale inquinato vuol dire non fare più battesimi. Ma, fuor di metafora, disinquinare coscienze e mentalità e ben più difficile che disinquinare fonti!

I liberi cittadini elettori ammazzeranno la democrazia? E' un'ipotesi da non escludere. In fondo la democrazia come la conosciamo noi esiste da meno di duecento anni: credo che nel pianeta siano molti quelli che pensano che se ne può fare benissimo a meno...

 

 

 
 
 

Garantisce qualcosa Garanzia Giovani?

Post n°77 pubblicato il 12 Luglio 2016 da claudionegro50
 

 

Garanzia Giovani è stata (come anche il JobsAct e tutti i provvedimenti in materia di politiche del lavoro) beneficiaria di lodi e denigrazioni (servo encomio e codardo oltraggio..?). Ma essendo ormai all'ordine del giorno il suo rifinanziamento vale la pena verificare se è possibile darne una valutazione obiettiva; in altre parole: vale la pena provarci ancora o sono soldi buttati via?

L'analisi dei dati (ISFOL, giugno 2016) ci dice che hanno aderito a GG oltre 1 milione di giovani: poco meno del 50% del target che, non dimentichiamo, era costituito dai giovani sotto i 29 anni che non lavorano e non sono in formazione: è poco in un Paese dove le Politiche Attive del Lavoro non sono mai esistite? Forse no: è segno che nel Paese c'è aspettativa nei confronti di una novità come le Politiche Attive.

Di tutti i giovani che hanno aderito, 350.000 hanno ricevuto una proposta: circa il 30% dei candidati. E' poco? Una ricerca ARIFL ci dice che i risultati dei programmi di ricollocamento della Lombardia, e quelli comparabili di Gran Bretagna e Australia, danno esiti analoghi, intorno al 30%. Dunque stiamo parlando di un esito positivo? Calma: di questi 350.000 esiti positivi più della metà consistono in tirocini. Ma, domanda successiva, questi tirocini come finiscono? Bene, i dati di Piemonte, Lombardia e Veneto ci dicono che circa il 50% viene stabilizzato con un contratto di lavoro dipendente. Non è poco: il dato storico in Lombardia di stabilizzazione dei tirocini si aggirava prima di GG attorno al 12%

In realtà, però, stiamo parlando della media del pollo; ci son fortissime criticità che attengono all'attuazione della misura da parte delle Regioni: esiste un certo “strabismo” nella gestione del programma, che riguarda la misura dell’accompagnamento al lavoro e la successiva collocazione, ossia gli interventi che agli operatori vengono pagati “a risultato”. Solo alcune regioni hanno attivato questa misura (in totale 9) e di queste solamente 6 (Lombardia, Veneto, Liguria, Lazio, Puglia, Campania) hanno consentito che fosse aperta alle Agenzie per il Lavoro private. Il risultato è che Garanzia Giovani adotta il servizio di accompagnamento (con il rimborso a risultato avvenuto) solamente nel 30% del territorio nazionale. Guarda caso torna la percentuale di successo del 30% di cui si parlava prima.

Significativo il dato della Lombardia: il 60% dei richiedenti ha avuto una proposta di lavoro e tra questi un po' più della metà ha avuto contratti (a termine, a tempo indeterminato, apprendistato) e poco meno della metà ha avviato tirocini. La ragione sta nel fatto che GG in Lombardia si è inserita su un sistema già consolidato di Politiche Attive (Dote Unica) di cui ha sostanzialmente rappresentato la fascia “dedicata” ai giovani NEET.

Ora, è chiaro che nei meccanismi di GG ci sono cose che vanno cambiate: ne parleremo. Ma il fatto che a parità di meccanismi i risultati siano così differenti tra le diverse Regioni, e che in particolare il risultato della Lombardia sia così tanto sopra la media, indica che le ragioni del successo di GG stanno soprattutto nelle modalità attuative adottate dalle Regioni. Evidentemente avere puntato sull'accompagnamento al lavoro e la collocazione, col pagamento a risultato, e aver creato un mercato aperto ai soggetti pubblici e privati è stata una scelta vincente. Del resto è una caratteristica consolidata del sistema lombardo di Politiche Attive, che consente di ottimizzare gli skills sia dei soggetti privati che di quelli pubblici, messi sullo stesso piano con le stesse regole e le stesse risorse. Giova ricordare a questo proposito che nei primi dieci operatori per risultati di Dote Unica Lavoro due sono AFOL (Centri per l'Impiego, nella denominazione classica).

Se ne deve dedurre che il problema di una miglior efficienza di GG non sta tanto nei suoi meccanismi interni quanto nella sua attuazione con un sistema che non metta vincoli alla competizione tra soggetti pubblici e privati accreditati.

Per inciso, l'esperienza di GG rappresenta anche un riferimento per l'attuazione delle Politiche Attive previste dal Jobs Act, in particolare l'Assegno di Ricollocazione: sarebbe sbagliato non prendere atto come il modello lombardo, che esclude competenze ed obblighi esclusivi in capo ai soggetti pubblici, è quello che si è dimostrato più efficiente.


In conclusione, e per tornare alla domanda iniziale, il metro di valutazione di GG dovrebbe cogliere, ancor più che i risultati in assoluto avendo a riferimento un risultato ideale, “alla scandinava”, quali progressi siano stati fatti rispetto al punto di partenza, cioè in Italia uguale a zero. . Il primo passo è stato fatto. Il bicchiere è oggettivamente mezzo vuoto, ma prima era vuoto del tutto. E il riformismo è paziente e intelligente: richiede di ripartire dai successi e di trarre lezioni dagli errori.

 

 
 
 

A pensà maa sa fa pecaa, però sa sbaja minga

Post n°76 pubblicato il 03 Luglio 2016 da claudionegro50
 

 

La sinistra PD è all'attacco: forte del ricordo del 25% dei voti conquistati nel 2013, addita l'arretramento elettorale del Partito. Ma non si limita a recriminare: indica anche, con la ponderazione che le deriva dall'eredità di Gramsci-Togliatti-Longo Berlinguer, le cause e i rimedi. Che Speranza sintetizza nell'esigenza di una “svolta sociale”: lavoro, scuola, welfare, sanità e tassa sulla casa; “riscopriamo l'umiltà dell'ascolto” e “basta dare calci ai sindacati”. Bersani di suo ci mette un monito che nel Partito di Togliatti gli sarebbe costato caro: “alle periferie non interessa il referendum: neanche sanno cosa sia”. La partita si fa seria, evidentemente; e si fa concorrenza a Grillo e a Salvini sul loro stesso terreno, con i loro stessi argomenti…

Ma è sulla reclamata svolta sociale che mi pare si debba riflettere: tutto è opinabile nel merito, ed è lecito dire che si poteva fare di più (lecito anche a chi per anni ha fatto molto meno: sono i danni collaterali della democrazia!) ma il tema dell'inclusione e del lavoro è stato, assieme a quello della riforma istituzionale, l'asse portante dell'attività del Governo. Gli 80 € vengono derubricati a “mancia”, ma in realtà è la prima vera riduzione della pressione fiscale sul lavoro dipendente (Prodi fece una misura molto più modesta, e si gridò al miracolo…). Per la prima volta nel Paese si affrontano le crisi occupazionali con politiche di ricollocazione, e non con la Cassa Integrazione vita. Il contratto a tempo indeterminato è tornato ad essere la forma normale di assunzione, e l'occupazione è tornata a crescere (il che sembra provocare molta irritazione…).

Gli interventi di welfare contrattati a livello aziendale o territoriale sono del tutto detassati. La vituperata riforma della scuola ha portato alla stabilizzazione di decine di migliaia di precari ma, oibò, è mancata “l'umiltà dell'ascolto”. La tassa sulla casa è stata eliminata; io ho qualche dubbio, ma non mi pare che Speranza e i suoi abbiano mai detto che l'IMU è giusta perché è una patrimoniale: o meglio, hanno ribadito che la devono pagare i proprietari di castelli…

Il Governo ha puntato a spendere per favorire la crescita, quindi l'occupazione, il PIL. Gli interventi a favore delle imprese, già fatti o programmati (IRAP, IRES, superammortamento) hanno il volume di oltre 8mld.

Del resto il Governo ha in corso un confronto con la UE perché chiede di poter aumentare la spesa pubblica: una misura Keynesiana che a sinistra dovrebbe piacere.

Non riesco a vedere nelle decisioni del Governo nulla che abbia privilegiato “poteri forti” a danno di periferie e disagiati: o vogliamo sostenere che le banche vanno lasciate fallire col loro carico di depositi della gente comune e di dipendenti? Oppure che il Jobs Act ha condannato i lavoratori al precariato? Dà fastidio la consonanza con Marchionne? Eppure si erano lodati i “capitani coraggiosi”… Turba la riforma della Costituzione? Eppure la Bassanini era rappresentata come una conquista…

Mi pare che dietro le minacciose esortazioni all'ascolto (di Speranza e dei sindacati, pare di capire) non ci sia una proposta alternativa concreta circa i contenuti della “svolta sociale”, ma unicamente la rivendicazione (legittima, per carità) di contare qualcosa.

La cosa peggiore, a mio avviso, è che il vuoto pneumatico di idee circa appunto i contenuti della svolta sociale viene colmato implicitamente rimandando alle rivendicazioni dei sindacati, ai quali peraltro da tempo la “ditta” ha delegato giurisdizione sulle scelte in materia di politiche economiche. E le rivendicazioni sindacali, per quanto del tutto lecite, non riguardano assolutamente le periferie e i disagiati: si preoccupano di chi ha il lavoro ma vorrebbe andare in pensione, di chi ha un contratto stabile e vuole rinnovarlo, di chi vuole evitare che nel pubblico impiego vengano introdotti criteri meritocratici; e naturalmente di chi è già in pensione.
Farebbe chiarezza un confronto su una proposta concreta, credibile, di “svolta sociale”; ma ho idea che interessino di più il pensionamento anticipato e la modifica della legge elettorale. Vedremo se mi sbaglio…

A pensà maa sa fa pecaa, però sa sbaja minga

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 

Dell'America, del libero scambio e della CGIL

Post n°75 pubblicato il 09 Maggio 2016 da claudionegro50
 

 

Una fragranza di anni '50. Come non collegare l'inaspettata mobilitazione della CGIL contro il trattato di liberalizzazione commerciale transatlantico alle memorabili campagne contro il Piano Marshall, contro il MEC e poi contro la CEE. Che nostalgia per l'opposizione frontale al mercato, al liberalismo. Volava allora la colomba di Picasso..! Libero Scambio era espressione equivoca, che evocava sordidi intrallazzi sottobanco tra avidi capitalisti, mentre il cuore della sinistra ha palpitato, ancora fino agli anni '70, per i prezzi amministrati e il calmiere; ciò per la verità con la compagnia di una sterminata varietà di corporazioni ostili alla concorrenza, quali per ragioni ideali quali pragmaticamente per difendere posizioni di rendita.

Francamente mi ha sorpreso trovare la CGIL in compagnia di soggetti quali Sinistra contro l'euro, Il Bolscevico, Coordinamento Nazionale NoTriv, Comitato Sì Blocca Inceneritori, Associazione per la Decrescita, Cobas, e veder delegata a Greenpeace, Attac, Fairwatch l'elaborazione "teorica" della mobilitazione contro il TTIP. Le ragioni della rappresentanza dei lavoratori risucchiate dall'allegro brulicare di fans della decrescita felice e del Km.0..!

Ma quel che mi pare maggiormente degno di nota è l'aforisma con il quale il Presidente di Greenpeace Italia ha efficacemente e lealmente fotografato il nocciolo ideale del movimento: "in America è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato, in Europa è vietato tutto ciò che non è espressamente permesso. E noi non vogliamo ridurci come l'America!" (GR1 ore 13, sabato 7 maggio).

Il che manifesta le ragioni culturali profonde, prima ancora che economiche, della avversione per le libertà di mercato: perché si aprono spazi in un sistema che offre sicurezza e protezione in quanto è chiuso, vincolato, capillarmente regolamentato, nel quale per fare qualunque cosa devi chiedere prima il permesso. Sicurezza che si paga con lo strapotere della burocrazia e le rendite di posizione delle corporazioni che si sono fatte il nido al riparo del ginepraio di vincoli e divieti.

Ma è uno stato psicologico di fobia per il nuovo, e che per verità dilaga in tutta Europa, e che si esprime nel NO a tutto: no OGM, no TAV, no Triv, no Autostrada, no Rigassificatori, no Inceneritori, no Riforme in genere.

Pensare che nel secolo scorso la Sinistra era quella che promuoveva il cambiamento, s'identificava con l'innovazione, lottava contro quelli che, appunto, si chiamavano Conservatori.

Forse bisognerebbe partire da qui per ragionare su una nuova ragion d'essere per la Sinistra, o se ha ancora una ragion d'essere questa Sinistra

 

 
 
 

VA IN PENSIONE IL SINDACATO?

Post n°74 pubblicato il 14 Aprile 2016 da claudionegro50
 

 

"CAMBIARE LE PENSIONI – DARE LAVORO AI GIOVANI".

Uno slogan fasullo quello dei Sindacati, dove la seconda frase serve a giustificare, ma in realtà a dissimulare, l'obiettivo vero, quello enunciato nella prima.

Affermare che i giovani non trovano lavoro perché gli anziani non vanno in pensione è pura propaganda: argomento utile solo da usare in efficace alternanza con le geremiadi sugli ultracinquantenni che perdono il lavoro. Tuttavia non v'è contraddizione: ciò che si vuole non è che gli ultracinquantenni possano continuare a lavorare, ma che possano andare in pensione. Il fatto che “lascino” il posto a un giovane ne costituisce la copertura ideologica, tanto decorosa ai fini della propaganda quanto priva di qualunque riscontro reale.

Non esiste, da quando il taylorismo non è più il modello industriale, il turn over automatico, o comunque necessario, degli organici: la produzione industriale non avviene più tramite la catena di montaggio e la rigida ripartizioni delle mansioni tra i lavoratori, ma con modalità che enfatizzano la flessibilità, l'interazione, la partecipazione e la responsabilizzazione. Non a caso si va diffondendo lo smart working. Semplicemente, non esiste più la necessità di riempire la casella lasciata vuota da chi se ne è andato: non esiste più la casella!

Le competenze che l'impresa non può non rimpiazzare non sono molte, e non le rimpiazzano con giovani alla prima occupazione.

D'altra parte è ben noto che tutte le operazioni intese a incentivare assunzioni contro pensionamento sono fallite: dal tentativo mitterrandiano alla più recente (e banale) staffetta intergenerazionale. Viceversa, occorrerebbe riflettere sul fatto che la Germania ha simultaneamente un alto tasso di occupazione “anziana” e pochissima disoccupazione giovanile.

Ma, tornando al modello propugnato dai sindacati, l'unico effetto certo è che anticipare una pensione, anche con una penalizzazione, non comporta nel breve un risparmio ma un aumento di spesa, che determina un nuovo disavanzo. In ogni caso, più imposte per gli attivi e le giovani generazioni. Il sistema a ripartizione non ammette eccezioni...

Ciò detto, è legittimo (ma non sacro…) che il Sindacato consideri prioritario che i propri iscritti possano anticipare la pensione; però in questa impostazione le ricadute finanziarie sui bilanci INPS sono considerate variabili dipendenti da affrontare successivamente con strumenti da individuare, ma che non occorre molta fantasia per identificare in oneri a carico del debito pubblico. In sostanza ciò che si richiede è subordinare l'equilibrio della spesa pensionistica all'obiettivo politico che aggrega gli iscritti al Sindacato. E dunque abbassare le soglie per l'uscita dal lavoro diventa la priorità assoluta.

Non una parola invece viene spesa per dire come affrontare l'emergenza immediatamente successiva: quella dei lavoratori più giovani o di coloro che entreranno al lavoro in futuro, la cui pensione verrà calcolata per intero col contributivo, e che pertanto sconteranno, oltre a un tasso di sostituzione inferiore a quello di chi ha almeno in parte il retributivo, percorsi professionali discontinui che generano periodi di mancata copertura contributiva; e avranno molto meno perfino per quanto concerne la copertura figurativa garantita dagli ammortizzatori sociali.

Ma su questo tema il Sindacato non fa una proposta, non minaccia mobilitazioni, si accontenta di corrucciate denunce ma evita di avanzare una qualsivoglia proposta di merito, che non sia una rivendicazione general generica, la risposta alla quale è rimandata ad un oscuro futuro e non si sa a quale interlocutore.

E però, se si vuole avere una qualche rappresentanza anche in futuro, occorrerà prendere atto che questa è la vera emergenza e la priorità per Organizzazioni che si pensano come rappresentanze universali del lavoro, e operare di conseguenza. In alternativa c'è l'estinzione insieme alle classi di età del mondo del lavoro che si sceglie di privilegiare.

 

 

 
 
 

Sinistra sinistrese e diritti civili: opportunismo e benaltrismo

Post n°73 pubblicato il 29 Febbraio 2016 da claudionegro50
 

Una bella cartina al tornasole la vicenda delle Unioni Civili: ha fatto emergere quanto all'opposizione di destra, alla sinistra sinistrese, ai 5 stelle interessino i diritti civili; cioè nulla se non quel che può trasformarsi in munizioni contro Renzi.

La destra in fondo in queste faccende ha una certa coerenza: è la voce profonda della Vandea contro la modernizzazione e il laicismo. Il fatto che i suoi leaders, da Berlusconi a Salvini a Casini, abbiano vite private molto più disinvolte dei principi che predicano dimostra appunto come tali principi abbiano l'unica funzione di munizioni nello scontro politico. E forse è meglio così, a fronte dei talebani sinceri che ci credono veramente e vorrebbero imporre una sharia cattolica al Paese.

Così come in fondo è coerente la posizione radicale di chi, da sempre, rivendica il tutto e subito. E' una posizione presente nella storia delle democrazie occidentali, che si appaga dell'enunciazione dei principi e si compiace del non accettare compromessi. Una vocazione più estetica che politica, per la quale se non c'è tutto (stepchild adoption) non c'è nulla (Unioni Civili).

Ma è dal mondo di chi è sempre stato, e per radici culturali non potrebbe essere altrimenti, a favore delle libertà civili che è venuto il massimo di strumentalizzazione politica: i 5 stelle hanno prodotto tatticismi e trappole, il cui unico evidente obiettivo era colpire Renzi affossando il DdL.

La cosiddetta sinistra PD ha perseguito in fondo lo stesso scopo: spingere sull'intransigenza per il DdL Cirinnà per far mancare il voto di NCD e magari, perché no?, per far mancare qualche altro voto e poi alzare il polverone sul Governo battuto al voto dell'Assemblea. Del resto i Gotor e compagnia che oggi accusano disagi antropologici perché Verdini ha votato per le Unioni Civili, se ne strafregano che finalmente il Paese abbia una Legge per le Unioni Civili, che loro quando governavano non sono mai stati capaci di fare!

D'altra parte cosa volete che siano le Unioni Civili? L'inossidabile teoria del benaltrismo ci dice che, ogni volta, ben altri sono i problemi del Paese. In questo caso impedire che Verdini voti per una proposta sostenuta dal Governo: tanto le Unioni Civili e tutto il resto verranno con l'immancabile palingenesi che già Speranza, D'Alema, Cuperlo e Gotor indicano all'orizzonte dell'immancabile rivincita della sinistra antropologica.

 

 

 
 
 
 
 

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