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Pensieri danzati: coquesta, melancolica y fatal di Gianna TAVERNA

Post n°10 pubblicato il 09 Settembre 2013 da cutupedizioni

Che vi devo dire.
Che non entrava in una discoteca da almeno 40 anni.
Quaranta, sono tanti.
Non sto neanche a raccontare quanto le piacesse ballare da ragazza.
Arrivava, si levava il cappotto (non era mai d'estate), e cominciava.
Una decina di minuti per ingranare e non si fermava più fino a sera.
Poi riprendeva il suo treno e tornava a casa.
Senza fermarsi mai.
Ballava bene.
Mica una ballerina, no, ma aveva ritmo, elasticità, empatia con la
musica.
E ballando si sentiva forte, potente.
Piccola era, bella proprio no, ma capace di seduzione.
Seduzione e subitanea sconfitta.
Ragazzi che ballassero bene ce n'erano pochi, gli uomini non sono un
gran che di solito, ma quei tre o quattro c'erano.
Quella di quell'ultimo pomeriggio, di una settimana fa, è stata una
giornata revival, di quelle che mettono insieme vecchie glorie e nuove
discopatie.
Avevano affittato un locale grande, un Circolo che di solito serviva per
altre riunioni e che era gestito da uno degli organizzatori.
Lei c'era andata per una sola ragione, una sola.
Seduta su di un improbabile divanetto di rattan, guardava l'entrata come
quarant'anni fa.
Non c'era ancora, lui, eppure aveva detto che sarebbe venuto.
Mah.
Eccolo.
E i finissimi capelli, ondulati, di una volta?
Biliardo?
Pazienza.
Forse: fa sport, magari il cranio libero migliora le prestazioni.
Ma è ancora magro e nervoso, scattante, si direbbe.
Una molla.
Viene dritto da lei.
Ha visto le sue ultime foto, non è un problema riconoscersi.
Si salutano, un abbraccio, i baci di saluto.
Lei: E' imbarazzante!
Lui: Ehhh, perché?
Lei: Così...
Troppo maschile questo per ammettere imbarazzo, in fin dei conti mica
è mai stato un genio, no.
Come sia rivedere una persona dopo otto lustri, non è difficile da
spiegare.
Quasi sessant'anni e quasi vent'anni, non cambia molto.
Il colpo allo stomaco? Uguale.
Il capogiro? Uguale.
E come un rumore di vetri rotti intorno, bicchieri che cascano, una
pallonata contro il vetro della finestra.
E' il tempo che crolla via, si rompe un guscio di pensieri, di cose vissute,
pezzetti di cose morte che cascano giù.
Ma non sono cose da dire.
Lei non è qui per questo.
Ci sono lavori da fare, prima di morire.
Oggi tocca a questo, di lavoro.
Ormai c'è un bel po' di gente, saluti e bacetti che volano, occhiate
sbilenche, la conta dei chili, dei capelli caduti, delle labbra rifatte...
Cose normali.
C'è la musica.
L'imbarazzo continua per un po', ma poi si alzano e vanno.
Vanno, qualcuno li guarda e ridacchia.
A suo tempo questa storia era risaputa: breve, triste e risaputa.
Allora lui era uno dei tre o quattro buoni ballerini.
Magari lo è ancora.
Vanno.
Stringe alla vita come allora, e non è un gesto erotico, è un gesto di
comando.
Ma sì, anzi, bene così.
Non è difficile ingranare, le musiche sono vecchie, questa non è una
gran cosa: ma almeno non c'è niente da inventare.
Ballando la tensione si scioglie, anche se lui non è tipo da abbassare la
guardia.
Lei, si sta riprendendo.
E' ancora un filino rigida, ma passerà.
Musica che permette di avvicinarsi, staccarsi, stringersi.
Un bel ballare movimentato, variato, come a lei piaceva.
Lui è agitato.
Tira e molla, non è uno da tempi morti, deve sapere cosa vuole e
quando.
Lei invece sa aspettare e cambiare direzione, se il vento cambia.
Ma il vento cambia.
C'è una musica, stavolta finalmente contemporanea, e si muove
qualcosa.
Non è lenta, non è rock.
Una cosa neanche poi bellissima, ma tra l'hip hop e non so che altro,
che permette di dosare la fantasia.
Ecco che cos'è, Don Omar, Tiraera a Daddy Yankee.
Ce n'è da vendere.
Allontanarsi.
Avvicinarsi.
Camminarsi intorno.
Abbassarsi.
Rialzarsi.
Tenersi per le mani e allungare le braccia allontanandosi.
Riavvicinarsi lentamente.
Incrociarsi lateralmente.
Camminando a destra.
Camminando a sinistra.
Indietro.
Avanti.
In cerchio l'uno attorno all'altro.
In cerchio l'uno inseguendo l'altro e invertendo poi la direzione.
Senza più accorgersi che i capelli non ci sono e il biliardo brilla al buio.
Che stronza.
Senza più accorgersi che la schiena fa male e se si serrano così le
mascelle bisogna tirar fuori il collare che è nello zainetto e mettersi il
bite.
Che sfigata.
Ma la musica cambia di nuovo.
E lei si avvicina, lo guarda, gli si mette perpendicolare e gli gira intorno,
pianissimo.
Lui anche gira, fa da asse.
E' bravo lui, ci sa fare.
Ci sa ancora fare.
Pianissimo, ci mette una vita a girargli intorno.
Poi si ferma e si riuniscono un attimo.
Poi ritorna quella strofa di prima, e questa volta lei si gira di spalle e gli si
appiccica contro, di spalle, contro il suo petto.
Poi gli ruota di nuovo intorno, girando su se stessa piano, senza perdere
il contatto con il suo corpo.
Poi la strofa riprende.
Allora lei gli si ferma davanti, piega di un filino le ginocchia e gli stampa
le mani sui fianchi.
Lo prende ai fianchi, sempre stando distante, e balla: le sue mani sono
aperte, concave, per contenere, guidare, manovrare, comandare.
Lui ha gli occhi che sono spilli, è terribilmente furbo.
Lei lo guarda con uno sguardo che vorrei poterlo scrivere, ma uno
sguardo non si scrive.
Acuta, maliziosa, provocatoria.
Ma non c'è amarezza nè altro di cattivo.
Ormai, non serve.
Anche lui la prende ai fianchi.
Presa forte e profonda.
Si avvicinano perché ormai non è cosa.
E poi qualcuno guarda.
E ti pareva.
E chi se ne frega.
Stringe forte dietro le spalle.
Stupido che le mie ernie ti bucano...
Fatica.
Troppa fatica la seduzione da vecchi.
Fatica ma si fa volentieri.
Per non morire ancora.
Perché oggi c'è un lavoro da finire, e il lavoro al primo posto.
Ormai c'è una tensione che non si sopporta.
Lei pensa "o scappa, o si scappa".
Ma scappare è già scappato da giovane.
Ora non lo è più, è anche un po' stanco di certa vita che gli è toccata.
Scappare si scappa quando le gambe reggono la distanza, ora no.
Non riescono più a sentire la musica, strascicano i passi, sono appesi.
Ma non c'è niente da dire né ci sono baci da dare.
Uno strattone, la tira per la mano.
Qualcuno li segue con lo sguardo.
Niente da dire.
Escono dalla sala senza fiatare, imboccano un corridoio con le pareti
rivestite di legno, spingono una porta che cigola e non si riesce a
chiudere.
Entrano in un'altra stanza, una specie di magazzino.
La porta ha il paletto, lo chiudono.
Senza un fiato.
Con l'affanno.
C'è un tavolo.
Lei ci si siede sopra.
Ci si toglie quello che c'è da togliersi.
In fretta che il tempo ci mangia vivi.
E si fa quello che c'è da fare.
Come avrebbero fatto, quelli, a vent'anni.
Senza tempo in mezzo.
Sostanza.
Forze, acciaio e moto: qualcosa del mondo della fisica più che di quello
dei sentimenti.
E si fa.
Attrito.
Calore.
Affanno.
I suoni che non hanno parola.
E' fisica, non metafisica.
E si fa.
E si scoppia, con grande reciproco godimento.
Con fragore.
Ognuno col suo fragore.
Senza storie e senza storia.
La storia finisce dove doveva cominciare.
E' questo che ci siamo persi.
E' questo che abbiamo trovato.
Tutto continuerà come prima, niente sarà come prima.
Perché oggi c'era un lavoro da fare, ed è stato fatto.
E siamo contenti così.
Alla faccia di chi voleva una storia in più.
C'è un lavoro in meno da fare, è stato fatto.

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