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gli Indiani oggiA cura di Gloria Mattioni La terra appare ancora più desolata, arsa dal sole d’agosto. Chilometri e chilometri che gli indiani Sioux-Lakota (originari del Wisconsin ma approdati nelle grandi pianure del Sud Dakota nel Diciottesimo secolo) chiamano, non a caso, Badlands. Non vi cresce quasi nulla. Il suolo non è abbastanza ricco. Neppure per coltivare l’orzo o l’alfalfa per nutrire i bisonti con il cui destino si identificano. “Verso la fine delle guerre con i bianchi”, raccontò Sidney Keith, leader spirituale Oglala Lakota-Minneconjou, durante una cerimonia di danza del sole nella riserva Cheyenne River di qualche anno fa, “il nostro popolo era ridotto in catene: prigioniero di riserve inospitali, dipendente dal governo degli Stati Uniti come un bambino inesperto e incapace di provvedere a se stesso, prostrato nell’orgoglio e con legami familiari spezzati. Indiani Sioux e bianchi Kiza Park si trova nei pressi del torrente Wounded Knee, non lontano dal luogo dell’ultimo massacro di un villaggio indiano per mano dell’esercito (1890) e dell’occupazione dell’American Indian Movement per denunciare il mancato rispetto dei trattati da parte del governo federale. Nel 1973, infatti, l’occupazione di Wounded Knee da parte dell’Aim durò 71 giorni, attirò l’attenzione internazionale e fece sperare in un riscatto di quella che oggi viene considerata una minoranza, pur vivendo sul suo territorio ancestrale (destino spesso condiviso da altri popoli aborigeni). Kiza Park fa parte del lotto di terra della fattoria di Alex White Plume, un ingegnoso membro della tribù che nel 2000 tentò una nuova impresa coltivando canapa indiana che potesse essere trasformata in carta, tessuti d’abbigliamento o persino sostituire la plastica riciclata per certe produzioni industriali: un raccolto che persino le “terre cattive” potevano incoraggiare, offrendo fonti alternative di sostentamento tanto ai bisonti che agli indiani. Tre mesi dopo la semina, al tempo del primo raccolto, le speranze di Plume di dare lavoro a molti altri e di portare a termine ordini per centosessantamila dollari, vennero strappate insieme alle piantine di canapa da poliziotti sbarcati da elicotteri M15S che impugnavano un ordine di distruzione e sequestro degli ufficiali della Dea (Drug Enforcement Agency). Bisonti al pascolo “La polizia intervenne in base al Controlled Substance Act del 1970 che dichiara illegale la coltivazione della canapa indiana per uso industriale sul suolo americano ma non impedisce di importarla dalla Cina o dal Canada, né di distribuirla”, spiega Courtney Hermann, che insieme a Suree Towfighnia, come lui studente della scuola di cinema della Columbia University, ha girato sulla vicenda il documentario Standing Silent Nation, mandato in onda per la prima volta negli Stati Uniti lo scorso 3 luglio, ironicamente, alla vigilia della Festa dell’Indipendenza americana. “Hanno agito come se gli Oglala stessero coltivando marijuana da fumare”, le fa eco Towfighnia. “Ma la percentuale di THC allucinogeno nella canapa industriale è talmente bassa che non riusciresti a sballare neppure se ti fumassi l’intera camicia che indossi. La vera ragione è l’ipocrisia del governo americano che da un lato si lamenta di dover mantenere un “branco di fannulloni alcolizzati” passandogli razioni di cibo e assegni governativi ma dall’altro tenta di stroncare qualsiasi tentativo di emancipazione economica”. Una storia che si ripete, a quanto sembra, ogni volta che le nuove generazioni di laureati nell’Oglala Lakota College della riserva o anche in quelli più prestigiosi degli Stati Uniti riescono a varare qualche iniziativa che potrebbe spianare la strada verso l’autonomia. È successo così anche negli anni Novanta, quando sorsero casinò autogestiti dalle tribù in varie riserve indiane. Davano lavoro a molti membri tribali, incrementavano il turismo e offrivano una ragione di orgoglio. Ma gli Stati Uniti cominciarono a mettere i bastoni tra le ruote reclamando parte dei profitti e revocando le licenze per la vendita dei liquori. E soltanto pochi casinò sopravvissero alle battaglie legali. Quella che riguarda la coltivazione della canapa nella riserva di Pine Ridge va avanti da sette anni. Alex White Plume al suo rientro a Pine Ridge Nel 2002, Towfighnia riuscì a piazzare un microfono nascosto sotto la bandana di Alex White Plume proprio quando la polizia intervenne per il terzo anno di seguito per distruggere il raccolto che lui pazientemente ripiantava, forte dei diritti di autodeterminazione che gli indiani dovrebbero avere almeno dentro ai confini delle loro riserve. “Senza ironia”, dice Ramona White Plume, sorella di Alex, “non saremmo sopravvissuti”. E non allude soltanto alle vicende della sua famiglia o degli Oglala Lakota ma alla storia di tutti i nativi americani. Ha ragione. La capacità di ridere e scherzare nonostante le difficoltà e gli ostacoli, è uno degli insegnamenti più belli che si possono ricevere frequentando Pine Ridge. Dove è quasi impossibile trovare verdure e frutta fresca mentre sulle tavole abbondano lattine di Coca- Cola, carne in scatola di pessima qualità e ogni sorta di patatine o snack che aumentano l’incidenza di diabete e infarti a livelli impressionanti. Dove gli anziani dalle lunghe trecce raccontano la genesi del popolo “venuto dalle stelle e fuoriuscito sulla terra dalla Caverna del Vento” nelle vicine Colline Nere e dove i più giovani sfoggiano tatuaggi e teste rasate come i membri delle gang di Los Angeles o New York. “Ai tempi di mio padre c’erano solo il whisky e il vino da due soldi”, ha raccontato Leonard Peltier, un Oglala Lakota membro dell’American Indian Movement che dal 1975 è confinato in un carcere di massima sicurezza per un omicidio che sostiene di non avere mai commesso. Un ritratto giovanile di Leonard Peltier “Adesso le strade rurali della nostra riserva fanno invidia agli incroci metropolitani di South Central Los Angeles. Vi smerciano di tutto: eroina, amfetamina, cocaina, crystal-meth. I nostri bambini non vengono più strappati dalle famiglie e spediti in collegi lontani dove I bianchi cercavano di fargli dimenticare le loro origini, lingua e tradizioni come ai tempi delle boarding schools. Non è più necessario: ci pensa la televisione”. Peltier ha ragione. In molte case della riserva, per quanto poverissime, all’ingresso dove un tempo troneggiava l’altare dei Lakota, un teschio di bisonte spesso in compagnia della pipa il cui fumo “manda in cielo le preghiere”, oggi c’è una televisione. Un modello antiquato, spesso di seconda mano, cui i ragazzi stanno incollati pomeriggio e sera, soprattutto durante i rigidi inverni, sognando futuri impossibili. |
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