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gli Indiani oggi

Post n°433 pubblicato il 06 Agosto 2008 da dammiltuoaiuto
 
Tag: indiani, usa

I Sioux, oggi

A cura di Gloria Mattioni

La terra appare ancora più desolata, arsa dal sole d’agosto. Chilometri e chilometri che gli indiani Sioux-Lakota (originari del Wisconsin ma approdati nelle grandi pianure del Sud Dakota nel Diciottesimo secolo) chiamano, non a caso, Badlands. Non vi cresce quasi nulla. Il suolo non è abbastanza ricco. Neppure per coltivare l’orzo o l’alfalfa per nutrire i bisonti con il cui destino si identificano. “Verso la fine delle guerre con i bianchi”, raccontò Sidney Keith, leader spirituale Oglala Lakota-Minneconjou, durante una cerimonia di danza del sole nella riserva Cheyenne River di qualche anno fa, “il nostro popolo era ridotto in catene: prigioniero di riserve inospitali, dipendente dal governo degli Stati Uniti come un bambino inesperto e incapace di provvedere a se stesso, prostrato nell’orgoglio e con legami familiari spezzati.
I bisonti che a inizio ‘800 erano 40 milioni e che erano la nostra principale fonte di sostentamento erano ridotti a poco più di un migliaio dopo il 1877. E in via d’estinzione. Ma la profezia della “Donna Bisonte Bianco” (bellissima, secondo la leggenda portò in dono ai Lakota i riti religiosi) ha cominciato ad avverarsi. Se manteniamo vive le nostre cerimonie, se preghiamo Wakan Tanka (lo Spirito dell’Universo) con la pipa della pace che ci ha portato, se ci dimostriamo forti e capaci di resistere alle tentazioni dell’alcol e delle droghe, i bisonti torneranno. E il nostro popolo potrà vivere”. Attraversando la riserva di Pine Ridge (dove tra i circa 45mila Oglala-Lakota il tasso di disoccupazione è all’85 per cento) sulla rotta della sesta celebrazione annuale dei Lakota Hemp Days, lo scenario è il solito: desolazione e spiritualità, estrema povertà, stato di abbandono ma anche senso di riscatto che traspare da certi timidi segnali. Un paio di case prefabbricate con tetto di lamiera sfondato dalla grandine di chissà quanti inverni fa, lavatrici arrugginite e automobili con il motore fuso abbandonate sul prato dove scorrazza un gruppo di bambini già obesi e di cani denutriti. Ma anche un teepee come quelli in cui vivevano gli antenati cacciatori e guerrieri da cui sventola la bandiera tribale con le due pipe incrociate sulla “ruota di medicina” (una rosa dei venti, che assegna a ogni direzione cardinale il “luogo” metafisico per certi eventi e anche poteri di “guarigione”).


Indiani Sioux e bianchi

Kiza Park si trova nei pressi del torrente Wounded Knee, non lontano dal luogo dell’ultimo massacro di un villaggio indiano per mano dell’esercito (1890) e dell’occupazione dell’American Indian Movement per denunciare il mancato rispetto dei trattati da parte del governo federale. Nel 1973, infatti, l’occupazione di Wounded Knee da parte dell’Aim durò 71 giorni, attirò l’attenzione internazionale e fece sperare in un riscatto di quella che oggi viene considerata una minoranza, pur vivendo sul suo territorio ancestrale (destino spesso condiviso da altri popoli aborigeni). Kiza Park fa parte del lotto di terra della fattoria di Alex White Plume, un ingegnoso membro della tribù che nel 2000 tentò una nuova impresa coltivando canapa indiana che potesse essere trasformata in carta, tessuti d’abbigliamento o persino sostituire la plastica riciclata per certe produzioni industriali: un raccolto che persino le “terre cattive” potevano incoraggiare, offrendo fonti alternative di sostentamento tanto ai bisonti che agli indiani. Tre mesi dopo la semina, al tempo del primo raccolto, le speranze di Plume di dare lavoro a molti altri e di portare a termine ordini per centosessantamila dollari, vennero strappate insieme alle piantine di canapa da poliziotti sbarcati da elicotteri M15S che impugnavano un ordine di distruzione e sequestro degli ufficiali della Dea (Drug Enforcement Agency).


Bisonti al pascolo

“La polizia intervenne in base al Controlled Substance Act del 1970 che dichiara illegale la coltivazione della canapa indiana per uso industriale sul suolo americano ma non impedisce di importarla dalla Cina o dal Canada, né di distribuirla”, spiega Courtney Hermann, che insieme a Suree Towfighnia, come lui studente della scuola di cinema della Columbia University, ha girato sulla vicenda il documentario Standing Silent Nation, mandato in onda per la prima volta negli Stati Uniti lo scorso 3 luglio, ironicamente, alla vigilia della Festa dell’Indipendenza americana. “Hanno agito come se gli Oglala stessero coltivando marijuana da fumare”, le fa eco Towfighnia. “Ma la percentuale di THC allucinogeno nella canapa industriale è talmente bassa che non riusciresti a sballare neppure se ti fumassi l’intera camicia che indossi. La vera ragione è l’ipocrisia del governo americano che da un lato si lamenta di dover mantenere un “branco di fannulloni alcolizzati” passandogli razioni di cibo e assegni governativi ma dall’altro tenta di stroncare qualsiasi tentativo di emancipazione economica”. Una storia che si ripete, a quanto sembra, ogni volta che le nuove generazioni di laureati nell’Oglala Lakota College della riserva o anche in quelli più prestigiosi degli Stati Uniti riescono a varare qualche iniziativa che potrebbe spianare la strada verso l’autonomia. È successo così anche negli anni Novanta, quando sorsero casinò autogestiti dalle tribù in varie riserve indiane. Davano lavoro a molti membri tribali, incrementavano il turismo e offrivano una ragione di orgoglio. Ma gli Stati Uniti cominciarono a mettere i bastoni tra le ruote reclamando parte dei profitti e revocando le licenze per la vendita dei liquori. E soltanto pochi casinò sopravvissero alle battaglie legali. Quella che riguarda la coltivazione della canapa nella riserva di Pine Ridge va avanti da sette anni.


Alex White Plume al suo rientro a Pine Ridge

Nel 2002, Towfighnia riuscì a piazzare un microfono nascosto sotto la bandana di Alex White Plume proprio quando la polizia intervenne per il terzo anno di seguito per distruggere il raccolto che lui pazientemente ripiantava, forte dei diritti di autodeterminazione che gli indiani dovrebbero avere almeno dentro ai confini delle loro riserve. “Senza ironia”, dice Ramona White Plume, sorella di Alex, “non saremmo sopravvissuti”. E non allude soltanto alle vicende della sua famiglia o degli Oglala Lakota ma alla storia di tutti i nativi americani. Ha ragione. La capacità di ridere e scherzare nonostante le difficoltà e gli ostacoli, è uno degli insegnamenti più belli che si possono ricevere frequentando Pine Ridge. Dove è quasi impossibile trovare verdure e frutta fresca mentre sulle tavole abbondano lattine di Coca- Cola, carne in scatola di pessima qualità e ogni sorta di patatine o snack che aumentano l’incidenza di diabete e infarti a livelli impressionanti. Dove gli anziani dalle lunghe trecce raccontano la genesi del popolo “venuto dalle stelle e fuoriuscito sulla terra dalla Caverna del Vento” nelle vicine Colline Nere e dove i più giovani sfoggiano tatuaggi e teste rasate come i membri delle gang di Los Angeles o New York. “Ai tempi di mio padre c’erano solo il whisky e il vino da due soldi”, ha raccontato Leonard Peltier, un Oglala Lakota membro dell’American Indian Movement che dal 1975 è confinato in un carcere di massima sicurezza per un omicidio che sostiene di non avere mai commesso.


Un ritratto giovanile di Leonard Peltier

“Adesso le strade rurali della nostra riserva fanno invidia agli incroci metropolitani di South Central Los Angeles. Vi smerciano di tutto: eroina, amfetamina, cocaina, crystal-meth. I nostri bambini non vengono più strappati dalle famiglie e spediti in collegi lontani dove I bianchi cercavano di fargli dimenticare le loro origini, lingua e tradizioni come ai tempi delle boarding schools. Non è più necessario: ci pensa la televisione”. Peltier ha ragione. In molte case della riserva, per quanto poverissime, all’ingresso dove un tempo troneggiava l’altare dei Lakota, un teschio di bisonte spesso in compagnia della pipa il cui fumo “manda in cielo le preghiere”, oggi c’è una televisione. Un modello antiquato, spesso di seconda mano, cui i ragazzi stanno incollati pomeriggio e sera, soprattutto durante i rigidi inverni, sognando futuri impossibili.
Tutto iniziò per una mucca 1775 I Lakota che si spinsero a ovest e raggiunsero le Colline Nere del Sud Dakota si chiamano Teton e sono suddivisi in sette bande, tra cui gli Oglala, oggi abitanti di Pine Ridge. 1854 Primo episodio di conflitto tra i Lakota e gli Stati Uniti: i Lakota uccidono 30 soldati mandati a punirli per un equivoco riguardo a una mucca di un colono mormone. 1864 Massacro a Sand Creek (Colorado): un gruppo di Cheyenne (donne e bambini) è fatto a pezzi da una milizia di volontari. Cheyenne e Lakota si alleano contro gli Stati Uniti. 1866 Fetterman’s “Massacre”: il guerriero Lakota Cavallo Pazzo fa cadere quasi 100 soldati in un’imboscata dove verranno uccisi tutti. 1868 Trattato di Fort Laramie: gli Stati Uniti riconoscono che Lakota e Cheyenne hanno diritto a un pezzo di terra che include buona parte di Nord e Sud Dakota, Wyoming, Montana, Nebraska. Gli Stati Uniti hanno un solo modo legale di acquisire la terra: il 75% dei Lakota deve accettare di vendere. 1874 Custer trova l’oro e gli Stati Uniti cercano di comprare la terra dai Lakota che rifiutano. Il governo dichiara guerra. 1876 Battaglia di Little Big Horn: vittoria di Lakota e Cheyenne. 1877 Cavallo Pazzo si arrende. Non ci sono più bisonti e i Lakota morirebbero di fame. Viene assassinato perché rifiuta di andare in prigione. Il governo chiede ai Lakota di vendere. Solo il 10% dei Lakota accetta ma il governo ratifica la vendita. Inizia una delle più lunghe battaglie legali degli Usa. 1887 Il Dawes Act divide la terra in 160 acri per famiglia per insegnare la proprietà privata e distruggere il senso di appartenenza tribale. 1890 Toro Seduto è assassinato mentre “resiste all’arresto”. Piede Grosso scappa dalla Cheyenne River Reservation. È catturato durante il massacro di Wounded Knee. 1980/85 La Corte suprema riconosce che le Colline Nere sono state acquisite illegalmente e offre ai Lakota qualche milione di dollari come ricompensa. Il senatore Bill Bradley fa una proposta di legge per ridare parte delle Colline nere ai Lakota. Ma la proposta non passa.

 
 
 

ANTI  OLIMPIADI

Post n°432 pubblicato il 06 Agosto 2008 da dammiltuoaiuto
 

Le manifestazioni anti olimpiadi nel mondo

Queste alcune delle iniziative programmate in Italia e nel mondo in occasione, venerdi’ prossimo, dell’ apertura dei Giochi olimpici a Pechino per denunciare le violazioni dei diritti umani in Cina.Personalmente, terrò il blog chiuso. Alcuni amici accenderanno una candela alla finestra, altri lanceranno in aria un razzo rosso di quelli usati sulle barche.

VARIE CAPITALI. L’appuntamento e’ l’8 agosto con Reporters sans Frontieres (Rsf), in concomitanza con la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi, di fronte alle ambasciate cinesi in molte capitali: Londra, Madrid, Berlino, Parigi, Washington, Bruxelles, Ottawa, Stoccolma e Roma, dove i manifestanti si potranno riunire dalle ore 13. Ma chiunque, senza doversi recare in una di queste citta’, potra’ aderire sempre venerdi’ a una ‘cyber-manifestazione’ (collegandosi al sito www.rsfbeijing2008.org) per ”manifestare virtualmente davanti allo stadio di Pechino” contro ”la censura sulla stampa e in internet” in vigore in Cina.

NEW DELHI. Piu’ di 25 mila tibetani si riuniranno, sempre venerdi’, a New Delhi - riferisce AsiaNews - in contemporanea con la cerimonia di apertura dei Giochi, per ricordare le vittime della repressione cinese in Tibet e per chiedere iniziative concrete ai politici, agli atleti e al Comitato olimpico internazionale (Cio). Il 28 luglio scorso il congresso dei giovani tibetani e altri gruppi pro-Tibet hanno lanciato uno ‘’sciopero della fame per il Tibet” a tempo indeterminato.

ITALIA. ASSISI. Gia’ citta’ simbolo della pace, Assisi sara’ l’8 agosto uno dei centri italiani della battaglia in favore dei diritti umani. I radicali italiani - in collaborazione con il Comune di Assisi e dell’ Anci dell’ Umbria - hanno organizzato la manifestazione ”Diritti umani e valori olimpici: strumenti di pace per le nazioni del mondo e per il Tibet”. Alle 14 (le 20 in Cina), ora dell’inizio delle Olimpiadi, verra’ suonata la Campana delle Laudi.

TORINO. Giovedi’ 7 agosto, dalle 19.30 alle 21, sara’ accesa una candela alle finestre in segno di solidarieta’ al popolo tibetano, mentre l’8 agosto, in collaborazione con il Cai, saranno organizzate passeggiate sulle montagne con lo sparo di fumogeni. Si asterra’ dalla promozione e dalla partecipazione ad eventi e proteste l’organizzazione per i diritti umani Amnesty International, che ha scelto di ”non interferire con lo svolgimento della rassegna olimpica”.

 
 
 

Quando si negava l’anti-Umanità dei Gulag…

«C’è una parola che si usa molto oggi: “anticomunismo”. È una parola molto stupida e mal composta perché dà l’impressione che il comunismo sia qualche cosa di primitivo, di basico, di fondamentale. E così, prendendolo come punto di partenza, anticomunismo è definito in relazione a comunismo. Per questo affermo che la parola è stata mal scelta e fu composta da gente che non conosceva l’etimologia: il concetto primario, eterno, è Umanità. Ed il comunismo è anti-Umanità. Chi dice “anti-comunismo”, in realtà sta dicendo anti-anti-Umanità. Un costrutto molto misero. Sarebbe come dire: ciò che è contro il comunismo è a favore dell’Umanità. Non accettare, rifiutare questa ideologia comunista, inumana, è semplicemente essere un essere umano. Non è essere membro di un partito.»

(Aleksandr Isaevič Solženicyn)

Sulla Stampa di ieri (5 Agosto 08) fa capolino un attento editoriale di Barbara Spinelli dal titolo Il profeta nel purgatorio del Gulag. Si parla dell’opera di Aleksandr Solzenicyn, scrittore e storico russo mancato nei giorni scorsi. Fu tra i primi a denunciare le barbarie del regime staliniano e fu, ovviamente, profeta inascoltato. Anzi, di più: fu proprio emarginato, nonostante il Nobel per la Letteratura ricevuto nel 1970. In Europa, Italia compresa, le sue opere furono boicottate. Nenache messe all’indice, perché nemmeno venivano pubblicate o diffuse. O sarebbe potuto venire qualche dubbio sulla grande ideologia comunista che, si sa, in Italia ha sempre avuto uno spessore culturale non indifferente. Ci son volute le ultime elezioni di quest’anno per vedere l’assenza in Parlamento di “Comunisti” che ancora si vantano di tale nome e delle insegne di falce e martello. Mi domando se sia “umano” (nel senso della citazione sopra riportata) il perorare una politica basata su tutto questo.

Personalmente paragono le insegne comuniste, in tutto e per tutto, alle insegne che portarono a morire milioni di persone innocenti nei campi di concentramento nazisti. Le une erano nere, le altre rosse: ma il minimo comun denominatore resta lo stesso: un totalitarismo che nulla ha da spartire con le parole democrazia, libertà, giustizia.

Andrea Macco

Soppressi solo nel 1960 (7 anni dopo la morte di Stalin) i Gulag videro 18 milioni di reclusi e 10 milioni di prigionieri di guerra e confinati speciali. Il numero di morti accertate si stima essere di circa 3 milioni, escludendo le morti dovute alle dure condizioni di vita (riguardante circa l80% dei prigionieri) 

Soppressi solo nel 1960 (7 anni dopo la morte di Stalin) i Gulag videro 18 milioni di reclusi e 10 milioni di prigionieri di guerra e confinati speciali. Il numero di morti accertate si stima essere di circa 3 milioni, escludendo le morti dovute alle dure condizioni di vita (riguardante circa l'80% dei prigionieri)

Di seguito alcuni stralci dell’editoriale di Barbara Spinelli. Per leggere l’articolo completo cliccare qui.

«Quando in Occidente apparve l’Arcipelago Gulag di Aleksandr Solzenicyn - scritto fra il 1958 e il ’68, uscì nel ’73 a Parigi - fu come un torrente che s’abbatté sulle menti, le conquistò o le intimidì, comunque le cambiò per sempre. Il «saggio di inchiesta investigativa» era colmo di fatti, non confutabili; il tono era quello del profeta; lo sguardo sui campi di Lenin e Stalin aveva l’acutezza che possiedono gli occhi costantemente spalancati sul dolore. Occhi che scrutano dietro il sipario srotolato sulle cose; che le disvelano, come nell’Apocalisse quando ogni velo cade. Occhi che scoprono la paura che muove i mondi e tuttavia prepara la coscienza. Come in Isaia 28, 19: «Solo il terrore farà capire il discorso».
I fatti e il terrore narrati da Solzenicyn non erano ignoti. Chi voleva sapere, sapeva quasi da principio.
[...] Solzenicyn fu un torrente perché iniziò a erodere questi tabù, in Francia anche se non in Italia. Qui lo scrittore venne sminuito, spesso ignorato. Più intelligente e astuto dei compagni francesi, il Pci seppe costruire un muro, attorno allo scrittore, che lo teneva a distanza e lo rendeva sospetto. Era troppo russo e sferzante, troppo credente. Disturbava i revisionismi sfumati, e aveva una serietà che stonava: pochi resistettero al conformismo di un’intellighenzia che a differenza della francese non stava discostandosi dal partito comunista, negli anni dell’Arcipelago, ma assaporava proprio allora le sue primizie di potere. […] »

 
 
 

I memoriali di Vincenzo Calcara

Post n°430 pubblicato il 06 Agosto 2008 da dammiltuoaiuto
 

I memoriali di Vincenzo Calcara PDF Stampa E-mail
Scritto da Bispensiero   
Saturday 28 June 2008

"Devo fare in fretta, perchè adesso tocca a me".
L'agitazione di Paolo in quei giorni non credo fosse tanto dovuta alla consapevolezza ormai definitivamente acquisita che stesse per scoccare la sua ora, quanto per la necessità impellente di completare il proprio lavoro prima che lo cogliesse la morte, che lui sapeva essere molto vicina.
In quei giorni, infatti, la sua "agendina rossa" si era caricata di troppe annotazioni, "esplosive" più delle cariche che avrebbero devastato la sua vita, perchè si trattava di qualcosa di più importante della vita sua e di chiunque altro. Chi lo voleva far fuori, infatti, aveva interesse che scomparisse di lui ogni possibile ricordo: "Di questo BORSALINO (così lo chiamava Francesco Messina Denaro, ndr) non deve rimanere niente, neanche le sue IDEE, DEVE ANDARE nel DIMENTICATOIO. Lui deve morire e basta! Lui non deve morire solo per il danno che ha causato a "Cosa NOSTRA", per questo si era deciso di aspettare il momento giusto, ma Lui deve morire subito in quanto non gli si deve dare la possibilità di causare un danno irreparabile verso il cuore di "Cosa Nostra" e verso il Cuore dei nostri fratelli alleati."

Ed è proprio quel Cuore che stava per essere attaccato. Erano proprio i "fratelli alleati" che costituivano il reale motivo di tanta fretta. Non si trattava più, infatti, di Cosa Nostra solamente, ma di qualcosa che nessuno mai avrebbe potuto sospettare, immaginare, nemmeno volendo. Qualcosa di talmente assurdo che nessuno avrebbe mai potuto credere e che proprio su questo fonda il suo potere, chè se nessuno lo può credere allora non esiste e può essere credibile l'esatto contrario.
Di questa IDEA assurda ed incredibile provò a rendere la propria testimonianza al Giudice Borsellino un certo Vincenzo Calcara. Sconvolto dall'integrità e dalla infinita grandezza dell'anima di Paolo, perfino uno come lui, che nella vita aveva assolutizzato un ideale opposto a quello per cui avrebbe dato di lì a poco la vita il giudice, avrebbe visto tremare l'impalcatura delle proprie sicurezze fino al definitivo crollo che lo avrebbe spinto a "collaborare". Una vera e propria conversione. La sua infinita devozione verso quel monumento vivente di integrità e di libertà lo avrebbe spinto ad una collaborazione così autentica e motivata che il termine "pentito", in moltissimi casi abusato e snaturato rispetto al suo vero significato, sarebbe calzato a pennello.
E' ad una trasmissione televisiva di pochi mesi fa (Top Secret) che Salvatore Borsellino, il fratello di Paolo, lo volle incontrare, venendo così in possesso del memoriale di Calcara. Un materiale scottante, che prima di giungere nelle sue mani era passato per anni fra quelle di molti magistrati. Se ne troverebbe traccia, infatti, in qualche sentenza, ma senza essere stato preso in esame nella sua completezza (secondo quanto afferma lo stesso Salvatore Borsellino) "come se scottasse, o forse perchè non ci sono sufficienti riscontri da parte di altri collaboratori di Giustizia. Sono stati resi noti anche ad alcuni giornalisti ma tra questi solo quelli di Antimafiaduemila hanno avuto, come sempre, il coraggio di parlarne”.. 
La prima parte di questi memoriali è stata pubblicata sul sito www.19luglio1992.com il 30 maggio di quest’anno. L’ultima  delle 5 “puntate” è stata pubblicata lo scorso 16 giugno.
Neanche un rigo su nessun giornale. Neanche un cenno in TV. NIENTE!!! Il nostro giornalismo, con la minaccia del bavaglio da parte del capo del Governo, è ormai completamente neutralizzato.
L'associazione Bispensiero è lieta di pubblicare e divulgare queste informazioni che, al di là del valore probatorio che possono avere al giorno d'oggi, quando ormai chiunque avrebbe avuto il tempo ed il modo per far sparire ogni traccia di prova rispetto a quanto accaduto 16 anni fa, non possono non essere divulgate, sperando che quanta più gente possibile possa conoscerne il contenuto. La speranza, inoltre, è che la magistratura (quella sana che ancora è rimasta nel nostro Paese) possa fare luce su queste pagine e si possa finalmente scoprire la verità.
Rimaniamo in costante contatto con Salvatore e, ringraziandolo per il lavoro importantissimo che sta svolgendo, gli offriamo tutta la nostra vicinanza e la nostra fattiva collaborazione.

Leggi e divulga il Memoriale di Vincenzo Calcara

"Devo fare in fretta, perchè adesso tocca a me".

 
 
 
 
 
 
 
 
 

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