Creato da Nekrophiliac il 21/02/2005

DARK REALMS V2

So, I've decided to take my work back underground. To stop it falling into the wrong hands.

 

 

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Post N° 34

Post n°34 pubblicato il 29 Marzo 2005 da Nekrophiliac
 
Foto di Nekrophiliac

DOWN II: A BUSTLE IN YOUR HEDGEROW (2002)

Le marce paludi della Louisiana, stato a sud degli Stati Uniti: un panorama che non aiuta di certo a colmare quel senso di alienazione intenso e pulsante, ma innesca reazioni a catena, così come diversi modi di sfogare la propria frustrazione, di cui uno di questi è reagire, mettendo su una band. Focalizziamo ora la nostra attenzione precisamente su New Orleans: una delle più grandi fucine di contaminazioni musicali del mondo, patria del jazz e del southern. Prendiamo adesso 5 "ragazzacci", quasi tutti nati in questa città. Il vocalist Phil Anselmo (Pantera) il bassista Rex Brown (Pantera), in sostituzione dell’uscente Tod Strange, i chitarristi Pepper Kennan (Corrosion Of Conformity) e Kirk Windstein (Crowbar) e il batterista Jimmy Bower (EyeHateGod) ci hanno fatto attendere la bellezza di sette anni da quel magnifico debutto-capolavoro intitolato Nola (1995); il volto più acido, più visionario e più grezzo dello stoner americano. I Down sono tornati. Le definizioni loro conferite di “supergruppo” o “side-project” devono essere riviste, poiché sul piano della nuda e cruda filologia il “supergruppo” è un gruppo composto da gente famosa di gruppi diversi, mentre il cosiddetto “side-project” è il gruppo di un membro di un altro ancora. I Down, invece, sono in tutto e per tutto un ensemble che supera collettivamente la somma delle parti. Ragion per cui, se accostassimo la “creatura” Down ai Pantera non risulterebbe un’equazione esatta. Da queste parti non abbiamo assalti hardcore all’arma bianca né tanto meno rigurgiti thrash metal all’ennesima potenza: il disco affonda le sue radici nel passato, precisamente nell'hard rock/metal sabbathiano, si contamina con devianze southern e si ricopre di putridi riffs. Attenzione! Nel quintetto non c’è volontà di fondere generi musicali, di creare un crossover di sensazioni e di sonorità: ci sono piuttosto l’esperienza e la maturità artistica dei singoli membri, maturate come individui e in seguito come band soppesate, limate e forgiate a creare quanto di meglio potesse scaturire dai cervelli dei suoi componenti. I Down sono un’entità autonoma, una fucina di sensazioni ed emozioni, spesso lasciate da parte dei membri per dedicarsi agli altri loro progetti, ma al momento opportuno escono fuori vive e scintillanti. Registrato in un mese in un granaio a 50 miglia dalla capitale, l’album è nato con le giuste prerogative per diventare immediatamente un cult. Bissando in bellezza il già incredibile esordio di Nola (1995), tale secondo capitolo è un'opera infinitivamente più ricca: di idee, di significati, di messaggi e di emozioni come non ne sentivo da tempo. Ricca di personalità e ricco di feeling. Ricca di non-sperimentalismo e ricco di coscienza di sé. Ricca come ogni capolavoro dovrebbe essere. A Bustle In Your Hedgerow (2002) è un disco riesce nettamente migliore del precedente, che apporta pesantissime modifiche nell’economia generale. Che la band voglia ripartire dal predecessore è evidentissimo sin dallo stile del booklet e dall’artwork, pressoché identici, e tutto sommato anche nella musica. Già, la musica. Le analogie tra i due sono palesi, come se i sette anni trascorsi si fossero ridotti a breve intervallo temporale, ma sono soltanto due le differenze: l’esuberante e convulsa magia che circondava il primo come un alone di santità si è in parte attenuata, forse per la mancanza dell’effetto sorpresa, mentre il seguito appare invece meglio bilanciato, maturo e curato in ogni particolare. Pregno di atmosfere cariche di mistero, che tale fascinoso album sfodera piccoli gioielli di songwriting, nei quali c’è tutto quello che ci deve essere ma senza mai esagerare. Un viaggio allucinogeno fino ai confini della razionalità, oppure un incendio alimentato dai fumi dell'alcool che comincia a bruciare sin dalle prime note, supportate da un incedere cupo ed ossessivo, seppur con maggiori aperture melodiche, grandi numeri blues, violente sterzate metal, elegantemente psichedelico, scuro ed esoterico. Al termine di questi mielosi elogi, è ora di passare ad esaminare la track-list.

E' la prima canzone a fare da raccordo fra passato e presente, Lysergik Funeral Procession, un palese tributo ai Black Sabbath, e più in generale agli anni '70, con il suo incedere al rallentatore e la sua atmosfera pesante. L’incipit dimostra non solo gli enormi progressi sonori, piuttosto strappa applausi la prestazione dell’evoluto Phil Anselmo, che rispetto al predecessore, Nola, riduce di molto i suoi impulsi aggressivi e diventa la chiave con la quale entrare in un immaginario così affascinante. Finalmente ha smesso di "ruttare" come in Reinventing The Steel (2000), ultimo e inascoltabile lavoro dei defunti Pantera, cantando in maniera “pulita”. Non se ne poteva più! Pezzo più cadenzato, pur essendo arricchito da melodie che conferiscono un senso di nostalgia e di perdita è There’s Something On My Side, che paradossalmente, regala all’ultimo suo una potenza rabbiosa. Struggente. Bisogna però soffermarsi ad ascoltare The Man That Follows Hell, apparentemente un po’ troppo spigolosa per inserirsi bene nella corrente di sentimento vintage che trasuda da questo lavoro, ma un po’ di metallo non guasta mai. Dunque, le influenze dei 70’s più heavy rappresentano il fondamentale punto dal quale partire: la geniale Stained Glass Cross incarna perfettamente la materia prima sabbathiana rendendola unicamente solida ed inscalfibile attraverso riffs determinati e sovraumani, il tutto amalgamato dal suono di un azzeccatissimo organo Hammond. Spazio quindi ai ruvidi omaggi al southern con Ghosts Along The Mississippi. Invito tutti ad ascoltarla e a provare ad ad immaginare lo scenario suggestivo e allo stesso tempo angosciante di una landa desolata. Bellissima. A seguito di cinque tracce belle toste, la sesta, incredibilmente, si presenta lenta e tragica, si tratta di Learn From This Mistake, dove lo scivoloso blues d’archivio, cantato dal buon Phil Anselmo, testimonia i suoi personali fantasmi di una dolorosa vita vissuta. Un violento pezzo doom-rock, Beautifully Depressed, irrompe superlativamente a placare la malinconia della precedente traccia. Per fortuna, la splendida vena intimista dei Down, nata tra le solitudini ed i miasmi della Louisiana, attraversa la successiva e molto “sentita” country-song Where I’m Going, dove agli strumenti tradizionali si aggiunge proprio il banjo. Il disco in questione, a conti fatti, è pur sempre una sorta di jam session senza precedenti, e quindi, i Down si dimostrano perfettamente a loro agio nell’informale dimensione riflessiva di Doob Interlude, un vero e proprio interludio lento, paranoico e strumentale. Magico. Proseguendo, Phil Anselmo regala, per l’ennesima volta, una variegata ed espressiva prova vocale, con parti più dolci sino ad urli e a molto altro in New Orleans Is A Dying Whore. Irrimediabilmente alcoolica, malata, colma di piaghe metalliche ancora infette, la puttana di New Orleans si erge ancor più minacciosa che in passato, tutto ciò è l’amore-odio verso le proprie radici. New Orleans Is A Dying Whore è, in ogni caso, uno di quei pezzi che ascoltati una volta restano impressi per sempre. Emozionante. The Seed è più moderna e metallica, e permette all’ascoltatore di allentare un po’ la tensione sonica. Continuando, si passa ai tranquilli inserimenti blues di Lies, I Don't Know What They Say But… che poggia, inoltre, sul dinamico basso di Rex Brown, per fondersi poi con gli elementi cardine del suono confederato: boogie, hard rock, rhythm ’n’ blues, un’ombra scura di doom, un tocco lieve di psichedelia. Tocca poi ad un altro buffo interludio cioè Flambeaux's Jamming With Staug, prima di passare alla densa Dog Tired: colata di groove, ereditato da bands eccezionali come questa, che si alterna con ritmo e scadenza perfetta, come in un film avvincente, senza la minima caduta di tono, nel trionfo di una sezione ritmica potente e di una sezione melodica varata e sicura. L’ultima e fatidica traccia, Landing On The Mountains Of Meggido, è un colossale ma quanto mai drammatico trip acustico. L'acustica tranquillità dolcemente si diffonde nell’aria, lasciando l’ascoltatore fra immaginazione e realtà: null'altro. Conclusioni? Droga allo stato puro per la mente, concentrato di emozioni che finirà per coinvolgere chiunque abbia orecchio per la buona musica suonata con il cuore per quindici episodi diversi che raccontano le sensazioni, le passioni comuni di cinque amici chiusi in uno studio di registrazione immerso nel fango tra fameliche zanzare e voraci alligatori. Raramente mi era capitato in passato di imbattermi in qualcosa di così evocativo, spero soltanto che non debba aspettare altri sette anni…

 
 
 
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