FALKENBACH: OK NEFNA TYSVAR TY (2003)
È tempo di improvvise modifiche. Nel percorso sonoro, i sig.ri. Falkenbach non potevo lasciarli fuori, gli Audioslave sì. Ora un po’ di luce. Il successo dei Finntroll deve aver colpito molti musicisti, almeno a giudicare dalle nuove uscite in campo folk metal degli ultimi tempi. I Falkenbach, in realtà, sono in giro dal 1989, quindi non si può certo imputare loro di essere saliti sul carrozzone; certo è, comunque, che dopo dischi come En Their Medh Riki Fara (1996) e Magni Blandinn Ok Megintiri (1998), era difficile aspettarsi un lavoro come questo Ok Nefna Tysvar Ty. Scomparso il black metal, scomparsi quasi totalmente gli inserti growl, i Falkenbach sono ormai una band folk metal a tutti gli effetti. Diversamente da band come Asmegin e Finntroll, però, i norvegesi preferiscono focalizzarsi sul lato più epico ed evocativo della musica nordica. Canzoni non scritte per stupire, dunque, ma piuttosto per affascinare e trasportare lontano. Piccole fiabe in musica, questo scrivono i Falkenbach, pezzi semplici ma dal fascino infinito. Niente cambi di tempo, niente colpi di genio, niente melodie travolgenti, solo affascinanti visioni di terre lontane. Non aspettatevi, dunque, musica complessa e articolata: spesso si tratta di brani costruiti su una sola melodia, un coro e tanta, tanta atmosfera. Significativo, in questo senso, notare come tutti gli strumenti - flauti, chitarre acustiche ed elettriche, batteria - siano sostanzialmente tutti allo stesso livello a livello di missaggio, tanto che anche il termine "metal" risulta forse poco adeguato. Vogliamo parlare solo di "folk"? Facciamolo, alla fine quel che conta è il valore del disco. E da questo punto di vista non ci può certo lamentare, anzi. Falkenbach, una misteriosa one man band dietro al quale si cela Vratyas Vakyas, ovviamente uno pseudonimo, è uno di quei progetti che diventano veri e propri oggetti di culto per quei pochi fortunati che riescono ad entrare in possesso di uno dei suoi dischi ma la cui fama nell'underground è inversamente proporzionale al numero di persone che lo conoscono. Dopo diversi anni di silenzio Vratyas dà finalmente alle stampe un nuovo gioiellino di epic-folk senza tempo. Introdotto da una copertina, come sempre, di una bellezza rara, con un paesaggio tipicamente nordico al tramonto, ma al tempo stesso fatto di colori caldi ed avvolgenti e dipinto con grande spirito da un artista norvegese del XIX secolo, il disco in questione fa capire immediatamente che è stata una delle migliori releases del recente 2003. In quaranta minuti spaccati Vratyas Vakyas ci trascina a forza nel suo mondo, che questa volta è ricoperto di una tranquilla, mastodontica epicità nella quale la sua grande abilità di musicista è affiancata da Boltthorn alle batterie, Hagalaz alla chitarra acustica e da Tyrann ai cori. Da tanta unione scaturisce un lavoro maturo, limpido, più equilibrato rispetto ai suoi due precedenti lavori, interamente curati in tutti gli strumenti unicamente da lui. Abbandonata qualsiasi velleità black metal, la cui influenza volteggiava nelle sue opere passate, l'islandese sembra folgorato dall'epica strettamente bathoriana, un po' malinconica e triste, di Twilight Of The Gods (1994), di cui quest'album potrebbe essere una oscura propaggine moderna. << Mounted men, with axe and shield on their ride through shallow field. See your sons oh Vanadis. Light my ways oh Manalihs >>. Così inizia Ok nefna tysvar ty. Per non far dimenticare al popolo le sue radici, Vakyas apre l'album con i tre potentissimi corni di Vanadis, in cui si nota subito un rallentamento rispetto all’ultimo lavoro, e un aumento potenziale della carica epica, subito gettata su uno scudo di legno dal crescendo iniziale, che qua e là mostra gli ultimi rigurgiti del suo retaggio black. Le voci pulite ormai dominano sugli scream, e la sua voce è talmente peculiare da essere riconoscibile tra migliaia, rendendo il suo stile unico e caratteristico, un pregio di gran conto nel metal. Un flauto sognante ed ipnotico accompagna i nove minuti di durata dell’opener, con i cori evocativi ed imponenti che caratterizzano il refrain. Un brano che da solo basterebbe per comprendere gli ultimi dieci anni del viking metal, con le nuove leve che non possono far a meno di confrontarsi con perle di simile importanza. Ottima la ritmica, ottimo l'uso delle tastiere di cui Vakyas è gran virtuoso, e ottimi gli arrangiamenti con gli strumenti a fiato e con i cori, in questa canzone assolutamente completa e ben divisa da quello che è il gran distacco dal passato, ovvero la seconda As Long As Winds Will Blow. Dato l'addio allo screaming black, viene introdotta in grande stile un'altra predominante dell'album, la chitarra classica/acustica, che riprende in più di una traccia il riff principale, rielaborandolo in chiave assolutamente epica. Non è questo esattamente il caso, visto che questa è una canzone abbastanza intensa, anche se ripetitiva nei riffs e nel cantato. Dunque, un brano delicato e ricco di mistero in contrasto con i successivi due pezzi in crescendo più facilmente inquadrabili all'interno del filone epic. Per fortuna l'album è appena iniziato, e una tumultuosa carica di cavalli al galoppo ci introduce alla mistica Aduatuza, una gran canzone corale con una base acustica che ricorda le vecchie evoluzioni più epiche di Magni Blandinn Ok Megintiri (1998), più che di En Their Medh Riki Fara (1996). Un mid-tempo roccioso, una marcia di battaglia. La canzone scorre tranquilla (eufemismo), finché non veniamo introdotti a quella che probabilmente considero la miglior prova di tutto l'album, e una delle migliori prove epiche in assoluto della band vichinga: Donar's Oak. La dinamica e ottimamente arrangiata terza traccia vanta una struttura più classica (strofa - ritornello – strofa – ritornello – assolo ritornello) e di pregevole fattura, con una voce fresca, corale, incredibilmente epica, e un assolo strumentale davvero degno di questo nome, in cui il semplice riff di chitarra acustica è rincorso in una seconda battuta dall’accompagnamento del flauto che ne ripercorre i sagaci tratti musicali, fino a concludersi nell'atmosferico refrain di caratura mitologica. The Ardent Awaited Land, invece, abbandona completamente le atmosfere più guerresche in favore di un brano totalmente folk molto vicino ai Finntroll di Visor Om Slutet (2004). Qui si narra della terra nella quale ci aveva immersi Magni blandinn ok megintiri. Questa cover ovviamente ha perso tutta la carica black dell'originale, e sotto uno spaventoso coro e delle percussioni profondissime la sua voce sussurrata e straziante racconta della leggendaria terra incendiata, finché il mare non ci porta a Homeward Shore, forse in assoluto la prova più bathoriana dei Falkenbach, un lamento lunghissimo, corale, monumentalmente epico, che sembra provenire direttamente dalla tormentata malinconia di Hammerheart (1995), di Blood On Ice (1996). Nonostante il mid-tempo, la cadenza marzialmente epica e la lentezza esasperante di tutti gli strumenti ormai scevri di qualsiasi velleità black, speed o death, Vratyas Vakyas riesce tranquillamente a catturare l'attenzione dell'ascoltatore grazie ad arrangiamenti originali, diversi, interessanti, curiosi e altamente evocativi. Stilema che si ripete anche con l'ultima traccia, Farewell, in cui Vratyas Vakyas si cimenta in un testo semplice e raccoglie tutti gli insegnamenti perpetrati in questo disco e li presenta tutti insieme in un ricco medley. Come già ripetuto in tutta la recensione, questo album è lento, drammatico, marziale ed epico, suonato con grandissima saggezza e gusto musicale, e prodotto altrettanto bene, con suoni puliti, dinamici e ben missati. Siamo in presenza di un album assolutamente fuori dagli schemi precostituiti come ogni uscita dei Falkenbach - solo tre dischi all’attivo, pochi ma buoni - che probabilmente non mancherà di dividere i fans visto l'abbandono della matrice black che seppur non in modo netto, caratterizzava i due dischi precedenti. Un lavoro complesso sviluppato con mirabile coerenza, che vede per la prima volta l'inserimento di session members e che rende futile qualsiasi ulteriore considerazione. Giudizio finale? Un monolite immerso nel tempestoso cielo.