Creato da Nekrophiliac il 21/02/2005

DARK REALMS V2

So, I've decided to take my work back underground. To stop it falling into the wrong hands.

 

 

Post N° 101

Post n°101 pubblicato il 10 Dicembre 2008 da Nekrophiliac
 
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FAITHLESS: TO ALL NEW ARRIVALS (2006)
 
Label: Columbia, Sony BMG Music Entertainment
Genre: Electronic 
Style: Breakbeat, House, Downtempo, Synth-pop 

Basterebbe Bombs, il video che ha anticipato l'uscita del disco, per comprendere su quali coordinate viaggia la musica dei Faithless. L'alternanza del rap di Max Jazz alla voce melodica di Harry Collier finisce per sovrapporsi alle copiose immagini: il gioco dei bambini, in spiaggia e in famiglia, contrapposto all'orrore della sanguinosa guerra. Eccellente è la rappresentazione dei temi musicali espressi, tanto frenetici quanto rilassanti, non rinunciando a raccontare la realtà odierna. Nel mezzo, i vocalists ospiti: a seguito dell'ormai immancabile Dido, c'è Cat Power, e persino Robert Smith che riscrive e ricanta Lullaby dei suoi Cure, trasformata in Spiders, Crocodiles & Kryptonite. To All New Arrivals è da avere e consumare.

Tracklisting:

01 Bombs (4:59)



02 Spiders, Crocodiles & Kryptonite (5:40)
03 Music Matters (4:40)


 
04 Nate's Tune (2:14)
05 I Hope (5:27)
06 Last This Day (5:09)
07 To All New Arrivals (5:03) 
08 Hope & Glory (5:01) 
09 A Kind Of Peace (4:14) 
10 The Man In You (5:06)
11 Emergency (7:44)

 
 
 

Post N° 100

Post n°100 pubblicato il 01 Dicembre 2008 da Nekrophiliac
 
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QUIET VILLAGE: SILENT MOVIE (2008)

A spasso nel tempo. Nell’ordine: tre intelligenti singoli stampati su dodici pollici e due intriganti remixes realizzati per François K (The Road Of Life) e Gorillaz (Kids With Guns). E una vita parallela per Matt Edwards, maggiormente conosciuto ed apprezzato sotto lo pseudonimo Radio Slave. Il suo partner all’interno del “progetto” Quiet Village di stanza a Brighton, invece, è il produttore Joel Martin, appassionato di musica d’altri decenni, specie se italica e colonna sonora, magari, di uno dei tanti b-movie polizieschi, da poco “riscoperti” e paradossalmente “celebrati” da una certa parte della critica cinematografica, troppo spesso incapace di guardare oltre alcuni orizzonti scontati.



E risulta decisivo tale nobile interesse. Perché Silent Movie è tanto un sterminato recupero di un bagaglio di elementi e stilemi del panorama disco, jazz, lounge, soul, che un nuovo missaggio di tutto ciò con l’aggiunta di frammenti vocali ed altri suoni, quali rumori di sottofondo o direttamente emananti da strumenti, per la realizzazione di un cinematico viaggio. In sospensione tra realtà e fiction galleggiano rimbombi di chitarre blues, svariati archi da camera e un tripudio di grida, risa, versi di uccelli, fino alle onde del mare e la sua immancabile risacca, senza dimenticare il canto di sospiranti sirene. Sì che ogni traccia, connotata da numerose variazioni al suo interno, possa raccontare in note una storia, suggerire un percorso da seguire, invitare alla contemplazione di sfondi, paesaggi, orizzonti. Nell’arco di una sola singola ora di pura musica. Insomma, non si tratta di un disco classificabile come “dance” ma, di certo, non è privo di ritmi e battute. Ugualmente, non è un disco "suonato", ma neanche elettronico nel sound. Debuttare così non è da tutti e il giusto tributo va altresì assegnato alla !K7, già in passato abile nello scovare talenti – e lanciare ad esempio i Cobblestone Jazz – e tra le più apprezzate dell’ultima annata: basti pensare alle varie realeses che spaziano dal live di Henrik Schwarz allo studio album degli Swayzak, passando per la compilation dei Booka Shade, fino ad arrivare alla raccolta di Carl Craig. È apprezzabile il tentativo della storica etichetta tedesca  di allargare il proprio roster di artisti al di fuori di sonorità minimal/techno et similia: equivale a compiere un netto passo avanti per offrire qualcosa di diverso ad un pubblico di appassionati, non necessariamente, in questo caso, dell’ultima ora.

Missione compiuta. Non è mai facile tenere alta la qualità del prodotto finale, oltre che la sempre importante attenzione dell’ascoltatore per un album intero composto di bagliori caraibici, influenze vintage ed una annaffiata d’elettronica: enorme ed incombente è il rischio del già sentito. Eppure, questo fantasma viene presto scacciato. In presenza di un lavoro di un’eleganza indecifrabile, laddove l’obiettivo sonoro è stato ampiamente centrato e splende di luce propria, non resta che rimarcare la tecnica profusa in un simile sforzo. Ogni singola composizione risulta essere misurata, poiché non si registra affatto l’interesse nello stupire con mirabilie di chissà quale sorta, bensì si privilegia un profilo basso, in direzione di una profondità maggiore, avvolgente a tratti. Il merito del duo è proprio quello del sapersi rapportare, con scioltezza, in maniera coerente e mite con il magniloquente e magnifico passato, tra contaminazioni e campionamenti, mettendoci molto cuore per una visione corale, originale, a tratti psichedelica e, perché no, sensuale. Al cuore del genuino chill-out, si favorisce un comodo relax grazie ad una sapiente macchina del tempo. E non è un'operazione nostalgica fine a se stessa, bensì un vero atto d'amore per un sound e per certe atmosfere ancora oggi impregnate d’incanto. Soprattutto per la musica di gran classe. Non è un caso che il nome della band sia preso in prestito dal titolo di una composizione del 1959 di Martin Denny, padre putativo del filone “esotico”, nient’altro che i primi tentativi di mescolanze latine ed orientaleggianti.

Ad occhi chiusi
. È come se fosse l'ultimo minuto. Praticamente, un lampo. In quella frazione di secondo si decide il/un sogno. Di tutta una notte, forse, di una vita. È un qualcosa di istantaneo, scagliato nelle intime profondità dell'anima, sospesa tra recondite paure e raggianti speranze. E se ci si crede davvero, ci si alza in piedi.  Perché è, davvero, un colpo in un istante. E in quella frazione di secondo non si pensa, praticamente, a niente e a nessuno.



E ci si mette metaforicamente a correre, pur restando fermi, in un turbinio di emozioni, udendo il latente e sibilante cinguettio dei gabbiani alti nel cielo, un attimo dopo la fine della sfavillante Victoria’s Secret, tra l’oboe bucolico e placidi violini. A cui seguono stuzzicanti echi funk racchiusi nel miglior pezzo dei dodici proposti dai Quiet Village: Circus Of Horror, semplicemente trascinante con i suoi indimenticabili flauti e le voci di sottofondo. Segue, a ruota, il beat languido di Free Rider, che coniuga un’elettronica dolce in chiave Air con ingredienti dub. Il soul di Too High To Move, piuttosto, cadenzato da note di piano e imbottito di jazz vellutato, deriva da un sample di Fly Too High di Giorgio Moroder. Il cocktail party continua con il coraggioso reggae di Pacific Rhythm prima e il vibrante trip-hop di Broken Promises, che ricorda da vicino i sinfonici gemiti della Cinematic Orchestra. A seguire, la soave e suadente Pillow Talk. Una pausa evocativa che rallenta il flusso downtempo, per poi riprenderlo con rinnovato battito, pulsante ed iscritto in un nuovo frizzante momento, cioè Can’t Be Beat: nient’altro che un re-edit, notevolmente rallentato, di un classico della disco quale The Days Of Pearly Specer di Trademark. Con Gold Rush sono rievocati i Thievery Corporation per un trascinante groove ed un caliginoso mood, impossibili da scrollarli di dosso. Anche l’Africa fa capolino in quest’opera, specie con Singing Sand, per le sue percussioni di mani che hanno accarezzato duemila e più tamburi. Ugualmente notevoli per il rasserenante tocco finale, comunque, finiscono per essere il liquido arpeggio di Utopia e la quiete balearica di Keep On Rolling. Le conclusioni sono quanto mai scontate. Silent Movie non può che essere, senza ombra di dubbio, uno dei dischi dell’anno solare. Da lasciar scorrere dall’inizio alla fine. Per più di una volta. Alla luce o al buio. Non è importante. Ciò che conta è la versatilità cool diffusa nell’aria ad ogni suo ascolto. Sognante.

 
 
 

Post N° 99

Post n°99 pubblicato il 24 Novembre 2008 da Nekrophiliac
 
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MURCOF: COSMOS (2007)

Il cielo sopra Tijuana. Murcof è un nome d’arte, dietro cui si cela Fernando Corona, messicano di nascita, ma residente in Spagna. Professione: musicista. Laureato in Analisi dei Sistemi e Programmazione, Murcof si è formato tra pianoforte e violoncello: dal padre poli-strumentista, infatti, ha ereditato una sconfinata passione per la musica classica. E, quindi, ai primi pc ha affiancato sintetizzatori e molto altro ancora per estrapolarne note e toni. Così ha inizio la sua strabiliante carriera, che si fonda sulle visioni di Arvo Pärt e Henrik Gorecki, pur elaborando un nuovo concetto di musica elettronica: una miscela, non esplosiva, di ambient, minimal/techno e inserti glitch. Al pari delle opere dei suoi maestri, le produzioni di Fernando Corona sono lente ma evocative, cinematiche e suggestive. Le differenze sono, però, ovviamente numerose. In particolare, Murcof ricorre a campionamenti di strumenti acustici recuperati da registrazioni di musica classica o contemporanea, e all'unione di impolverate armonie elettroniche, ritmi disturbati e schegge di violoncello, organo a canne, o altri strumenti canonici, per un qualcosa che risulta, oltre che originale, musicalmente affascinante. Tali gocce acustiche, frammentate in un mare elettronico, cadono al di sopra di un contesto, comunque serio e piacevole. meno sacrale e maggiormente vicino ai profani. L'equilibrio tra le varie parti della composizione, la precisione autodidatta e la cura ossessiva dei dettagli, l'atmosfera sonora a tratti dolce a tratti maestosa, il complesso equilibrio tra silenzi e campionamenti, rendono, senza ombra di dubbio, Murcof una delle figure chiave del moderno compositore colto. Perché è il silenzio a ricevere in dote il compito di lasciare all’ascoltatore la vera essenza della musica stessa. Oltre che rivestire il ruolo di massimo comune denominatore delle sue produzioni anteriori: Martes (2002), Utopia (2004) e Remembranza (2005). Quest’ultimo titolo – ispirato al tema della memoria, che s’iscrive su vari registri espressivi – probabilmente, rappresentava l’apice creativo, dato che calibrava in maniera magistrale un beat appena marcato, tra accennati silenzi e improvvise ripartenze di strumenti classici, ricercando profondità altamente immaginifiche, in cui i violoncelli emergevano per manciate di secondi, rilasciando poi il proprio eco tra rumori di fondo. Come in una gelida stanza vuota. Affatto fredde furono le celebrazioni per questo visionario e poliedrico progetto.

Fuori dal precedente schema. Cosmos, invece, dimostra di poter scavalcare l’unione di sintetici beats generati da un laptop e da samples di musica classica. Rispetto ai suoi scorsi lavori qui c'è molto più materiale armonico e, in generale, una maggiore apertura verso drones e tappeti sonori a scapito dell'attenzione che Fernando Corona aveva verso i suoi tipici ritmi distorti – realizzati utilizzando frammenti noise – ma ciò non rende affatto la sua creativa musica meno interessante, anzi, introducendo nuovi colori sulla sua tavolozza musicale riesce ad essere più vario e sempre più capace di avvolgere e trascinare l’ascoltatore nel suo universo. La ricerca di Murcof si sposta allo spazio, a quel cosmo che superficialmente potrebbe assumere il ruolo di ispiratore più ordinario e retorico, ma che tra le mani di Fernando Corona disorienta, a tratti, per la sua connotazione intimistica. Cosmos «è un’evoluzione logica rispetto a ciò che volevo esprimere in questo nuovo lavoro: sapevo che le strutture usate in precedenza non erano pienamente adatte e ho ridotto la parte ritmata, concentrandomi di più su armonia e texture. Questa volta ho attinto maggiormente dalle strutture musicali classiche piuttosto che dall’elettronica» perché «tutti i miei dischi riflettono un periodo preciso della mia vita. Per esempio, il primo disco corrisponde ala nascita di mio figlio, il secondo è legato alla morte di mia mamma, questo quarto disco riflette il mio spostamento da un continente all'altro, dato che mi sono recentemente trasferito a Barcellona e la mia interpretazione della vita è cambiata. Cosmos è una celebrazione della nostra esistenza, dell'universo: bisogna guardare al di là dei palazzi che ci circondano, bisogna guardare in alto, le stelle e il cielo». Contatto con gli elementi terreni e la natura, oltre che con la tecnologia: ecco le sue caratteristiche. La ricetta può sembrare trita e ritrita, ma il sapore è denso, frutto di un tocco perfezionista, conferiscono al suono del Big Bang uno spessore e una veemenza uniche nel loro genere. A un primo ascolto, infatti, si può sottovalutare il rapporto tra il vuoto – che nelle sibilanti estensioni rinviene la sua foggia sonora più adeguata – e il senso di tormentata trasformazione che spettrale appare fugacemente.

Che rumore fa il silenzio. E può essere riempito. È questo il rarefatto tema che fa da base al climax di Cuerpo Celeste. Un climax sommesso, cupo, ma che riecheggia tremante nei suoi quasi dieci minuti di crescita, fino a far vibrare le casse con la sola forza del silenzio.



Le pulsazioni più elettroniche compaiono al secondo episodio dell’album, Cielo, che fa sì che si possa ammirare un Fernando Corona dal volto più familiare, capace di elaborare un campionamento vocale in maniera così struggente da far credere che sia un lamento ai margini dell’universo. Le due title-track, Cosmos I e Cosmos II, confermano la sensazione di un continuo avvicinarsi all'ambient, alla ricerca di nuove soluzioni per allontanarsi dalla contingenza: nessun ritmo, soltanto meri suoni e basse frequenze pronte a far collassare i padiglioni auricolari, lasciando la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di primordiale e oscuro.



A separare le due quasi omonime tracce si innestano i battiti sintetici di Cometa, che fa il paio con Cielo nel suo rimandare ai trascorsi del passato, eguagliandone in parte la forza emotiva. In tal senso si dischiudono illusorie vie di fuga da silenzi ancora più incombenti, laddove la natura e l'artificio sono nient’altro che bagliori sovrapposti all'orizzonte. Infine, Oort, caratterizzata da improvvise deflagrazioni sonore: questa volta si è, davvero, in presenza di un tentativo di pura e nuda avanguardia, per una conclusione che prevede l’utilizzo minimo dell’elettronica, affiancata da un sottofondo imprevedibile e destrutturato di strumenti classici. I saliscendi emozionali della lunga suite si alternano tra dolci strepiti che lambiscono il silenzio e lancinanti esplosioni corali. Cosmos, in definitiva, è la colonna sonora dell’immensità degli abissi celesti, desta vita nel silenzio del vuoto astrale, nonché filtra l’assoluta mancanza di atmosfera e di materia.

 
 
 

Post N° 98

Post n°98 pubblicato il 17 Novembre 2008 da Nekrophiliac
 
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THE FIELD: FROM HERE WE GO SUBLIME (2007)

Nomen omen. Uno dei grandi miti dell’era postmoderna da demolire è quello per cui si rappresenta la minimal/techno come una mera sfaccettatura sonora glaciale, incolore, pallida e smunta: a scardinare inderogabilmente il malsano pregiudizio provvedono, negli ultimi tempi, disarmanti uscite su uscite che segnano una scia da seguire. Facendo sì che si compia una vera e propria evoluzione accelerata della specie. Il punto di partenza geografico è l’Europa di Mezzo. Laddove, etichette come la teutonica Kompakt si distinguono per una vena forse maggiormente melodica, ma decidendo di voler correre qualche rischio in termini di vendite non si impongono limiti alla sperimentazione. From Here We Go Sublime ne è l’inequivocabile prova provata. C’è chi ha parlato, a tal proposito, di “pop ricombinante”. Genere musicale che si differenzia da tutte le altre molteplici catalogazioni architettate dalla critica poiché non è determinato dalla mescolanza di suoni e ritmi che esibisce, piuttosto dal criterio con cui la musica risulta essere tradotta in realtà, che consiste nell’affidarsi a vari campionamenti, di canzoni pop anche, per poi assemblare qualcosa di diverso, spesso così diverso che il sample impiegato diviene del tutto non riconoscibile. Identificato, invece, è il loop. Ripetere per ipnotizzare l’ascoltatore, costringendolo a focalizzare la sua distorta e disturbata attenzione sui dettagli sparsi, percependo i breaks infinitesimi, inducendolo, via così, sul concentrarsi circa l’essenza del brano. A livello emotivo, la ripetizione può anche risultare noiosa, tuttavia, qui è fonte di alta suggestione.

Di necessità, virtù. «The process starts at this moment when I hear there’s a song I want to make something else. And I sample it, looking for bits and pieces in it that I really like and I’m trying to rearrange it. It could go backwards, forwards, sideways, everywhere, you know? Double it, loop some new things, new instruments, like the guitar in the software. And of course the beat. That’s probably the whole thing. Then I mix it live. Always». Axel Willner/The Field è assoluto padrone della sua nobile tecnica artistica e non è affatto nuovo ad un certo genere di idee a riguardo. Infatti, rende loro forma tratteggiata e ritmo destrutturato. Seppur continuo e, quanto meno, intenso. Per un suono che aliena qualsiasi rapporto con spazio e tempo circostanti. Ascoltarlo è vivere un’esperienza extra-sensoriale. Perché statico a tratti, fluttuante, indefinito ed indefinibile. In una parola, sospeso a mezz’aria. In un clima di tensione, attesa. Sempre in presa diretta. È un continuo rallentare ed accelerare. Per non fermarsi mai. Disarticolato, ma organico. Un corpo non-strutturato di tagli ed inserti che faticano a definirlo plastico. Tessuto su tessuto, molecola con molecola, cellula per cellula. Questo è il disco con cui perdersi, lasciarsi andare. Verso l’oblio tecnologico. Basato sull’incomprensibile ed intima connessione fra ripetizione e differenziazione di mille e più microscopici dettagli sonori e le loro altrettanto numerose ed impercettibili variazioni. Senza dimenticare, le pause ed inattese esplorazioni o un battito in quattro quarti. Un filamento tanto esile quanto terso lega le tracce: una sorta di pacato caos sonoro dallo sviluppo sconfinato che nella meticcia musica di The Field si raccoglie in smaglianti sovrapposizioni tonanti, che non possono che riportare alla mente talune produzioni progressive di metà anni ’90 del secolo scorso, così come quelle più shoegaze, da cui lo svedese è stato folgorato tempo fa.

Fra terra e blu. Over The Ice va oltre. Senza limiti. Senza ancoraggi. The Field ha scomposto, separato, estrapolato un frame da Under Ice di Kate Bush e forgiato un qualcosa di non-nuovo, denso di mirabile incanto.


Questo il “semplice” pezzo d’apertura. A Paw In My Face recupera, ristruttura, rivaluta e ripropone un sample da Hello di Lionel Richie. Per niente fredda minimal/techno, anzi sempre morbida, solare. Un’onda energetica che non si esaurisce, a dispetto del titolo, con Good Things End, perché un suono sferico attorciglia l’ascolto ed una tartassante mestizia s’avviluppa in nuove ossessioni sonore. The Little Heart Beats So Fast è l’episodio più pop delle dieci meraviglie, che scorrono via delicate, mai irruente, abbracciano le menti e le rapiscono, inizialmente, per più di un’ora e, chissà, per quanto altro tempo ancora. Raramente il titolo di un album è riuscito a racchiudere nelle sue esigue parole il senso dell’intera opera. Everday si plasma su linea-guida costituite tra echi e trame fitte come velluto, penetranti e piacevoli. Silent, invece, è un’immersione barbiturica in una sognante notte stellata. Con The Deal si tocca il punto più alto in assoluto del contemporaneo capolavoro: dieci minuti di sudore sgorgante da un caleidoscopio elettronico che sembra non esaurirsi. E l’aria si fa satura. Le pulsazioni aumentano. La quiete, in una discesa di flangers, giunge mai tarda con un’atmosferica Sun & Ice, presto interrotta dalla pressione esercitata da Mobilia, più incisiva nel suo incedere. In chiusura, From Here We Go Sublime atomizza il riverberante doo-wop dei Flamingos. In conclusione, il disco si sgretola, si granula, ma non si arena, galleggia placido tra saliscendi e crescendo passionali, asserragliato dietro ad frammentato muro sonoro, che non può che proiettarlo, quale ideale reincarnazione per il nuovo millennio dello shoegaze, nell’Olimpo delle “pietre miliari”. Rilegge, altresì, con classe, le suggestioni melodiche disseminate dalla trance nel corso della sua, ormai lunga, esistenza. Oggigiorno ha assunto i contorni di ciò che è stato dai più chiamato “pop ricombinante”, e cioè assumere un piccolissimo frame di una canzone infinitesimale punto di partenza dal quale poi si dipana il tutto. Al cuore della sostanza, la vita, metafora della musica, ha sempre inizio da un che di microscopico. Eppure, a seguito di apprezzamenti ad ogni latitudine e longitudine, l’arte di The Field non può che essere divenuta, ormai, macroscopica. Alla portata di tutti. Per coloro che amano il genere, così come tutti quelli che non hanno alcuna familiarità con esso. Non ci si dimenticherà facilmente di un disco d’esordio simile. Che non ha nulla di virtuoso, ma può risultare ripetitivo, ossessivo, persino monotono nel suo banale intercedere, scontato. Nonostante ciò, incarna i colori del giorno e della notte, rappresenta brividi e sentimenti in note e, squarciando l’anima, lascia in eredità ai posteri eteree carezze.

 
 
 

Post N° 97

Post n°97 pubblicato il 30 Settembre 2007 da Nekrophiliac
 
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HOLDEN: THE IDIOTS AREWINNING (2006)

Twothousandeight. Un anno è trascorso. Tante, troppe cose, positive e negative, sono accadute. L’unica costante, la c.d. “k” in matematica, è la “mia” musica. Giunge, infine, mai tardo, il tempo di riprendere il discorso da dove l’avevo volutamente lasciato. Per la “resurrezione”. Figlia di cambiamenti. Rispetto un’età neanche troppo lontana, «ciò che mi sembrava bello, d’un tratto, m’apparve brutto, mentre ciò che mi sembrava brutto m’apparve improvvisamente bello». Uno scrittore di nerbo come Tolstoj insegna. Occorreva riscoprire passioni mai sopite, forse dormienti, in attesa di uno scossone. Avvenuto e concretizzatosi ormai a pieno. Non ho più incertezze, né dubbi. Sono a conoscenza, nonché in possesso, di tutto ciò che fa per me. Davvero. Ed è qualcosa di elettronico, minimale, tecnologico. Il passato non mi rappresenta più. Il passato non mi rappresenta al meglio. Il futuro è già iscritto presente. Il futuro è adesso.

Facile a dirsi, difficile a farsi. Un disco che resti nelle menti e nei cuori. Con le sue dovute novità e variazioni sul tema. Oggigiorno può sembrare scontato. Alcuni artisti, più o meno quotati, hanno deciso di addentrarsi in nuovi suoni che hanno maggiore “appeal”, da tradurre sempre e solo in soldini, snaturando le loro carriere. Anche all’interno della scena elettronica. Per altri, invece, non occorre “riciclarsi”, perché le idee non sono mai venute meno. Anzi. James Holden – fondatore della psichedelica etichetta Border Community che annovera ricercati artisti del calibro di Extrawelt, Fairmont, Nathan Fake e Petter – ha sopraffina classe da vendere. A partire dai suoi teneri 19 anni, armato di software gratuiti, non è poteva essere considerato l’ “outsider” di turno nel panorama underground londinese, perennemente in bilico tra techno e progressive house. Era già sufficientemente visionario. Per remixare brani dei Depeche Mode, Madonna, New Order. Per innestare una spina dorsale costituita di ferreo minimalismo berlinese. A 26 anni suonati realizza la “summa” dei suoi ingenti sforzi concentrati in soli 45 minuti, imbevuti di fantasia ed inventiva assolutamente fuori dall’ordinario. Di fronte all’inequivocabile arte moderna c’è poco da commentare, molto da ascoltare. E da imparare. Geneticamente, gli inglesi, così come i tedeschi, sono i padroni incontrastati e incontrastabili. Hanno una marcia in più, attingendo in un altrove metafisico di suoni già plasmati e re-inventandoli con vigore e “sapientia”. Il punto di partenza è qui decisamente minimale, il risultato finale, però, è scarsamente collocabile. Terra di nessuno? The Idiots Are Winning è in bilico tra sperimentazioni e dinamismi vari, appagabili entrambi per un ascolto anche casalingo. Perché introversi ma, pur sempre, schizoidi da lasciar tracce indelebili per ogni singola nota. Miracolo divulgativo? Le sempreverdi “belle speranze” divengono tangibili certezze. La lezione di Aphex Twin e Murcof è stata ben recepita. Frammentando e componendo qualcosa di davvero nuovo: sintesi integrativa di schegge impazzite e scintille urticanti. Micro-beat? Eterogeneo a tratti. Impressionante è la maestria nell’intrecciare distorte voci, deliranti sirene, astratte melodie d’aere in un gioco che sembra non avere fine. Sincopato e incalzante. Non tralasciando la possibilità d’inserire qualche pausa di tanto in tanto. Comunicando la grandezza del vuoto.

Un colpo in un istante. Lump. È come penetrare nell’altrui claustrofobico incubo a forma di tunnel e non riuscire più ad uscirne perché tanto intimoriti, quanto stupiti. Un crescendo di rumori storpiati, infermi, soggiogati da una sorta di cantilena frastornata. È all’apice del caos che il ballo incontra lo sballo da cameretta attraverso suoni acidi che non c’è bisogno di ecstasy. Trattasi di pura manomissione di apparecchi elettronici, sottomessi, piegati, alle sapienti mani di un indottrinato dj. Il brano possiede pesante dinamica e prepotente volume: vivide distorsioni della trama si muovono sotto l’incessante calpestio ritmico. I venti secondi Quiet Drumming Interlude introducono la seguente 10101, sfaldata in milioni di particelle glitch. Tonalità morbide ed altamente fascinose, che non sfigurerebbero quale colonna sonora di un film di fantascienza. La sghemba decostruzione melodica si richiama ai primissimi lavori dei Boards Of Canada, salvo poi irradiare le frequenze medie di una sublime orchestra di bollicine, immaginando di ritrovarsi nel bel mezzo delle profondità abissali, immersi al buio, e fra brulicanti microscopici esseri sconosciuti. Corduroy, intrisa del fascino dei videogame d’antan, è indiscussa stratificazione sonora proiettata in uno limbo estraneo, tra frizzanti tastiere ed egregi fruscii. Una battaglia spaziale combattuta a colpi di raggi laser che lascia poi spazio all’inquietante ambient di Flute, esangue thriller lacerato da rapide ed affilate rarefazioni sonore, saturato progressivamente da distorsioni e feedback. All’improvviso irrompe Idiot: techno minimale dall'inaspettato affondo lirico e dall'elevato tiro epico, inverosimile melodramma per psicotici e stravolti synth, vale a dire, sette minuti di puro delirio orgiastico, d’implacabile tensione portata al limite, per un beat martellante ed ossessivo che assume i contorni da charleston e il rincorrersi di scale senza fine, ricordando un clavicembalo medievale. Acutissimo. James Holden è al limite ed, infatti, Lumpette, versione a cappella di Lump segna lo stacco, confermato anche con Intentionally Left Blank. Due minuti di silenzio assoluto, ennesimo segnale di libertà di un disco senza limiti. Una dovuta cesura per marcare idealmente l’ostico epilogo in due pezzi. Dai tamburelli ossessivi di Idiot Clapsolo a quelli implosi di Quiet Drumming in chiave Vegetable Orchestra, iscritti all’interno di un lavoro entusiasmante che, per l’ennesima volta, dimostra che persino le drum machine sono in grado di trasmettere appaganti, intense emozioni, se ben manovrate. James Holden rievoca, tecnicamente, seppur in ordine sparso, tutte le suggestioni dell'elettronica sperimentale dei tempi recenti e le fonde in un suono mutante e versatile in grado di travolgere anche ascoltatori non particolarmente avvezzi a cotante sonorità e di sorprendere i più scafati: è di dischi come questo che si nutre la feconda storia dell'elettronica, capaci di condensare genio musicale e talento melodico, amore per la sperimentazione ed eclettismo. Incontaminato.

 
 
 

Post N° 96

Post n°96 pubblicato il 30 Giugno 2007 da Nekrophiliac
 
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PLANET FUNK: THE ILLOGICAL CONSEQUENCE (2005)

Ipse dixerunt. « I Planet Funk hanno fatto un cammino diverso da molti altri musicisti che partono dal rock e lo contaminano con la house e con la club culture in genere. Per noi è stato il contrario, abbiamo portato il rock dentro la musica da ballo, nel dancefloor. E' un esperimento coraggioso, frutto del nostro DNA musicale a testimonianza della nostra crescita. Siamo veramente soddisfatti del lavoro che abbiamo fatto per questo disco. Ci siamo accorti di essere cresciuti, perché tutto è avvenuto in maniera spontanea. Siamo sicuramente più soddisfatti del lavoro precedente, non solo perché quello che finisci ti sembra sempre il lavoro migliore, ma anche perché è veramente il prodotto della band. C'è compattezza, non è solo una raccolta di canzoni come era successo per l'esordio ». The Illogical Consequence (2005) è un omaggio all’uomo, nonché un singolare groviglio di tecnologica umanità e compenetrante espressività. Non più un insieme di brani intesi come potenziali singoli, bensì un sentiero nelle anse della musica strumentale, spesso associata a dense linee vocali, che contraddistingue il giorno dalla notte. Luce e buio. Perché The Illogical Consequence? « Il titolo esprime un concetto molto ampio che non si limita al solo disco. Le cose più significative sono quelle che non vengono progettate a tavolino, bensì frutto di illogiche e impensabili conseguenze. Le illogiche conseguenze sono effetto di istanti, di momenti colti e sviluppati. Questa è un po’ la storia del disco, ma anche di quanto è successo all'uomo. Qui si parla di ecologia e di tecnologia, due elementi che possono coesistere. Anche il video di Stop Me è basato su questi elementi, lo abbiamo girato in Cina, nella più grande discarica di computer al mondo. È un posto incredibile, altamente inquinato, intorno al quale si è creata una comunità che vive su questa discarica. Il disco vive sulle paure, gli errori e le ossessioni del genere umano che nonostante tutto resta arbitro del proprio destino ». La nuova musica globale nasce a Napoli, in via Posillipo, nello studio panoramico che affaccia sul golfo. Il breve, ma intenso, percorso musicale dei Planet Funk li ha visti imbattersi in una moltitudine di generi, perennemente in bilico, fra dance, trip-hop e pop elettronico. Un progetto ambizioso? Marco Baroni, Domenico GG Canu, Sergio Della Monica ed Alex Neri sono riusciti nel loro intento: a seguito del fortunato esordio di Non Zero Sumness (2002), The Illogical Consequence (2005) finisce per essere un vero prodotto d’esportazione. Di musica internazionale. « Non ci interessano i confini. La nostra musica trova i suoi riferimenti più immediati fuori dell'Italia. All'estero però abbiamo una caratteristica "nazionale" che ci fa riconoscere immediatamente come band italiana. Ci fa piacere, non lo consideriamo certo un limite, d'altronde succede lo stesso con tutti gli altri artisti, pensi immediatamente a quella che è la cultura di provenienza, anzi ne vai a cercare le peculiarità ». I Planet Funk, a tal riguardo, continuano a beneficare delle altrui voci, scegliendo, di volta in volta, quelle più appropriate ai loro intenti creativi. « Rispetto al disco precedente Dan Black canta solo in tre brani. I rapporti con lui sono ottimi, ma noi siamo un collettivo aperto e, tra tutto il materiale che avevamo con la sua voce, queste tre canzoni sono quelle che meglio si adattano al concetto e allo spirito del disco. La voce di Dan è "importante" e può penalizzare le partiture musicali, non volevamo che questo succedesse. Per il resto abbiamo lavorato con John Graham, un DJ cantante inglese al quale è piaciuto il nostro progetto, e Sally Doherty, che già appariva nel primo disco. In due album abbiamo allineato sette cantanti a dimostrazione del fatto che non esiste una voce unica per il gruppo ». Solida dichiarazione d’intenti.

Giungla Sud. Ipnotica ed oscura, Movement Is Noted è la naturale introduzione ad Everyday, ovvero la sintesi della semplice magnificenza sonora e lirica: chorus irresistibile e preziosa tastiera a scandirne l’incedere. Improvvisa esplosione?

 Per forza di cose, è stato un singolo di successo che ha fatto il pari con Stop Me, divertente “tormentone estivo” di due anni fa che fungeva da colonna sonora allo spot della Coca Cola, dove si possono riascoltare le colorate nonché vivaci atmosfere degli anni 80 del secolo scorso: questo è il trademark dei Planet Funk, più unico che raro, che si ricollega direttamente alla orecchiabile produzione precedente.

Con la placida Trapped Upon The Ground, subentra un clima calmo, mentre è la voce di Dan Black a farla da padrona. Il cambio di marcia, però, è immediato con una dinamica Come Alive. Le varianti del disco rendono il lavoro così disomogeneo che bisogna ascoltare una traccia più volte per poterla comprendere a fondo. Si prosegue con la distesa Laces, esperimento folk, sempre su piacevoli livelli. La altrettanto gradevole ballata acida con disturbi elettronici, corroborata all’interno da un’anima spontaneamente commovente, quale è The End finisce per essere la linea di spartiacque con quanto di ottimo giungerà con Ultraviolet Days e Tears After The Rainbow. Se la prima è un intermezzo lento e malinconico seppur morbido e avvolgente, la seconda assurge a vero e proprio capolavoro dell’intero lotto. Calma apparente mediante sapienti tastiere surrogata ad improvvise sfuriate elettroniche, lasciando l'impressione di chi abbia intenzione di distaccarsi, comunque, dal filone più dance che aveva caratterizzato il precedente album per orientarsi verso un sound diverso, più vicino al rock elettronico. E non è tutto. L’uomo è artefice primo del proprio destino e The Illogical Consequence celebra, a suo modo, l’eccezionalità della mente umana e la sua capacità di modificare la realtà. Una traccia particolarmente interessante e che chiama alla riflessione sulla condizione dell’essere umano è proprio la nona traccia: « Tears After The Rainbow contiene un campionamento estratto da un documentario/intervista con Oppenheimer trasmesso dalla BBC nel 1965, in cui il fisico piange e riconosce il suo errore: aver costruito un mostro come la bomba atomica. Questo ci ha fatto riflettere sul potere che la mente ha, dell'uso che se ne può fare, nel bene e nel male, dell'illogicità dei suoi percorsi ». Una canzone di pace con un innesto angoscioso come l’ammissione pubblica di colpa di Oppenheimer, vessillo della potenza e della creatività della mente umana impiegate per fini non propriamente nobili, se considerate le innumerevoli innocenti vite spezzate. Un “a cappella” azzeccato e di forte impatto che sa di miseria e smarrimento, genuino ravvedimento. Le sorprese di Illogical Consequence non finiscono qui, perché un esperimento tanto particolare, quanto convincente è prossimo: una voce sintetica scandisce fiumi di parole per Inhuman Perfection, evocativa composizione d’atmosfera distesa su un raffinato crescendo armonico. La voce è della nota attrice Claudia Pandolfi che recita la parte di un’avveniristica donna in un futuro in costante mutazione : « la conosciamo da parecchio tempo (tramite Sergio Della Monica) e con lei volevamo collaborare in un video. È venuta a trovarci in studio durante la lavorazione, comprendendo e apprezzando lo spirito dell'album. Noi cercavamo qualcuno che potesse prestare la sua voce a un recitato nel brano Inhuman Perfection. Lei era ideale. La sua voce poi è stata "lavorata" ed è irriconoscibile ». Peak, arrembante e tirata, annovera, piuttosto, nuovamente la voce di Dan Black, mentre, invece, in Dusk ritorna quella già conosciuta ed apprezzata su Non Zero Sumness (2002) di Sally Doherty, per una canzone impostata al pianoforte, prima di esplodere con notevoli propagazioni rock. La sontuosa ed affascinante conclusione di un viaggio psichedelico ovattato è affidata ancora a Dan Black – un po’ meno “scomodo ed egocentrico” rispetto al passato, ma sostituito pienamente dalla duttile ed estremamente poliedrica voce di John Graham che concretizza le tecnologiche visioni eteree del “suono Planet Funk” – con Out On The Dancefloor, soltanto che qui la sua centripeta personalità è ben mitigata da una forte componente sonora, che detta le regole dell’emozione per chi ascolta. Pollice rivolto verso l’alto per i Planet Funk. L'ennesimo.

 
 
 

Post N° 95

Post n°95 pubblicato il 31 Maggio 2007 da Nekrophiliac
 
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U.N.K.L.E.: NEVER NEVER LAND (2003)

Strategie dell’universo. Trascorsi cinque anni. E l’abbandono di DJ Shadow, rimpiazzato dal “manipolatore” Richard File e dal produttore Ant Geen. Capeggiati dal DJ di fama internazionale, James Lavelle – in precedenza, critico per la rivista di musica jazz Straight No Chaser, poi fondatore dell’etichetta Mo Wax – gli U.N.K.L.E. riuscivano nel imprimere il soffio della vita entro un nuovo corpo, di dodici tracce. Musica innocua. Per i giorni di pioggia. Costante il ricorso a campionamenti, di rimando hip-hop, e a pulsazioni house, intermezzi “seminali”, oltre che a voci metalliche racchiuse in dimensioni parallele, suoni magnetici, talvolta palpitanti, sino ad inattesi estatici inserti orchestrali. Qui iniziava un nuovo tortuoso viaggio all’interno di una siderale “terra di nessuno”, dove non è necessario attingere agli stereotipi del rap o far ballare a tutti i costi. Conta soltanto l’interessante e dettagliata musica, pronunciata in complicate cosmiche alterazioni. Un’ora di elettronica sperimentale, seppur tetra. Immancabilmente mai noiosa, né tanto meno ripetitiva. Coinvolgente sin dai primissimi ascolti, a conferma della genialità del suo mentore. E se Psyence Fiction (1998), brillante disco d’esordio, aveva finito per esser maggiormente “orientato” dalla personalità di DJ Shadow, in Never Never Land è James Lavelle a lasciare il segno poiché, pur facendo sì che la “struttura” – fondata su particolari campionature e sulle voci di altrettanti rinomati “ospiti” – restasse pressoché immutata, è il sound ad esser stato premiato e supportato dalla tradizionale composizione di testo e musica di pari passo. Per una natura obliqua, che si nega alle mode leziose del momento, seppur attingendo a piene mani a talune sonorità che, non a fatica, si potrebbero definire “cool”. Dunque, un disco “compiaciuto”, che non si vergogna affatto di esserlo. Volutamente e forzatamente scaltro in termini di melodie, Never Never Land è impreziosito, per di più, quanto all’estetica e ai contenuti, da soluzioni compositive, spesso manieristiche ed accademiche, che riescono a non “appesantire” l’atmosfera che pervade l’intero “progetto”, davvero ben amalgamato. Un violaceo crepuscolo lunare al di sopra di una brulla landa desolata, disturbato da macchinosi suoni propagati da seducenti spaziali alieni – con il cranio a cono e le orecchie a punta – così come sapientemente rappresentati in copertina, talvolta dolci, spesso malinconici e, comunque, quanto mai evocativi.

Fatiche della psiche. La parola “inizio” è incisa nella chiave drastica dell’introduttiva Back And Forth: « (I don't like to be back). You see things in life. And you're bit surprise what you see. Life, your whole life, is changes. You go through changes in your life. One second you've got it made. Next second you're down in the dumps. And it goes back and forth. Throughout your whole life. One second you've got the most beautiful girl in the world. Next second you don't even have a girlfriend no more. And it goes back and forth. And back and forth, you known. And this is life man, it's changes. This is what you gotta go through throughout your whole lifetime. I'm going through changes. I'm going through changes. I'm going through changes. And it goes back and forth. And back and forth, you known. Never, never, land ». Spetta poi alla lisergica e fredda Eye For An Eye aprire le danze.

Seguita a ruota da In A State, introdotta da una plastica sequenza di note eseguita al pianoforte e dalla voce di Graham Gouldman dei 10cc, ribadendo fortemente la presa di distanza dalla predominanza di matrici hip-hop del disco precedente, proprio perché trattasi di reiterate battute dance. Lenta e compressa, Safe in Mind (Please Get This Gun From Out My Face) annovera Josh Homme dei Queens Of The Stone Age, come vocalist d’eccezione. Riuscitissima apparizione. È assolutamente il momento più estroverso ed estremo del disco, per il semplice motivo che il carisma dell’ospite ha traviato il “suddito” James Lavelle se considerato che il suono rimanda a squilibrate sperimentazioni stoner. Il vero pregio di James Lavelle resta quello d’aver saputo amalgamare influenze e stili così enormemente diversi in un disco ammaliante, soprattutto se le collaborazioni non finiscono qui. In I Need Something Stronger tocca, stavolta, a Brian Eno sfoderare sintetizzatori ambient per scoprire labirinti psichedelici. La seguente What You Are To Me ? risulta godibile nel complesso, anche se, a priori, era difficilmente auspicabile la presenza disco una simile traccia: è come una misteriosa porta che si apre al crepuscolo. Pop britannico permeato d’innata armonia, in un insolito connubio di beats e orchestrazioni. Niente è impossibile. E le aspettative non sono tradite. Never Never Land s’appresta a divenire pietra miliare di un genere “borderline”. Anche Panic Attack è magistralmente “incantata” perché fondata sui campionamenti di She’s Lost Control dei Joy Division e Variation III Sur Le Théme De Bene Gesserit di Richard Pinhas. Eppure, la vera traccia spartiacque è Invasion. Le melodie, e spesso e volentieri anche le sonorità, sono, per l’appunto, “veicolate” dall'ospite di turno, proprio come un virus contiene “in nuce” una malattia contagiosa. Ed è quanto manifestato, complessivamente, nell’ottava traccia. Invasion, titolo certamente azzeccato, vede all'opera Robert “3D” Del Naja, parte integrante dei Massive Attack, in una mancata canzone appartenente al “suo” capolavoro Mezzanine (1998). Nulla da aggiungere, sfavillante il “retrogusto” del trip-hop ipnotico delle ritmiche, così come piacevole è la voce dell’anglo-napoletano. E, senza alcun sobbalzo, un eccentrico ed ipnotico percorso è tracciato dai violini in Reign, cantata da Ian Brown degli Stone Roses, che rinvia l’ascoltatore a sonorità più da colonna sonora. Invece di impegolarsi nell’ennesimo inno alla frattura digitale, gli U.N.K.L.E., sino alla fine, hanno continuato a puntare su diverse soluzioni, dalla solidità rock, che qualche anno fa univa chi s’era allontanato dalla console per imbracciare la chitarra, fino alla sua controparte techno indolente e trasognata.

Nuova e coinvolgente ballata elettronica è Glow, trainata dalla voce di Joel Cadbury dei South. Una voce “maschile” al limite del “femminile”. Senza dimenticare, la conclusiva Inside ove, sradicate le fondamenta della dance, giunge il falsetto di Jarvis Cocker dei Pulp. Ciò che sorprende di Never Never Land, vero disco sopra la media, è che una volta giunti all’undicesimo e ultimo pezzo, il rapimento estatico è tale che automaticamente si è indotti nel riascoltarlo da capo. La vastità degli orizzonti nella musica degli U.N.K.L.E. contempla la possibilità di trasformare ogni fonte ed ogni campionamento impiegato nel fantasma di se stesso a favore di una deriva onirica corroborata da improvvisi vortici, rapidi breakbeats, nonché sprazzi di placida serenità che rischiarano le zone più fosche e scarsamente illuminate. È la dance ad esser spinta al limite dell’illusoria instabilità, per una decomposizione di forme che fa tornare alla mente la visione d’un aperto cantiere. Come sarà il prossimo disco degli U.N.K.L.E.?

 
 
 

Post N° 94

Post n°94 pubblicato il 30 Aprile 2007 da Nekrophiliac
 
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UNDERWORLD: EVERYTHING, EVERYTHING  (2000)

« Right not privilege for everyone, and there was a basic level of survival. For money that everyone was. Entitled to. There are no bad students: only bad teachers. The power to deal with it, so you have to make everything as clear cut and simple as possible so that people understand ».

È ciò che segue al timido vociare della folla sottostante al palco. Di lì a breve le prime note di una superlativa Juanita/Kiteless: è il inizio sospirato inizio di un tentativo apripista nel campo della musica dance, non più intesa ingiustamente come un fenomeno da luoghi al chiuso, bensì da luoghi aperti. Spazio alle parole dello stoico Karl Hyde, vocalist degli Underworld, nonché fautore di una visione dell’elettronica come musica libera, improvvisata, da arricchire di sempre nuovi suoni, recuperati a destra e a manca: « tutto è iniziato dall’idea di fare un DVD. Era interessante l’idea di sfruttare le possibilità multimediali che questo supporto offre. Quindi si è trasformato anche in un disco, una testimonianza, come dicevo prima. Ci siamo finanziati tutto da soli e siamo contenti che le case discografiche, vedendo il nostro lavoro, si siano convinte che questo genere di idea funziona e ne abbiamo prodotte altre. Everything, Everything è stato una sorta di esperimento apripista nel campo, perché solitamente la musica dance non viene intesa come un qualcosa suonare dal vivo. Tuttavia, tengo a sottolineare che noi siamo una live band: suoniamo dal vivo, non usiamo campioni e suoni preconfezionati. Se non fossimo stati un gruppo di questo genere non avrebbe avuto senso concepire un progetto del genere. Da questo punto di vista la dance – almeno quella che facciamo noi - è più vicina al jazz: improvvisazione, uso libero di suoni. Miles Davis, a suo modo, era un grande DJ. Queste analogie strutturali poi, almeno in parte, spiegano anche l’uso del jazz da parte dell’elettronica contemporanea. Oltre ovviamente al fatto che nel jazz ci sono suoni bellissimi e registrati benissimo: una vera manna per chi cerca samples da utilizzare per costruire un brano dance ». A fronte di ciò e sulla scia del successo di tale disco, nonché a seguito delle incredibili esibizioni in riva alla Manica, l’idea del disco dal vivo fece capolino nella testa di Norman Cook, al secolo Fatboy Slim, che pubblicò non uno, bensì due dischi a testimonianza dei grandi risultati di pubblico: Live On Brighton Beach (2002) e Beach Boutique II (2002). Davvero, niente male. Pochi gruppi, nella breve storia della musica elettronica, possono vantare un importanza seminale come quella degli Underworld. Assieme a gruppi come gli Orbital e The Orb, hanno trovato il loro migliore mezzo di espressione artistica nel “verbo” musicale sintetico e sono riusciti a trasformare il genere elettronico in un “faro guida” sonoro. Il linguaggio elettronico utilizzato dagli Underworld è quello della techno colorata da suoni ambient, acidi, funk e house, un “pout pourri” sonico a 360°, tuttavia, diversamente da altri gruppi a loro contemporanei, il loro stile punta alla minimale semplicità, al diretto impatto del suono sulla mente e sul corpo di chi ascolta, e questa caratteristica dona ai loro brani un’immediatezza inconsueta in un settore musicale che spesso eccede per troppa cerebralità e stratificazione sonora. In aggiunta a ciò, è certo che la cornice d’arte visivia di Tomato, progetto artistico legato al gruppo, rende un simil concerto praticamente un’esperienza indimenticabile. Astratte immagini in movimento sono riprodotte di continuo su enormi schermi, mentre Rick Smith e Darren Emerson sono alle prese con il loro “armamentario” elettronico e Karl Hyde si dibatte come un pesce appena pescato, tra palco e realtà. Mixer e turntables divengono, per forza di cose, strumenti come gli altri, per iun sound che al mero impeto visionario della techno aggiunge, all'occasione, la deterrente intrinseca forza delle chitarre elettriche. La tecnologia, dunque, si pone al servizio dell’arte per valorizzare un talento che, altrimenti, sarebbe rimasto sconosciuto ai più e, per giunta, inespresso.

Juanita/Kiteless è il brano d’apertura. Un inizio lento. Reiterato. Macchinoso. Un istante prima di un’esplosione di suoni e colori. Ed una profonda voce: « There is a sound on the other side of this wall. A burning singing on the other side of this glass. Footsteps concealed. Silence is returning a voice. Walking in the wind at the water's edge. Comes closer covering my rubber feet. Listening to the barbed wire, hanging. When you walk away. You should walk away. When you walk away. You should remember! ».

La versione realizzata per Cups è prettamente strumentale. Un ritmo incessante. Profondi colpi di tastiera su vivide sfumature aeree.

Perfetta congiunzione fra testa, mani e cuore: Push Upstairs. Direttamente connessa a Cups, si snoda attraverso un testo solenne. Gridato tutto d’un fiato. Marziale. Al pari della energia che sprigiona una traccia del genere sin dalla prima nota.

Alienanti brividi per una sola parola moltiplicata quasi all’infinito: « crazy crazy crazy crazy crazy crazY craZY crAZY cRAZY CRAZY CRAZY CRAZy CRAzy CRazy Crazy cr AZyCRazy c RazYCRaZYc rAzy craz yc Razycrazy cRA Zy cr A  Zy CrazycRazycrAzycraZycrazY cRa zycr aZYcrAzycrazyc raZy cr Azy crazycraZY c raz YCraZy c raz ycRazyCraz ycr a  Zycrazy cRazy crazycrazyc razycrAZy CRAzy c r A z YCrazy cRazyCRAzY crazYcr azyCraZyCrazy cRAzy crA zyCRaz yc r azY cRazYcRAZyCrAzyCRazY c rAZYCRaz yC raZy cRaz y CraZy CRAZY crazy crazy crazy cRazycrazYC razy cRazy c raZycrA zycr AzyCraZY CRAZYcraZycrazy cr  AzY  crazYCrazy C r azycRazyCrazY c r azyCRAzYCrAz ycrazycRaz ycraZy Cra zy C raz ycRazy craZYCrAzycr azy  cRAz y cRAZycraZyCraz ycrazY craZyc raz ycra Zy cRAzyCRazy crAz ycRaZYCRAzycRa zy cr azy c raz Y cRAzYCrazy c rAzycrazyc RAZY CRazycrAzyc razyCRa zy cr azy crazy crazy cRAzyCRAzy crazyC razycr a ZYcraz ycRazy crazyCRaZycrazYcRAZycraZY crazy CrA z ycra ZY c rA zYcr azy craz y crazYcraZYCRAz y c razYCr azycrazy crazy cra ZYCraZy CrAzyc ra zYcrAzy cRAZY CRAZY CRAZY CRAZY CRAZY CRAzy cRazy c rAz YCrAZ yc Razycr azycrazycr AZYcrazycraz y CRAZY CRAZY CRAZY cRAZyC ra zyc razy cr azyCrazYcrazYCrazycr azy craZ y c RAZYC razycr azy crazy crazYcRazy crazy cRAZycrazy c razy ».

Pearl’s Girl è oscura nel suo devastante incedere. Frammentata in più strofe. Seppur magica al contempo. Con Jumbo si torna su linee melodiche più dolci. Una sorta di caldo e rosso Sole immerso in un verde bosco rigoglioso, prima che un ventoso vortice crei scompiglio.

Esatto. Shudder/King Of Snake è la sintesi della musica degli Underworld: velocità e vivacità rapportate al suono, potente e cadenzato, mai frivolo ed ossessionante al tempo stesso.

Finché, al rallentare della scrosciante musica, un instancabile Karl Hyde, in piena trance agonistica si lascia andare in un cantato inedito, un’aggiunta lirica non prevista: « Glass come down between us. Glass come and wrap around us. Glass come down and wrap around. Glass come all around us. Far and ahead between us. Ah come on snake! Hey hey hey hey. Come on snake! Hey hey hey hey. Come on snake! Hey hey hey hey. Come on snake! Hey hey hey hey. Come on snake turn to one. Come on snake turn to cry. Come on snake through the ground. Through the ground through the treetops. Come on snake turn to one. Come on snake turn to cry. Come on snake through the ground. Through the ground through the treetops. Come on snake threw me down. Come on snake all around. Come on snake threw me down. Come on snake threw me down all around all around. All ahead... ». Da pelle d’oca.

Ecco, direttamente dalla maestosa colonna sonora d’un film d’epoca, assunto a manifesto degli anni ’90, quale Trainspotting: Born Slippy [Nuxx].

Una sferzata di tristezza rapportata all’intensità dell’insieme di suoni che pare aver rivoluzionato l’approccio alla dance per un’intera generazione. Gli Underworld esprimono qui tutta la loro maestria sonica, da un lato nel “trattare” i suoni elettronici e dall’altro nel creare una sequenza musicale coinvolgente e mozzafiato. Chiusura affidata a Rez/Cowgirl.

 

E se la prima parte strumentale ammalia, strabilia il subentrante folle testo: « EvErYtHiGeVeRyThInGeVeRyThInGeVeRyThInG... I'm invisible. And a razor of love. Why don’t you call me I feel like flying in too. And a razor of love. Why don’t you call me I feel like flying in too. And a razor of love. And a razor of love ».

In conclusione, Everything, Everything finisce per essere un concentrato di puro entertainment. Signore e Signori, questa è classe. Meglio di qualsiasi droga.

 
 
 

Post N° 93

Post n°93 pubblicato il 31 Marzo 2007 da Nekrophiliac
 
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BOARDS OF CANADA: TRANS CANADA HIGHWAY (2006) 

Il suono ai confini del suono. Dai Chemical Brothers ai Boards Of Canada: Michael Sandison e Marcus Eoin Sandison, per davvero fratelli, giungono, con elettronico furore, da Edimburgo, Scozia, e già da più di dieci anni producono ottima musica, estatica e ammaliante, divenuta ormai un marchio di fabbrica, spesso imitata, mai effettivamente eguagliata. I Boards Of Canada, musicalmente parlando, nascono e crescono, in quanto, familiare duo circondato dagli strumenti dei genitori e da due registratori, intorno alla metà degli anni ’80 del secolo scorso, auto-producendo i propri lavori su rudimentali musicassette d’altri tempi – registrando uno strumento su una cassetta, poi ascoltando questa mentre suonavano un altro strumento, ovviamente con l’altro registratore che registrava il tutto – e in seguito, sotto forma di gruppo allargato a terzi, compiendo la giusta gavetta e la consueta trafila nel mondo underground, sviluppando quel loro tipico gusto per un suono indefinito, comunque caldo, pieno zeppo di disturbi e fruscii analogici vari. Al di là di ben sette releases, di cui solo l'ultima in ordine cronologico è reperibile, cioè Twoism (1995), sotto Music70, label fondata dagli stessi Michael e Marcus Eoin, il passaggio prima a Skam, pubblicando l’EP High Scores (1996) e poi definitivamente all’etichetta “di tendenza”, Warp Records – che annovera Aphex Twin, Autechre, Nightmare On Wax e Squarepusher tra gli artisti del suo catalogo – segna inevitabilmente il lancio dei Boards Of Canada sul mercato, consacrandoli oggi come uno dei nomi più importanti in ambito di elettronica. A quel punto, ed è storia abbastanza recente, il mondo si accorge di loro e dei successivi capolavori Music Has The Right To Children (1998) e Geogaddi (2002). Al termine di una lunga pausa triennale, è pubblicato The Campfire Headphase (2005), in parte sperimentale, supportato da accordi di chitarra suonati in studio e non campionati, che, forse, ha un po’ deluso l’attesa. Il duo scozzese mai domo, oltretutto devoto alla new wave più elettronica, evidentemente, ha deciso di proiettare i propri intenti in chiave cinematica con un nuovo EP, deviando il corso del loro suono per l’ennesima volta. La sensazione è stata comune a molti: i Boards Of Canada, con il recente e penultimo lavoro, avessero non solo depauperato in parte le felici intuizioni e la vena creativa che da sempre li ha contraddistinti in positivo, ma anche inseguito – senza successo – nuove potenziali sonorità. Invece, Trans Canada Highway li riconduce su percorsi a loro molto più congeniali, attraverso un’elettronica dal forte impatto ambientale e un’attitudine che richiama quella di molte band post-rock. The Campfire Headphase (2005) li aveva visti adottare un mood più introspettivo, se possibile, rispetto ad una antecedente discografia quantomeno vivace, Trans Canada Highway non segue del tutto la stessa “autostrada” stilistica, e, a conti fatti, risulta essere ancora un disco “strumentale”, nel senso letterario del termine, considerato che in taluni tratti emerge perfino la sinfonia.

La frontiera scomparsa. Trans Canada Highway si accoda alla già nutrita discografia dei Boards Of Canada sette mesi dopo il full-length The Campfire Headphase (2005), eppure bisogna tornare a Geogaddi (2002) per poter schematizzare la successione ininterrotta di concetti che ne contrassegna alcune delle rappresentazioni mentali di fondo: all'epoca, invero, con il sostegno del presidente della Warp, Steve Beckett, il duo progettò e realizzò tale disco, in modo che avesse una durata pari ad esatti 66 minuti e 6 secondi. Una presa in giro per gli ascoltatori che temevano la presenza del Maligno. A siffatta durata seguiva il numero 23 delle tracce presenti, presupposto logico che prevede che 2\3 equivalga, ovviamente, a 0,666. Un ulteriore scherzo era conferito dalla versione giapponese dello stesso Geogaddi (2002), la cui bonus track From One Source All Things Depend, conteneva samples di bambini che discutevano su chi\cosa fosse realmente Dio. Trans Canada Highway, EP di 6 pezzi, è stato, suo malgrado, pubblicato il 6 maggio 2006, anche se la data prefissata per l'uscita era originariamente il 06/06/06. Tuttavia, al di là della singolarità dei numeri e della curiosità della cabala – architettata dal duo – accompagnate da un buffo quanto innocuo messaggio subliminale, maggiormente consistente appare il legame sotteso fra The Campfire Headphase (2005) e, appunto, Trans Canada Highway. Perché simil titolo? L’intero EP è un concept sul viaggio di mezz’ora, in autostrada per le vaste terre canadesi, esattamente da St. John’s a Victoria. In apertura, dunque, maggiormente in rilievo è posta una estesa laguna di inesplorati suoni, generatrice di acquosi mulinelli fluttuanti, a più orbite. Vero e proprio vortice liquido, a una manciata di istanti da un tuffo al cuore. Dayvan Cowboy, in versione rimaneggiata rispetto quella presente su The Campfire Headphase (2005), è la classica traccia che fa gridare al miracolo: un’esplosione di feedback smembrati nella ionosfera che si trasforma in una lenta panoramica su un brullo panorama.

Il videoclip “in caduta libera”, il primo in assoluto della carriera dei Boards Of Canada, è stato diretto da Melissa Olson, assistente cinematografica canadese, che ha selezionato plastiche immagini di skydive che coniugano perfettamente l’offerta sonora che nel corso degli anni hanno destabilizzato i due fratelli: vocazione disorganica dell'elettronica per niente nobile e, piuttosto, tesa all'introspettiva ambient; strutture dei brani più convenzionali e supporto di strumenti veri – in questo caso chitarre acustiche filtrate. Dayvan Cowboy prevale senza dubbio sulle seguenti cinque tracce qui proposte, tanto per il particolarissimo effetto di "rielaborazione in chiave sintetica" di peculiarità principalmente rock quali artefatte distorsioni, così come per l'accentuato tasso melodico, che rende piacevolmente scorrevoli i restanti venti e più minuti di algide ed espanse atmosfere in piena forma Boards Of Canada, tra “cinematografici” echi e psicotici avvitamenti. Trans Canada Highway presenta, al di là del fortunato brano Dayvan Cowboy in ben due versioni, una quaterna di brani deputati a connotare molteplici e susseguenti short-cuts di umori ambientali. Una levigata e minuziosamente lavorata Left Side Drive è in odor di classico da ben altra collocazione, non da EP. Heared From The Telegraph Lines e Under The Coke Sign finiscono per esser due gracchianti interludi da paesaggi erbosi sintetici, e infine la frammentata ed eterea Skyliner riporta l’ascoltatore alle dense sonorità di Sixtyniner con fondi pulsazioni di fibrose percussioni. A seguito dei curati remix realizzati per Beck e cLOUDDEAD, quest’ultimo, sotto le spoglie di Odd Nosdam, ricambia il favore: la sua versione di Davyan Cowboy, nove glaciali minuti di durata, mette in risalto una sorta di mantra centrale, a colpi di ritmiche hip-hop. Originale, diametralmente diversa rispetto le altre. Il ritorno dei Boards Of Canada e del loro “melting pot” sonoro così si chiude. In bellezza.

 
 
 

Post n°92 pubblicato il 28 Febbraio 2007 da Nekrophiliac
 
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CHEMICAL BROTHERS: COME WITH US (2002)

Fino in fondo. L’ebbrezza causata dall’eccessivo uso di ecstasy e il ricorso a sottofondi acid house, da Manchester (al tempo “Madchester”), tra gli anni Ottanta e Novanta, si diffusero a macchia d’olio, e ben oltre i confini isolani del Regno Unito. Ed Simons e Tom Rowlands erano e risultano ancora esser i figli naturali di quel tempo. Infatti, i fratelli chimici non potevano che nascere artisticamente nella caldissima seconda Summer Of Love, al tempo dei primi “rave parties”. Quando i britannici New Order fecero propria la lezione dei teutonici Kraftwerk, filtrandola attraverso la house che arrivava dall’America, finendo per influenzare gli stessi musicisti e dj statunitensi di Detroit; quando il rock britannico veniva infettato dal virus della nascente club culture, con effetti sorprendenti, i due erano lì a prendere un bel po’ d’appunti: pronti a sonorizzare e sconvolgere l’incombente ultimo decennio dello scorso secolo. E proprio così agirono i Chemical Brothers: uno, due, tre album in sei anni, lanciando sul mercato una vera e propria “griffe”, indelebile parte della storia della musica, elettronica e non. Con Surrender (1999), trainato da singoli quali Hey Boy, Hey Girl Let Forever Be e Out Of Control, raggiunsero il loro apice creativo: nient’altro che la sintesi perfetta tra beats chimici, visioni psichedeliche e una matura sensibilità pop. Il successivo Come With Us ripropone la formula collaudata e vincente del suo predecessore. Il perché è semplice: Tom Rowland ed Ed Simons possedevano e possiedono il dono di maneggiare la primordiale materia tecnologica con sorprendente naturalezza, piegandola ora al volere del classico big-beat – caro al suo massimo fautore, cioè Fatboy Slim – ora ai dettami del chill-out più aggraziato, ora strizzando l’occhio agli appassionati di rock. Non c’è da stupirsi, quindi, se Come With Us conquista di primo acchito e si lascia ascoltare e riascoltare con crescente soddisfazione. Dieci brani per quasi un'ora di musica, caratterizzata dalla consueta cura maniacale per ogni singolo suono, ogni oscuro campionamento, ogni minimo effetto. Eppure, è passata molta acqua sotto i ponti dalle prime mosse del chimico duo, dai promettenti esordi fino al successo e alla consacrazione definitiva. Conservare ancora spontanea energia è una grande dote, proprio come saper ricorrere all'acida effervescenza a partire da un’ispirazione troppo omogenea. Sarebbe facilmente alla loro portata costruire album comunque più organici, maggiormente ricercati e solidi nell'impianto dei suoni presi a modello, ma non è questa la loro intenzione. I Chemical Brothers, proprio in ragione di ciò, possono vantarsi di aver davvero influenzato la musica elettronica moderna, grazie alla loro alchimia di suoni duri e soffici, sognanti ed ipnotici. Uno stile che pervade anche tale lavoro in esame, impreziosito dalla partecipazione di vocalist d’occasione quali Beth Orthon dei Portishead e di Richard Ashcroft dei Verve.

Al limite dell’onirico e del surreale. Come With Us è un album decisamente "dance" che ugualmente non rinuncia a raccogliere vere e proprie "canzoni", piuttosto che pure e semplici "tracce". Ciò che è ben "visibile" in ciascuno dei brani che compongono l'album, è una ricerca costante della melodia più pura, sebbene generata da strumenti elettronici, anzi arricchita in modo tale da raggiungere vette insondabili per gli strumenti musicali tradizionali. Bisogna dare atto ai Chemical Brothers, che aggiungono quel “quid” in più alle melodie, non vivendo per niente di rendita, come potrebbe essere normale per coloro i quali hanno da tempo raggiunto importanti vette di suono. Si spingono verso l’infinito e oltre. Tom Rowlands e Ed Simons si sono riscoperti inguaribili innamorati della dance tout court, dei suoni sintetici e della cassa in quarti di derivazione house. L'album è meno ambizioso di quanto si possa pensare, poiché lascia da parte i richiami alla musica contemporanea, e bensì vira deciso verso la dance più audace, attraverso un massiccio breakbeat: Come With Us è molto meno sfaccettato di Surrender, decisamente psichedelico. Forse l’unico difetto imputabile è la mancanza di singoli di vero impatto. L’impressione è che la produzione sia sostenuta da uno spirito contemporaneamente iconoclasta e tradizionalista nella continua proposizione di tutta una serie di matrici compositive che coprono storicamente – sia pure con estemporanee citazioni tra campioni e campionatori – l’intero arco delle formule inventate nel campo della musica elettronica degli anni Novanta, tanto sul versante più popolare, che quello propriamente underground. È proprio in questa singolare tensione tra due modi di intendere la fruizione della musica dance – che riflette a pieno il suo duplice scopo cioè radunare le folle nei club e dar modo di far vibrare le mura casalinghe di ognuno di noi – in questa ambiguità irrisolta, che gli odierni Chemical Brothers hanno finito per esser snobbati dagli intransigenti puristi, nonché datati, sostenitori, affezionati, semmai, maggiormente ai loro primi spartani lavori. Come With Us, in tutto questo, non ha deluso le aspettative dei normali ascoltatori di musica, dance e non, desiderosi entrambi di ritrovare all’interno dell’atmosfere di taluni pezzi progressive quei frenetici impulsi e quellle fredde sferragliate di elettronici intrichi in pieno stile tedesco, ed anche il giusto feeling dell’acid house dello scorso decennio o il diletto oramai perso della nobile arte dello scratch, proprio come una manciata di scampoli di pura armonia.

Sublime bellezza elettrica. L’apertura, di prepotenza, spetta alla title-track: la lampante prolusione di scale di Come With Us è un invito a seguitare nell’ascolto dei Chemical Brothers, ed inizialmente è un sound suggestivo a propagarsi nello spazio, sospinto da archi sintetici e da una profonda voce, che precedono l’urto usuale del drumbeat miscelato a riverberi psichedelici, vero marchio di fabbrica della ditta. Non c’è niente di meglio per far sì che l’ascoltatore si sintonizzi sulle giuste frequenze. Siamo poi in presenza di uno degli episodi più riusciti del disco, cioè il primo singolo It Began In Afrika, brano dal martellante battito tribale, ulteriormente ritmato da un campionamento che non passa inosservato. I Chemical Brothers hanno qui preso in prestito il cut-up tra I Believe In Miracles delle Jackson Sisters e Cross The Tracks di Maceo & The Macks, remixato da Norman Cook, alias Fatboy Slim, nel 1998 per la casa discografica Urban. E proprio questo sapiente mix di "autentico" e "sintetico" costituisce sicuramente una delle cifre stilistiche più riconoscibili del duo, che non ha mai disdegnato brevi e fugaci flirt con sonorità e atmosfere rock. Con Galaxy Bounce è la house dal basso elettro-funk ad essere riportata fortemente in auge: ottima per incendiare l’aria in affollate piste da ballo, lanciando nella mischia qualcosa della storica hit Pump Up The Volume dei M/A/R/R/S. Implacabile. Tirando le somme, le prime tre tracce, pur con stili ritmici leggermente diversi, rispondo alla medesima logica: alla base giace l’immancabile ed implacabile big beat su cui si innestano, con disinvoltura, techno, acid house e funk. Dunque, tali tracce non servono nient’altro che a far da trampolino di lancio per Star Guitar. Il capolavoro.

Ciò che appare in tutta evidenza è la fortissima interdipendenza che sussiste tra il brano e il videoclip itinerante che lo accompagna: il filmato in soggettiva del viaggiatore che scruta il panorama dai finestrini del treno in viaggio è montato in maniera tale da sublimare la struttura del pezzo, articolata sull'alternanza di due frasi di tastiera in otto battute ed arricchita da svariati e multiformi inserti strumentali in taglio ed in fade. La stessa base ritmica anticipata e raddoppiata con battuta di rullante, presente nell'introduzione e dopo il break, evoca il tipico rumore prodotto dall'urto delle ruote sui binari. L’apparente freddezza del secondo singolo estratto da Come With Us – che gode comunque di proporzioni interne molto ben calibrate – è ampiamente compensata da una tessitura ritmica assai elaborata, sicuramente celebrale, seppur indubbiamente ballabile. E, mentre Star Guitar ammalia sin da subito, i beat psichedelici di Hoops tolgono il respiro, grazie ai suoni emanati da finissimi strumenti a corda e da una specie di “mantra” che sembra non aver fine. Il mood di Hoops è dannatamente orientaleggiante ed è seguito a ruota da My Elastic Eye, un motivo che fa l’eco alle sfumature di alcune produzioni degli anni Settanta – Goblin in testa – e che combina un loop, appunto, dal vago sapore cinematografico ad ossessive percussioni, puntellate da solito sintetizzatore analogico. Se dovesse esser mosso un appunto a Come With Us, sarebbe soltanto quello inerente allo schema costruttivo della sequenza dei pezzi, praticamente simile a quello dei precedenti e fortunati lavori, laddove ad un inizio fulminante corrisponde un cadenzato calo di velocità per giungere ad una parte decisamente più ricca di melodia e di atmosfere evocative che, supportata da ritmiche house, funk e breakbeat, punta a scardinare gli ultimi residui di inesplorata psichedelia, proprio come in un brano quali il gradevole The State We’re In, cantato con trascinante enfasi dalla gentil voce di Beth Orton, prima che l’audace sound elettronico riscaldi nuovamente il corpo e l’anima per un ondeggiante viaggio in… Denmark. Esercitazione di stile in chiave disco-music? Convenzionale bignami di europea techno ad uso e consumo delle giovani leve armate di piatti, mixer e drum machine? Se non altro, brani come Denmark solari e movimentati trasmettono il piacere del suono e del ritmo, anche distorto. I Chemical Brothers, inoltre, armati di innumerevoli altri elementi creativi come certi loop o distorsioni che l’ascoltatore non si aspetta di certo, non fanno altro che “plasmare” qualcosa di sempre nuovo, riuscendo persino a spaziare nella moltitudine dei generi musicali esistenti e naturalmente classificati dall'uomo per dare alla luce altri sottogeneri, magari non facilmente classificabili, ciò nonostante veri, reali. Denmark non esprime la trainante forza della parola, bensì ciò che essa di resta, vale a dire, solo musica tra percussioni brasiliane. Sulla stessa linea d'onda Pioneer Skies si snoda su una elaborata trama, a partire da un arpeggio di clavicembalo sintetico che “girando su se stesso”, rievoca, nuovamente, la bizzarria del rock progressive degli ultimi anni Settanta. In chiusura, The Test, dal videoclip tra bianche balene e rosse meduse, ripiombando di colpo tra spiagge da favola e discoteche caotiche.

All’interno di The Test – terzo ed ultimo singolo estratto dall’album in questione – il redivivo ed ormai maturo Richard Ashcroft si destreggia egregiamente all'interno di un giardino di suoni e colori vivaci e a tratti dalle sfumature rock. La mirabile voglia di sperimentare e stupire certo non manca, soprattutto se The Test è la rielaborazione di Aerolit di Czeslaw Niemen. In conclusione, Tom Rowlands e Ed Simons proseguono la loro trasformazione da semplici dj a compositori d'elettronica d’alta classe, mantenendosi nell’invidiabile posizione di essere allo stesso tempo band di successo mondiale e fenomeno di culto per gli adepti della sperimentazione vera e propria che li condurrà poi al maggior consistente successo conseguito con la pubblicazione Push The Button (2005). Come With Us resta, suo malgrado, un disco assolutamente da non perdere. Sottovalutato.

 
 
 

Post N° 91

Post n°91 pubblicato il 31 Gennaio 2007 da Nekrophiliac
 
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SHARAM: DUBAI GU29 (2006)

In costante ascesa. Il 30 gennaio del corrente anno, in uno stadio straripante di gente, compreso un folto gruppo di donne che risiedevano comunque in un altro settore, la nazionale allenata dallo “stregone bianco” Bruno Metsu ha battuto nella finale della Coppa del Golfo il favorito Oman con un goal di Ismael Matar. I “caroselli” sono andati avanti fino a tarda notte. I tifosi si sono ridotti a ballare persino sui tetti delle auto. Un paese intero completamente “nel pallone”. Una festa mai vista da queste parti? C’è da obiettare. A partire dallo stadio di Abu Dhabi, capitale degli Emirati Arabi Uniti, occorre spostarsi a Dubai – secondo emirato del paese – che si trova sul Golfo Persico, a sud ovest di Sharjah e a nord est della stessa Abu Dhabi. Si distingue dagli altri emirati in quanto soltanto il 10% del suo prodotto interno lordo è derivato da entrate collegate all'industria petrolifera. Le maggiori fonti di ricchezza di Dubai sono, infatti, la zona economica speciale di Jebel Ali ed il turismo, che fa registrare un’incessante crescita. La decisione del governo di differenziare l'economia ha concorso ad accrescere il valore della proprietà immobiliare, che nell’ultimo biennio, ha vissuto un vero e proprio incremento. Le costruzioni su larga scala hanno reso Dubai una delle città a maggiore sviluppo urbanistico del mondo, al pari delle celebrate metropoli cinesi. L'esigenza di allargare il commercio e, in parallelo, il turismo ha determinato la creazione di complessi di elementi unici al mondo, sia per gli aspetti meramente architettonici che per le inimmaginabili dimensioni. I grattacieli sorgono a decine lungo tutta la città, che non è più ben definita, in quanto le zone desertiche sono, a tutt’oggi, in fase di edificazione. Lo sviluppo, difatti, coinvolge entrambe le principali attività economiche. Da un lato le attività commerciali e residenziali si estendono verso il deserto. Sono in fase di costruzione l'International City, la Silicon City, la Sport City e Dubailand, che dovrebbe diventare il più grande parco divertimenti del mondo. Dall'altro lato il turismo si concentra, piuttosto, sulla luminosa costa, dove la creazione delle c.d. “Palme” – cioè penisole create artificialmente nel Golfo Persico, la cui forma richiama quelle degli omonimi alberi – contribuirà a portare in primo piano gli Emirati Arabi Uniti. Oltre alle futuristiche “Palme” – il cui completamento si stima entro l’anno 2015 – è in fase di costruzione il cosiddetto "Mondo", ovvero un'isola artificiale che, se osservata dall'aereo o dal satellite, richiamerà il nostro pianeta, con i relativi continenti. Tuttavia, la zona sicuramente più bella dal punto di vista panoramico è quella di Jumeirah, ove la catena alberghiera di proprietà della ricca famiglia dell’emiro Al Maktum ha creato 4 tra le strutture alberghiere più affascinanti, tra le quali il celebre Burj al-Arab – la “torre araba” – che è diventata l'indiscussa icona di esportazione di Dubai, nient’altro che l'hotel più lussuoso al mondo, con 7 stelle che, con orgoglio, campeggia alle spalle di Sharam nella copertina del disco in questione.

Soltanto metà del profondo piatto dal sapore medio orientale? Lo scorso 6 aprile al Trilogy, club che ha inserito a pieno titolo Dubai nella mappa delle capitali mondiali della musica elettronica ha visto esibirsi, per l’appunto, Sharam Tayebi, metà del duo Deep Dish. Il tutto opportunamente trasferito nell’ultimo ed ispirato volume della prestigiosa serie Global Underground, legata alle migliori sessions nelle maggiori capitali mondiali.

A seguito della pubblicazione del fortunato secondo disco di loro stessa produzione – George Is On (2005) – che ha riscosso uno scrosciante successo grazie ai diffusi singoli quali Flashdance, Say Hello, Sacramento e Dreams, Sharam, separatosi temporaneamente da Dubfire, l’altra e immancabile metà del duo iraniano/statunitense, oltre alla suddetta compilation, mesi fa ha lanciato anche il singolo PATT (Party All The Time). Malgrado nato in Iran e rimasto lì fino al compimento dei 14 anni, nella scelta delle canzoni non c’è niente propriamente ravvicinabile alle, per così dire, “origini” di Sharam, in quanto ha scelto di presentare, piuttosto, un ottimo “spaccato” del vero e proprio “Deep Dish sound”, a partire dal brano d’apertura del primo cd, denominato “The Club”, cioè Sugar (Sweet Thing) [Nicka & Alse Remix] di DYAD10, dalle sensuali vocals, costante preludio “zuccheroso” a Look Around [Spider Funk Dub] del duo di Barcellona Spider & Legaz, che si innesta con deciso vigore, accompagnata da svariati assoli di chitarra, per poi lasciare spazio alle olandesi 16 Bit Lolitas e al progressive del loro brano Passing Lights, dallo straordinario coinvolgimento. Tocca poi al funky di Bliss [Felix Da Housecat Remix] del duo elettronico britannico dei Syntax, che spezza l’up-tempo del terzetto iniziale per segnare una prima cesura, dato che con l’ennesimo pezzo di Spider & Legaz, vale a dire, Majorca Roots si ritorna di prepotenza ad un sound più trance e meno “notturno”, soprattutto se corroborato dal leggendario dj e produttore tedesco, rispondente al nome di Paul Van Dyk e dalla stupenda The Other Side [Deep Dish Other Than This Side Remix] che, al di là della dance, annovera un testo “carico” di un certo ricordo, risalente alla data del 26 dicembre del 2004, allorché il Sud – Est asiatico fu colpito e devastato da quell’onda di anomale proporzioni, e ormai tristemente nota a tutti, quale il cosiddetto “tsunami”. Paul Van Dyk scrisse simil testo:

When this broken trough [Nell’infranta depressione]

I will can’t with you [Non potrò essere con voi]

When I wait my longest time [Quando resterò in attesa a lungo]

Daylight brings the great divide [La luce del giorno segnerà la grande separazione]

We can like the rain [Possiamo essere come la pioggia]

Whispering your name [Sussurrando il vostro nome]

Long to be with you divide [Il desiderio d’esser con voi ci divide]

Believe the sunrise [Credete nell’alba]

When I reach the line [Quando raggiungerò la linea]

I will see you on the other side [vi vedrò dall’altra parte].

Paul Van Dyk ritenne opportune di rendere tributo a quelle migliaia di persone che hanno perso i loro cari, ritraendo l’insieme di sensazioni che avranno travolto l’essere umano nell’impossibilità d’esser a diretto contatto con un’altra persona e che, tragicamente, risultavano essere già appartenenti ad uno o più verdi “passati”. Eppure, non tutto è perduto: l’aspirazione e la fede di rivedere costoro “dall’altra parte” non potrà mai venir meno. In questa vita o nella prossima. In coda alle riflessioni di Paul Van Dyk c’è Minds Talking (Dave Audé Remix) dei Lunascape, duo belga dedito al trip-hop, in una versione completamente rivisitata che si mantiene su un buon livello di battiti, tale da introdurre la progressive house senza sosta di Timelapse [Moonbeam pres Glockenspiel Mix] di Jiva e Rula: a metà canzone sembra esser tutto finito, il brano sfuma per poi sterzare deciso verso una nuova progressione sonora senza confini e limiti alcuni, ergo, Together We Rise dei canadesi Sultan & Ned Shepard. Dopodichè, ancora 16 Bit Lolitas, stavolta in compagnia del trio statunitense dei Motorcycle per la frizzante ed esplosiva Deep Breath Sedna [Dave Dresden Mash-up]. Something to Lose [Cedric Gervais Remix] dei produttori newyorkesi Creamer & K ft. Nadia Ali & Rosko e Stilettos (Pumps) [Dave Audé Pumps Dub] dei giovanissimi Crime Mob ft. Miss Aisha – gruppo rap di Atlanta – piuttosto, sono ottimamente “legate” fra loro, la prima è più cadenzata, la seconda più ripetitiva. Posta a chiusura di “The Club” c’è una quanto mai ritmica Eiffel Nights opera di Pig & Dan, due produttori che da anni lavorano insieme e hanno, infatti, sviluppato ormai una consolidata e fruttuosa unione.

Il secondo cd, “The Hub”, annovera, come brano “d’attacco”, spontaneo, fresco, Direct Me [Joey Negro Remix] dei The Reese Project – storico poker d’assi dell’house statunitense – che è ottimo aperitivo, prima della luminosa Timewarp del britannico Pete Heller, dj e produttore, forse più noto per aver remixato, e l’elenco è abbastanza lungo, brani per Underworld, Daft Punk, Faithless, Chemical Brothers, Jamiroquai, Moby, Martin Solveig sino a Blood On The Dance Floor per Michael Jackson. Che dire di Spirit In My Life di Cedric Gervais ft. Caroline? Nato e cresciuto a Marsiglia, Cedric Gervais ha iniziato la sua carriera da dj a soli 13 anni, ispirato da Laurent Garnier e Carl Cox. È stato il più giovane dj-resident del leggendario Club Queen a Parigi e, non sorprenderà di certo che, trasferitosi a Miami, praticamente presenza fissa in spiaggia, era ormai maturo per lanciarsi in suoi propri esperimenti, proprio come questo suo ultimo singolo, decisamente house-oriented. La traccia successiva, Everlasting, è sognante e dolce, così come l’avvenente Miss Nine, ennesima presenza fissa della scena dance di Miami, tra l’altro, perennemente in tour coi i Deep Dish stessi, il che ha giovato, non poco, alla sua notorietà. In un mercato fortemente dominato dalla presenza dell’ “uomo” dj, la tedesca “Signora Nove” – all’anagrafe Kristin Schrot – è stata, di fatti, in grado di crearsi da subito un suo seguito in nemmeno 3 anni, grazie alla sua progressive house, fonda, fitta, e quanto mai eclettica. Complimenti. Connected [Spider & Legaz Remix] di Sultan & Ned Shepard ft. Steromovers è una nuova ventata di buon umore realizzato con uno sfrigolio di plastici suoni, che fanno appena in tempo a spiegarsi a pieno prima che incomba una robusta Zero di Simon & Shaker, altro duo spagnolo, tra i migliori in circolazione per innovazione e qualità: ciò spiega il perché la Spagna abbia compiuto più d’un solo passo in “avanti” con propri artisti, divenuti, a distanza di tempo, “d’esportazione”. Superata la sbornia di Zero, Smaller [Dave Audé Remix] dei Suite 117, per un po’, è chiamata a raffreddare l’atmosfera con placidi colpi di beat. E non c’è due, senza tre. La martellante Psych è ancora una volta propria della produzione di Spider & Legaz, mentre, a seguire, The Cello Track [Dub] dei Twotrups si connota per l’abbondanza di orientaleggianti melodie, supportate da ridondanti bassi. Who is Watching, contrariamente alle massicce produzioni trance della superstar olandese Armin van Buuren, qui supportato anche dalla vocalist Nadia Ali, mantiene un profilo basso, più groove, comunque attraente. Da qui in poi infuria la tempesta di sabbia: il vento soffia prima veloce e perpetuo con la sinuosa El Ayoun di Casa Grande, poi caldo ed avvolgente con una caotica Manitou del duo spagnolo/austriaco Felipe & Nicolas Bacher. Spazio a Feedback [Valentino Kanzyani Earresistable Mix] dell’occasionale duo statunitense Acquaviva & Maddox, mai banale, mai fuori tempo: ha il pregio di esser al posto giusto, al momento giusto, essendo la naturale introduzione al pezzo che l’ascoltatore medio non s’aspetta in quanto superba conclusione di due ore e più di deep progressive house e molto altro ancora: Everyday dei partenopei Planet Funk è la “conseguenza illogica” del loro deflagrante ed intenso passato. Si dota di un chorus insuperabile, con tastiere che ne impreziosiscono il soffice incedere, coadiuvate dalla voce del dj inglese – in sostituzione di Dan Black – quanto mai nostalgica, al pari del testo della canzone stessa:

Just when I'm thinkin it was always you [Proprio quando sto pensando che eri sempre tu]

The Sun has gone and let the rain come through [Il Sole se n'è andato e ha lasciato spazio alla pioggia]

The things I'm hearin I've already heard [Le cose che sto ascoltando le ho già ascoltate]

But now I'm walkin in a different world [Ma ora sto camminando in un mondo diverso]

Just when I'm feelin like I'd made it through [Proprio quando mi sto sentendo come se ce l'avessi fatta]

And still had somethin that they never knew [E ho ancora qualcosa di cui loro non sono mai stati a conoscenza]

The artificial is controllin me [L'artificiale mi sta controllando]

And I dont' recognise a thing I see [E io non riconosco ciò che vedo].

“The Hub” si conclude così, toccando l’apice con l’ultima e infinita traccia d’una bellezza disarmante, aggettivo qualificativo che per la cornice di Dubai s’addice perfettamente. Tra plastiche dune e tramonti meccanici, grazie Sharam.

 
 
 

Post N° 90

Post n°90 pubblicato il 25 Novembre 2006 da Nekrophiliac
 
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FAITHLESS: NO ROOTS (2004)

Applausi per. Faithless: progetto del produttore britannico Rollo Armstrong, che con lo pseudonimo di Felix aveva alle spalle la hit Don't You Want Me (1992), e della disc jockey Ayalah "Sister Bliss" Bentovim, capace di più d’un virtuosismo al violino e più d’un prodigio al pianoforte, tuttavia, nota come intrattenitrice della scena acid house, di cui aveva scalato le classiche con Cantgetaman, Cantgetajob (Life's A Bitch) (1994). Nel 1995, al duo si aggiunsero la cantante Jamie Catto – già in gruppo con la cantante new age Gabrielle Roth – e un altro disc jockey Maxwell Frazer, in arte Maxi Jazz. I Faithless esordirono, nell’incertezza e indifferenza generale, con l’eccedente e vorticosa Salva Mea nel settembre 1995. Il secondo singolo dell’ensemble, Insomnia, fu, è e sarà sempre il vero e proprio saggio di decostruzione della techno degli anni ‘90: in otto minuti da puro panico, il brano era stravolto a tal punto, da confondere l’ascoltatore sempre più, allontanandolo da ciò che era nato per essere, nient’altro che un mero, seppur genuino, ritmo da ballo. L'hip-hop introspettivo di Reverence (1996) completò l’apprendistato dei Faithless. Altro che gavetta. Dall’oggi al domani, da allievi i Faithless divennero maestri con album quali Sunday 8 P.M. (1998) prima – trascinato da una delle canzoni più belle di sempre, cioè God Is A DJ, e dall’indomita Take Long Way Home – e poi con Outrospective (2001) – dove spiccavano ispirati e variegati brani quali We Come 1 e Tarantula. Album che complessivamente vendettero ben 3 milioni di copie. E non bruscolini, pur trattandosi di un gruppo “dance”.

Senza fede, davvero. All'uscita del nuovo album, per l’appunto No Roots, i Faithless misero, clamorosamente, le mani avanti. Perché? La dance, a loro detta, ormai apparteneva al passato: « abbiamo pensato che questo sarebbe stato il nostro ultimo album, forse abbiamo già avuto il nostro posto al Sole. Con la morte della musica dance, i Faithless sentono di avere i giorni contati ». A seguito di tali parole scritte dall’osteggiato Rollo, estratte dal denso libretto allegato a No Roots, Maxi Jazz e soci sembrano voler rendersi conclamate “vittime” di un certo “sistema”, che avrebbe preferito un loro “Best Of” come uscita discografica dell’anno 2004 – e non sempre, però, si tratta di sinonimo di “pensione” – anziché tale disco in questione, che è, invece, la più netta dimostrazione di come la vena creativa della band non sia esaurita affatto. Tanto per cambiare, No Roots sembra essere trattenuto, o quasi intrappolato, all’interno di un buco nero temporale, da qualche parte tra il 1989 e il 2004, il che potrebbe addurre a plausibili scelte stilistiche, eppure, l'impressione che se ne ricava è un'altra. Forse Rollo, mente tecnica del collettivo – perennemente assente persino dai tour in giro per il mondo, pur di restare in studio – trascorre troppo tempo tra i suoi macchinari e alle spalle dei recenti successi della sorellina Dido, piuttosto che concentrarsi sull’andazzo musicale mondiale? Se non altro, i risultati conseguiti con No Roots sono di non alto, bensì altissimo livello. Elettronica a go-go, chitarre su chitarre, bassi dub, arcigni groove, insomma, più d’un genere fa parte delle “radici” del quarto lavoro dei Faithless. A dispetto del titolo, però, No Roots non è per niente “senza radici”, anzi è ben saldo nella consuetudine musicale dei Faithless e nella scia di tutte le loro attività. Stavolta il capolavoro risulta esser composto da un'unica, lunghissima “suite”, i cui singoli brani finiscono per apparire come una sorta di variazioni costanti su un unico tema, ognuna fluidamente allacciata alla precedente e alla successiva, tratteggiando un “colpo d'orecchio” sonoro ora celere e vigoroso, ora ipnotico o addirittura malinconico e, comunque, sempre novello e sempre attraente. Benché, a differenza dei lavori precedenti non ci siano dei singoli trascinanti, No Roots sembrerebbe esser quasi “anonimo” a un primo distratto ascolto ma, in realtà, è assai più introverso e personale dei precedenti, richiedendo, perciò, un ascolto attento, proprio per la tipicità di tale sua particolare struttura a rimandi. Che sia l’alba di un nuovo Mezzanine (1998)? I Faithless si sono avvicinati non poco ai Massive Attack. Sicuro.

Abbandonare i luoghi comuni. È consolidata tradizione che la c.d. musica dance sia, letteralmente, snobbata dai dittatori del rock. Ed è pur sempre una “mezza” rivincita nei confronti di loro stessi, già additati come balordi da parte della vera musica classica. Attenzione, Signore e Signori, qui si va ben oltre tutto ciò. La dance potrà essere sì priva di forma e contenuti, eppure non pochi gruppi sono riusciti ad oltrepassare il muro del suono e dell’apprezzamento generale: Chemical Brothers, Prodigy ed Underworld, nient’altro che la “Santissima Trinità”. Gruppi che riescono a fondere la dance e il rock con una semplicità disarmante, conquistando ed unendo i seguaci di questi generi in faida fra loro, tra queste band, sicuramente, occorre citare i Faithless che, a conti fatti, non sono meno considerati, poiché la loro importanza deriva soprattutto dal non rinnegare, guarda un po’, le proprie radici, seppur “concimandole” con “veri” strumenti e melodie talvolta “popolari”. No Roots è la conferma che in tanti attendevano, la conferma delle canzoni che soverchiano uno e più pregiudizi, celebrando il trionfo della creatività. Ipnotica. Così come la matrice sonica che divide – in due identitarie parti e due poliedriche anime – il disco: la prima più "pop" e smaliziata, la seconda più “dance” e sperimentale. Due anche le novità: come si legge anche ancora all'interno del nutrito booklet, risultano essere la collaborazione del vocalist LSK – dotato di una calda voce blues – che unita alla più suggestiva ma secca voce di Maxi Jazz, rende più “melodico” il disco; e l’idea di un “concept”, quale la tonalità in “do” che accomuna le quindici tracce, pervase, allo stesso tempo, da un’atmosfera fonda e mesta, rischiando di far rimanere delusi i sostenitori dei primi e trascinanti Faithless. A fronte di nuovi spunti e nuove motivazioni, piuttosto, non deve stupire che il disco abbia facilmente raggiunto, anche con una certa fretta, il primo posto delle classifiche inglesi, considerata la sua mai doma versatilità con cui la sintesi musicale – tra dance, rock e pop – è stata concepita e realizzata.

Qualcosa in più. No Roots è, semplicemente, un grande album. È omogeneo, compatto, ed elegante e malinconico. I grandissimi testi di Maxi Jazz infatti sono fuori dal comune e ciò ribadisce il prediligere il placido ascolto al movimento frenetico. È una lama nel cuore che affonda lentamente nella nuda carne, raffinata ed affilata, discreta all'inizio e coinvolge alla fine. No Roots emana uno strano e sensuale magnetismo che ispira morbidezza e sinuosità. L'intero disco ha, a tal fine, un ritmo costante e controllato, colonna sonora di una nottata in un fumosa e buia “discoteca – labirinto”, grande un centinaio di chilometri dalla quale non si “voglia” uscire. Cinquantaquattro minuti: né troppo lungo, né troppo corto, senza superflui fronzoli e senza sbavatura alcuna. Un'alternanza di accelerazioni e frenate ben proporzionate e sapienti con una cura del suono e dei dettagli concretamente perfetta. Ad avvalorare la tesi delle ambizioni del nuovo progetto la sua valenza proprio sotto il profilo lirico del forse album più denso di significati socio-politici della band, è l’apripista Mass Destruction, che si innesta su un framework ritmico senza sosta, non appena l’Intro ha termine. Mass Destruction, slogan no-global sui ben noti mali che affliggono questo mondo – nonché oscura techno minimale, figlia di una crudele allegria scandita da tempi fuori di sesto – è la celebrazione dell’onirico rap del sempre pungente Maxi Jazz. La successiva I Want More è, praticamente, spezzata in due, ed immette in rampa di lancio, presentandolo alle scene che contano, il sopraccitato vocalist LSK, che grazie alla sua delicata voce, si lascia andare in una artificiosa ballata in bilico tra un rullante dowm – tempo e una sorta di charleston d’altri tempi. Insomma, I Want More, Pt. 1 proietta un intero universo acustico in uno specchio house, fregiato dalla targa Faithless: per l’appunto, I Want More, Pt. 2, acida, eccitante e, perché no, frenetica.

Da questo momento in poi, comincerà a fare capolino una sempre più frequente chitarra acustica, vero Giano Bifronte delle elettroniche sgroppate e dei sintetici tappeti, composti da Sister Bliss. Dunque, non manca di certo l’energia delle martellanti hits del passato in ciò che è considerabile come il lavoro più maturo del trio. Più avanti, l’ascoltatore s’imbatte in Love Lives On My Streets e Bluegrass: una oculata accoppiata alla stregua di un comune decorso di considerazioni senza soluzione di costanza sul rapporto con gli imponenti media d’oggi e con la corrotta politica, intervallate dal “ragamuffin” cantilenante in persistente dialogo con la chitarra acustica nel mezzo della quiete da riflessione. Sweep, piuttosto, è il richiamo alle nottate “ambient”, trascorse su colorati ritmi simili, miglior introduzione possibile per l’ennesima traccia da ricordare nel tempo: Miss U Less, See U More, dove il fiato delle diverse anime del disco si fa sempre più rarefatto sino a divenire un unico sbuffo nella calda nebbia.

La title-track, No Roots, sfoggia il rap d’ordinanza di Maxi Jazz, alternato nel ritornello dalla angelica voce di Dido – consueta presenza tra gli ospiti della band – tra un riff di chitarra e un colpetto al tamburello. Non passa inosservata la strumentale Swingers, che è oltremodo spocchiosa, sebbene arricchita da un superbo loop di distorta chitarra, mentre la suggestiva Pastoral, dal filtrato sintetizzatore, è il preludio del capolavoro di LSK, ovvero Everything Will Be Alright Tomorrow. Dal cilindro del “mago Rollo” sono poi estratti in serie prima la carismatica What About Love, poi In The End, che rimanda come suono “trance” al precedente lavoro dei Faithless, il già richiamato alle mente Outrospective (2001). "Ciliegina" sulla torta a più variopinti e dolci strati, Mass Destruction: P*nut e Sister Bliss Mix. Tuttavia, si tratta del primo singolo estratto da No Roots. "Una mente malvagia è un'arma di distruzione di massa, la disinformazione è un'arma di distruzione di massa, il razzismo è un'arma di distruzione di massa, l'avidità è un'arma di distruzione di massa": questo, uno stralcio dello stoico testo del brano. Ora se l’ascoltatore ha seguito il percorso dei Faithless, come se fosse un concorso, allora gli tocca l’ultimo sforzo e chiedersi il perché.

Probabilmente, nel momento in cui hanno “concepito” questo video, i Faithless non avevano idea dello scalpore che avrebbe suscitato da lì a breve. Concretizzato come un pamphlet pacifista, Mass Destruction a una prima e realista impressione non sembra porsi in posizione così radicalmente antagonista da giustificare improvvise levate di spessi scudi da parte degli accaniti conservatori di Stati Uniti e Regno Unito. Certo, il brano non lesinerà di “andar giù pesante” nella sua sgridata antimilitarista, e il video non è da assolutamente meno; eppure, in giro attorno al mondo s’è vista ultimamente roba ben più drastica, ad esempio, Boom! dei System Of A Down – diretto dal panciuto Michael Moore – sino a Shoot The Dog di George Michael. In fondo, i Faithless all’attacco frontale hanno preferito l’aggiramento e il gioco di sponda, il che si traduce nello sfrenato impiego della ricorrente e ridondante metafora. Ci sono, è sotto gli occhi di tutti, immagini di bambini che "giocano" alla guerra, in un bianco e nero sgranato che fa tornare alla mente lo storico Zombie dei Cranberries, però, la piena “consistenza” simbolica del video è negli interni a colori, con Maxi Jazz che canta davanti a una parete di mattoni (un muro di?), mentre alle sue spalle una coppia di piacenti strumentiste, tra cui Sister Bliss, lo accompagna nella ritmica. Complimenti per l’originale trovata, quanto mai visualizzazione di un gruppo la cui mentalità da collettivo l’ha spinto ad innovarsi. Sopra la media.

 
 
 

 

Post n°89 pubblicato il 11 Novembre 2006 da Nekrophiliac
 
Foto di Nekrophiliac

DEPECHE MODE: ULTRA (1997)

Overdose di successo. I Depeche Mode lo intuirono a metà degli anni ’90: il Devotional Tour, vale a dire, quindici mesi ininterrotti di concerti intorno all’intero globo che, altro non fecero che, far piombare il quartetto nella più nera delle crisi. Infatti, proprio al termine del Devotional Tour, il batterista Alan Wilder decise di lasciare i suoi compagni e mollare tutto a fronte di una molteplicità di circostanze – oramai insostenibili – determinatesi all’interno del gruppo: Dave Gahan, eccentrico front-man e implacabile trascinatore delle folle, letteralmente, “dipende” dell’eroina. Martin Gore, spirito ispiratore dei Depeche Mode, nonché il creativo autore dei testi, in occasione di ogni concerto, un attimo prima di salire sul palco, “necessita” di alcool al fine di placare una delle sue numerose crisi di panico: è persuaso dai cosiddetti “fumi dell’alcool”, unico rimedio per ricordare la sconfinata successione di note da suonare. Andrew Fletcher, a conti fatti, “manager” della band, per di più, “bilancino” alle presunte, o tali, bizzarre stravaganze di Dave Gahan e Martin Gore, è affetto da un forte esaurimento nervoso che non ha rimedio alcuno. Basti pensare che al termine di ogni show, i quattro viaggiavano separatamente per raggiungere la prossima città da sedurre per una manciata di ore a notte. Dave Gahan, fra tutti, divenne sempre più “intrattabile”, in preda a continui sbalzi d’umore, che lo spinsero ad urlare persino, alla notizia dell’avvenuta morte del leader dei Nirvana, Kurt Cobain: « Kurt mi ha fregato l’idea! ». In seguito, alla domanda di un giornalista, « Hai mai provato veramente paura? », Dave Gahan raccontò di quando, completamente “assuefatto” all’eroina, adagiato sul sofà nel salotto di alcuni amici, il loro bambino, avvicinatosi, gli chiese chi mai fosse: il cantante si rese conto di non saper cosa e come rispondere all’innocente domanda del piccolo e fu in quel momento che avvertì un profondo senso di paura per il suo stesso essere. Da lì a breve, si susseguirono reiterati tentativi di suicidio, le abnormi visioni e gli schizofrenici deliri, il soprannome “Il Gatto” – dato che sembrasse avere nove e più vite – e gli ininterrotti ricoveri in specifiche cliniche per la disintossicazione senza mai conseguire risultati, fino al vero e proprio punto di non ritorno: 28 maggio 1996. In un hotel di Los Angeles, dove si era trasferito dopo la fine del suo secondo matrimonio, sbattuto sul letto in tale lussuosa stanza, Dave Gahan fu volontaria vittima di un’overdose da eroina, divenendo “clinicamente” morto per tre lunghi minuti. Dimesso dall’ospedale, fu arrestato per tentato suicidio, in quanto esso costituisce un reato in California e fu, altresì, costretto, sempre per legge, a disintossicarsi del tutto, restando sotto controllo medico per alcuni anni, il che gli permise di “ricominciare” a vivere per l’ennesima volta, rigettando, per sua stessa ammissione, le malsane “vecchie abitudini” e, anzi, tenendosi alla larga da situazioni che potevano indurlo a tornare sui propri passi. Piuttosto, da ciò Ultra prende, a sua volta, linfa vitale, poiché a distanza di un anno dall’aver toccato il fondo della fossa con la suola delle “proprie scarpe”, Dave Gahan raggiungerà gli storici “reduci”, Martin Gore ed Andrew Fletcher in studio. Ultra divenne così l’album del ritorno dall’oblio.

Una seconda e introspettiva giovinezza. Sebbene orfani di Alan Wilder, dedicatosi per intero ai Recoil, il virtuoso e concreto Ultra non tradì le attese e segnò il futuro della band, forte di una rinnovata volontà, spiazzando pubblico e critica con tale undicesimo capitolo di una carriera nuovamente in ascesa, ennesima consacrazione della band, per niente inferiore ai monumentali e magniloquenti predecessori, cioè il capolavoro assoluto Violator (1990) e la “devastante”, sotto qualsiasi profilo, svolta rock di Songs Of Faith And Devotion (1993). Ultra venne, dunque, salutato quale un ritorno ai massicci fasti, propriamente elettronici, del passato, come sempre avviene in occasione della pubblicazione di nuovi dischi di band storiche, tuttavia, in realtà di “vecchio” c'era soltanto l’essere immateriale, la forma avvolgente, il madido sudore, e la presenza di un noto “marchio di fabbrica”, che faceva palese l’immortalità dell’ultraterreno gruppo che aveva urgenza di ri-comunicare le proprie storie con toni sobri e placidi, quasi romantici. Ed è così che Ultra si contraddistingue per essere un album posato, seppur cupo e notturno, certamente meditativo, volto all'essenza e lontano da un discorso moralmente estetico. Inaspettatamente, il disco non è anonimo come, pessimisticamente, ci si poteva attendere a seguito della caduta nel baratro del quartetto. Al contrario, le magnifiche ed espressive liriche di Martin Gore si coniugano con un sound ruvido, maturo e più minimalista, decisamente lontano dal pop scanzonato degli esordi, che esprime disparate contaminazioni musicali, fino alle divagazioni “dance”.

« Do you mean this horny creep? ». Tali sono le prime parole che Dave Gahan pronunciò al risveglio dal coma e sono le medesime che aprono Barrel Of A Gun, primo singolo e prima traccia di Ultra. È l'unico trait d'union con Songs Of Faith And Devotion (1993), con distorsioni elettriche accompagnate ad effetti elettronici. Non a caso, è il pezzo più disperato, più marcio e frenetico, che sembra tratto dalla mente di un Trent Reznor, coadiuvato, tra l’altro, da una claustrofobica ed inquietante clip in bianco e nero, ove Dave Gahan è alle prese con la sua incoscienza da eroina, tra l’ossessivo “rigirarsi” nel letto, passando per le bolle di sapone, al muoversi confuso, praticamente “allucinato”, tra mille ed uno viottoli, che, loro malgrado, non conducono alla già scritta fine, alla canna della pistola.

Nera è la notte, così come funerea è la morte, bensì rosso è l’amore di The Love Thieves, delicato, leggero, seppur rapportato al dilaniante malumore e al clima di profonda sfiducia che gravita entro le materiali carcasse, così come attorno al testo – ove non mancano riferimenti “cristiani” – che fa pronto appello a uno o più riferimenti spirituali, possibilmente ultraterreni, che confortino l’animo umano, distratto, turbato, e perché no, drogato. Ed ecco qui una canzone, proveniente dal lato sbagliato della città, o una pagina del palcoscenico più vuoto. Un suono solitario che immobilizza come una gabbia, o come la più pesante croce mai costruita. Un’ancorata casa oppure la più mortale trappola mai tesa. Home, terzo singolo estratto da Ultra, è affascinante e struggente, una sorta di spirale di emozioni e sentimenti che si dipana verso il blu celeste, indefinibile altezza, che contraddistingue un contrasto tra ciò che è e ciò che sarà. Vita e morte. Città terrena e Città di Dio. Timida consapevolezza, l’appartenenza al genere umano, materialismo e non, tutto sembra essere circoscritto in quanto immane dolore terreno, smascherato dall’intervento “provvidenziale” di un romantico Dio, guidato dalla impareggiabile voce di Martin Gore: And I thank you [E ti ringrazio]. For bringing me here [Per avermi portato qui]. For showing me home [Per avermi mostrato la mia casa]. For singing these tears [Per aver cantato queste lacrime]. Finally I've found [Finalmente ho scoperto]. That I belong [Che ho una casa]. Feels like home [Mi sento come a casa]. I should have known [Avrei dovuto saperlo]. From my first breath [Fin dal mio primo respiro]. La clip di Home, diretta da Steve Green, è piangente ed adatto alle circostanze.

La ricerca continua di un quid, da casa a casa, abitate tutte da assenti, alienati, annoiati, anziani. La medesima interpretazione dello stesso Martin Gore è, a dir poco, straziante, rubando la scena agli altri membri del gruppo, intenti a riflettere sulle proprie condizioni, confusi sul perché del cielo stellato. Ove tutto, presumibilmente, è già scritto. Gli dei l’hanno decretato e nessuno ne è esente, né può nascondersi al già assegnato destino, perciò: I'll be fine [Starò bene]. I'll be waiting patiently [Attenderò pazientemente]. Till you see the signs [Finché non vedrai i segni]. And come running to my open arms [E arriverai correndo tra le mie braccia aperte]. When will you realise? [Quando lo capirai?]. Do we have to wait till our worlds collide? [Dobbiamo aspettare che i nostri mondi si scontrino?]. Open up your eyes [Apri gli occhi]. You can't turn back the tide [Non puoi capovolgere la marea]. La ritmata It's No Good, secondo singolo estratto da Ultra, è ironia e vanità, apparenza e narcisismo, vacuità delle cose ed amara retorica del loro andazzo. La clip, kitch come non mai, ricalca tutto ciò, con i tre che si mettono in gioco, fingendo di essere l’ammiccante gruppo, protagonista per una serata allo sgangherato Ultra Hotel, tra un bicchiere di troppo e ballerine d’altri tempi.

La traccia successiva è Uselink, brevissimo intermezzo strumentale, inebriante e flessibile, che introduce l’aggressivo spleen di Useless, quarto ed ultimo singolo estratto dal fortunato album, un aspro pezzo rock caratterizzato da esemplari chitarre distorte. Auto-analisi ed esame di coscienza, inutili convinzioni che maturano all’interno e altrettante speranze riposte all’esterno. In assenza di orologi che scandiscano il rallentare del tempo, in assenza di spazio, Useless, come una voce in una vuota, riecheggia sorda, strozzata, nella stanca e ferita mente: All my useless advice [Tutti i miei consigli inutili]. All my hanging around [Tutto il mio girarti attorno]. All your cutting down to size [Tutto il tuo minimizzare]. All my bringing you down [Tutto il mio demoralizzarti]. All your stupid ideals [Tutti i tuoi stupidi ideali]. You've got your head in the clouds [Hai la testa tra le nuvole]. You should see how it feels [Dovresti vedere come ci si sente]. With your feet on the ground [Con i piedi per terra]. È una sorta di "dead zone". Un’area brulla, seppur enfatica, al pari della clip, basata su un’unica inquadratura, mentre, soltanto nel finale, si scoprirà a chi si rivolge Dave Gahan: una donna, ancora una volta.

Plauso per Anton Corbjin, autore di tre dei quattro video di Ultra, sempre originali e quanto mai misteriosi. Spazio alla nostalgica e minimale Sister Of Night – fondata sulla contrapposizione della tenue voce di Dave Gahan agli sdolcinati momenti elettronici – canzone sul senso d’abbandono nel mondo, la innata solitudine di ognuno di noi, quel sentire comune di non farcela, di non bastare a sé stessi. Ciò di cui siamo alla ricerca è un abbraccio, quando il rassicurare della notte, vago, evanescente non è che un nuovo raffinato interludio: Jazz Thieves. Le atmosfere di Ultra sono paragonabili a quelle di una grande metropoli a notte fonda: desolate, a tratti inquietanti, sebbene colme di fascino. Il gruppo è perfettamente riuscito a “musicare” il proprio periodo buio. Le strumentali Uselink ed, appunto, The Jazz Thieves sono quelle che rendono al meglio questa atmosfera, ma Ultra non “finisce” qui. Freestate scorre quieta e piacevolmente fredda come l'acqua di un rigagnolo. In scia a Home ed Useless, prosegue il conciliabolo inconscio, e affrancazione, riscatto emotivo, scoraggiamento, risultano essere le parole chiave. La susseguente The Bottom Line vede, nuovamente, Martin Gore, alla voce, in stato di grazia nel farla sgorgare più rotonda, fremente e palpitante che mai, all’interno di un brano solido e corposo, che rimanda al consueto reiterarsi delle circostanze naturali e, tanto più, quotidiane. Tocca ad Insight gettare l'ennesimo sguardo entro l’anima più profonda ed intensa dell’essere umano, da cui emerge che è l’amore il motore dell’universo, senza se e senza ma. Sembrerebbe la naturale conclusione con una tale sincera traccia, e invece, c’è ancora tempo e soprattutto spazio per una breve traccia strumentale, fumosa e morbida, ennesima riprova della maturità e della saggezza dei Depeche Mode: Junior Painkiller - versione ridotta di un b-side del singolo di Barrel Of A Gun che aveva anticipato l’uscita dell’album – che ha il merito di mantenere costane l’oscuro alone che pervade l’intero album, ora rischiarato dalle prime luci dell’alba, le medesime rinvenibili all’uscita di un lungo tunnel che sembrava essere un vicolo cieco. Dunque, nessuna canzone spicca, in maniera chissà quanto evidente, sulle altre, in una sorta di uniformità di livello alto che rende Ultra incredibilmente continuo, senza fratture e, a conti fatti, un'esperienza organica, seppur sotterranea, seppur sussurrata. È stata la rinascita dei Depeche Mode. Immensi.

 
 
 

Post N° 88

Post n°88 pubblicato il 04 Novembre 2006 da Nekrophiliac
 
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CHEMICAL BROTHERS: DIG YOUR OWN HOLE (1997) 

Questione di bioritmica. La storia rinasce ogni volta più spessa, evoluzione sì continua, ma la radice è la stessa. Sostituito il nome Dust Brothers nel momento in cui scoprirono che esisteva già, poiché appartenente ad un duo di produttori statunitensi, i Chemical Brothers, ovvero Tom Rowlands e Ed Simons conosciutisi alla Manchester University nel 1989, si presentarono con Exit Planet Dust (1995) nelle semiserie vesti di propagatori delle novelle ritmiche da night club. Ne furono in effetti avanguardisti, in originalità e qualità, nella "Madchester" dell’ultimo decennio del secolo scorso. La nociva mistura di rock e acid house che misero a punto divenne l'asse di sostegno di questo album, elettronica prevalentemente strumentale, di immemorabile memoria, rimandando ad un passato appartenuto ai teutonici Kraftwerk. Tale sound, coniato dai due, amalgama un’overdose di funk, rock e hip-hop, come in un disorganico collage di pop art. La regolare prassi si ripropone monotonamente dall'inizio alla fine, cioè, campionare battiti hip hop, indirizzarli verso sempre nuovi loop, poi, prima accartocciandoli in spirali di sintetizzatori, e dopo danneggiandoli a colpi di chitarre rock. Bisogna render loro atto di dar vita a tutto ciò con un atteggiamento irreale e demenziale, che stravolge l’orecchio dell’ascoltatore che si appresta a percepire le prime folli tracce: Leave Home, destinata a perdurare come uno dei loro capisaldi, e la pressante In Dust We Trust, sino alla siderale escalation di Chemical Beats. Successivamente, con la pubblicazione dell'EP Loops Of Fury (1996), intenso e furioso, grazie a tre irresistibili brani quali l’omonima Loops Of Fury, Breaking Up e Get Up On It Like This, lanciò in orbita i Chemical Brothers, pronti per pubblicare Dig Your Own Hole (1997), il secondo, attesissimo, album del duo più celebre e celebrato della techno mondiale, che, non a caso, riparte dai loro esordi, con estrema disinvoltura, dalla fusione fra tutto ciò che risulta oggigiorno “ballabile” e tutto ciò che è inquadrabile nel “rock”.

Diffidare dalle imitazioni. Dig Your Own Hole, rilevante capitolo per la musica degli anni ’90, è stato un vero e proprio trampolino di lancio in campo commerciale per i Chemical Brothers. È, in maniera indiscutibile ed imperscrutabile, il miglior disco pubblicato dal sodalizio inglese: settanta acri minuti di suoni esplosivi, a cui nessun umano corpo può opporre resistenza, per undici infettate schegge nelle quali gli opprimenti tempi metropolitani si liquefanno con irritazione ed inquietudine, plasmando un capolavoro del genere. In teoria, è un disco che sembrerebbe accontentare più gusti, ma, in realtà, appare sempre un po’ distante da chi preferisce, in campo musicale, ben altro. L’estatica e quanto mai ricca musica dei Chemical Brothers, così come quella di molteplici altri artisti che si occupano di techno, si riunisce insieme a innumerevoli altri generi per sagomarne uno nuovo di zecca, che può “suonare”, da orecchio ad orecchio, melodico o inebriante, regolare o trascinante, uggioso o elettrizzante. In ogni caso, l'evoluzione digressiva, a seguito del sopra citato Exit From Planet Dust (1995), poteva farsi difficoltosa, tuttavia, i due alchimisti sono mirabilmente riusciti a scovare assortite soluzioni acrobaticamente cacofoniche, nell’attraente stravolgimento delle leggi così attuato. Un disco dal quale tutti si aspettavano precise indicazioni per il futuro. Un disco a seguito del quale il mondo non è stato più lo stesso, perchè è un po' come quando ti innamori, e qualcosa nel tuo modo di percepire determinati aspetti muta per sempre, in bene o in male. Non c'è niente da dire o fare. Impossibile analizzarli a freddo. Nel bagaglio di datate ispirazioni datate, i Chemical Brothers hanno deciso di rigettare a priori i legami con la chimica che sbalordisce, e, piuttosto, riaffermare, invece, i legami biologici della compositiva arte libera da schema alcuno.

Acidi e basi. Qui non è questione di incontrare il gusto delle masse, ormai non è tanto questione di stile, ma è questione di classe, è essere diverso da ogni produzione che si fa, diverso nella musica, insomma, l’originalità come prima qualità. L’apertura di Dig Your Own Hole è affidata alla straripante Block Rockin' Beats, caratterizzata da una bass-line dei 23 Skiddo e da un ritornello vocale così semplice, che tutti gli appassionati della dancefloor possono facilmente comprendere, senza dover conoscere chissà quale lingua straniera. È un pezzo che dà veramente la carica: il ritmo è cadenzato dal suono della chitarra e da una serie di suoni intersecati, uniformati e campionati alla perfezione – praticamente delle fantasiose sincopi sismiche alla Public Enemy – a foggiare, con l’apporto della batteria, una musica autorevole e mai ordinaria od oltremisura ripetitiva.

Si prosegue sulla stessa linea con la title-track, Dig Your Own Hole, ennesimo avvincente mix di suoni campionati che, a tratti, richiamano alla mente i frastuoni senza tregua del territorio urbano, che tra sirene, tribalismi africani e pulsioni funky, terminano direttamente nel terzo aggressivo pezzo dell’album, ovvero Elektrobank. I suoi otto minuti sono emblematici del programma del disco con le persistenti metamorfosi dell'arrangiamento attorno a una macchinosa modulazione poliritmica. Qui ad un ripetitivo baccano di sottofondo va, lentamente aggiungendosi, una voce che pronuncia una manciata di parole di difficile comprensione, intramezzate a grida e schiamazzi, finché non esplode una fonda e opprimente musica che prosegue, senza calo di ritmo alcuno, per oltre cinque minuti, fino a stemperarsi nel suono della batteria che riduce progressivamente la sua intensità. Piuttosto, gli ultimi due minuti sembrano esser completamente al di fuori dal resto del pezzo, ecco uno dei tanti “marchi di fabbrica” dei Chemical Brothers.

In questo caso, in mancanza d’uno stacco netto, si assentano le prime note di Piku, da un fittizio ritmo, al quale va sovrapponendosi un altro a pochi secondi di distanza. La fanfara interrotta e riciclata all'infinito è una vera e propria dimostrazione di equilibrismo eufonico da parte di due emaciati interpreti dell’arte del campionamento. Piku fluisce gradevole, e proprio quando la musica sembra “imballarsi”, sfruttando un abile seppur dilettevole sollazzo ritmico, raggiunge nel finale il suo culmine, divenendo Setting Sun, la canzone che dell’album è probabilmente la più nota. Per gradi, si fa sempre più imponente e scrosciante a batteria, si amplificano i toni e gli echi disturbati, disposti precisamente al di sopra dell’imperversa voce di Noel Gallagher, non uno qualunque, bensì l’anima creativa degli Oasis. Il ritmo è semplicemente irrefrenabile, e di per sé, diviene quasi inammissibile trattenersi dal muoversi o dal cantare l’intera canzone.

Subito dopo spazio a It Doesn’t Matter, sperimentale pezzo con tendenze più dirette all'house, e dunque volutamente ripetitivo, carico di collera, che sembra mai esplodere, la cui forza risiede proprio nella ripetizione continua. È uno dei pezzi più particolari del disco, che si può apprezzare fino in fondo solo se si comprende a pieno il suo significato. E così Don’t Stop The Rock finisce col fondersi insieme al pezzo precedente, attraverso un unico e ricorrente suono che l’accompagna per gran parte del suo andamento, e, anzi, in più d’una frazione diviene addirittura quello dominante, per poi scomparire e riaffacciarsi di tanto in tanto. Don’t Stop The Rock è ancora all’insegna della ripetitività, che è simbolo proprio della realtà metropolitana scrutata dai vigili occhi dei Chemical Brothers, tuttavia, è impeccabile, “antinomicamente” parlando, l'armonia di tutti i brani, sapientemente costruita in certosina maniera, facendo spiccare l’impressione di artificiale che il loro meticoloso montaggio ha da sempre conferito alle primigenie musiche. Ancor prima della fine, sono già percepibili le parole che danno vita al titolo del successivo pezzo, ovvero Get Up On It Like This, più divertente e ritmato, contagiato tanto dal rap, tanto dal versante più propriamente techno, appartenente allo stile d Fatboy Slim. Quest’ultimo, pezzo più breve dell’intero disco (meno di tre minuti), precede ciò che, invece, si può definire il più esclusivo, il più fuori dagli schemi, praticamente un sobbalzo elettrodomestico senza storia: Lost In The K-Hole, forgiata nell’eccezionale basso, dà quasi origine ad un senso d’evasione, propria dei grandi sognatori. Pur tenendo salde alcune peculiarità che sono alla base del genere, Lost In The K-Hole spicca per le magiche melodie ed echi da oltretomba. Si giunge, quindi, alla decima traccia, Where Do I Begin, cantata dalla composta e seria voce dei Portishead, Beth Orton, dove la musica, perlomeno nei primi tre minuti, sembra essere completamente al di fuori degli standard di Dig Your Own Hole. Un’originalità che conferisce maggior movimento all’intero disco. Dopo aver titubato per la prima parte del pezzo, ecco che nella seconda alzano il capo gli originali Chemical Brothers, con la solita baraonda di prorompenti e replicati martellamenti a strati, che danno l’idea della circostanza di vero e proprio caos, chiamato a distruggere qualsiasi schema conferisse equilibrio all’interno di Where Do I Begin.

Praticamente saldato al finale, si snoda l’ultimo pezzo di questo leggendario disco, ovvero The Private Psychedelic Reel, lunga ed elettronica ballata dalle atmosfere orientaleggianti, realizzata con la collaborazione dei Mercury Rev, e in particolare della loro voce Jonathan Donahue, che qui però suona il clarinetto. È la summa delle capacità compositive dei “Fratelli Chimici”, una sorta di viaggio da nove minuti, che racchiude la magia, la bellezza, la forza, la bravura, la genialità, che il duo ha sottratto al mondo sogni, e trasformto in pura musica. Stentare a credere. Chiudere gli occhi e lasciarsi andare completamente. Un suono ipnotico del sitar che anima sonorità psichedeliche, proiettate verso il buio spazio. Memorie dell’epoca rave, memorie adolescenziali. Una canzone che entra in testa una volta e non uscirà mai più. In conclusione, d’innanzi a simili giochi di prestigio, i Chemical Brothers finiscono per esser i protagonisti indiscussi della nuova era della musica elettronica. Irraggiungibili.

 
 
 

 

Post n°87 pubblicato il 20 Luglio 2006 da Nekrophiliac
 
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GROOVE ARMADA: GOODBYE COUNTRY (HELLO NIGHTCLUB) (2001)

Caustico ritroso. Al culmine di una vibrante nottata, splende alto il bagliore della luce del nuovo giorno, appena circoscritto alla risacca di un placido mare che solletica il bagnasciuga: è la ricorrente sensazione di uscita dallo stimato club, per il quale, ore fa, ti sei lasciato alle spalle un intero paese. Non c'è scampo. Trip hop, dub, dancehall, e illimitati samples sono i generi, ben assortiti, che si disperdono nell’etere, surrogati dalle piacevoli note, non a caso, “groove” più del solito. L’anima del disco, straordinariamente riuscito al di là delle più rosee aspettative, è qui racchiusa: divertire, stupire, come un bian coniglio fuoriuscito dal cappello di due magici prestigiatori londinesi, Tom Findlay e Andy Cato, e, perché no, resistere anche all’usura del tempo, divenendo un modello per tutti coloro che intenderanno seguire le orme del duo, almeno sino al club. Un nome importante, praticamente fondamentale, per gli appassionati dell’elettronica di qualità. Sotto la sigla Groove Armada si celano coloro i quali collezionarono una piccola serie di successi, con "4 Tune Cooking" e "At the River", nello scorso decennio, già ballati da mezza Europa, prima di compiere il tanto sospirato salto di qualità, coinciso con la pubblicazione del loro album di debutto: Vertigo (1999), che fece in tempo a scalare, di prepotenza, le classifiche del Regno Unito, vincendo persino un disco d'argento. I singoli in esso contenuti conobbero, a rigor di logica, un successo inaspettato: basti pensare a I see you baby, remixata da quel genio di Norman Cook, meglio conosciuto come Fatboy Slim. I Groove Armada, a questo punto, firmarono poi una compilation della serie Back To Mine e, nel 2001, tale capolavoro. Dissimile, polimorfo, “contaminato” e autentico, Goodbye Country (Hello Nightclub), fin dal titolo, è in grado di conquistarsi il suo spazio nella storia. Infatti, si passa da accenni decisamente plastici ed elastici, propriamente dance, ad istanti più "musicali", desiderati, apprezzati e d'atmosfera; inoltre, i due hanno finito col collaborare con molteplici artisti proprio per far sì che il “genere” si contaminasse attraverso una vena creativa che a loro (forse) non appartiene.

Dal tramonto all’alba. Con curiosità, Suntoucher è in prima battuta e promette, in parte, ciò che contraddistingue il disco per la sua intera lunghezza: un ritmo chill-out contornato da reiterate chitarre ovattate, surrogate da una serie di fiati ben riverberati, infine sostenuti da occasionali vocalist, a tratti “black", come nel caso in questione, con il flusso di parole “thrilling” di Jeru The Damaja. Una piacevole sorpresa. Il gioco si ripete con il secondo brano, ma qui il volume dei diffusori acustici si alza all'inverosimile. Superstylin’: ecco il primo singolo estratto, nonché il brano che, magnificamente, racchiude in sé l'essenza dell'intero album. È in grado di fare incontrare il cielo e il mare, cioè l’accattivante acid house e l’inneggiante down beat, risultando congeniale tanto per le dancehall, quanto per radiofonica da esser proposta come sveglia del mattino: tale è il cammino intrapreso dai Groove Armada, che hanno l’ampio merito di “sdoganare la musica dance”, rendendola non soltanto un veicolo di commerciabili folle, bensì, facendo emerge il suo più alto livello qualitativo. Dopo aver spaziato dall'ambient alla techno, non disdegnando incursioni nel trip-hop, i "due ragazzi con il trombone" – in quanto si avvalgono tanto in studio, quanto dal vivo di una sezione di fiati "autentica" – si cimentano qui in un’improbabile congiunzione della spontanea solarità del dub, con la grezza potenza del drum'n'bass. L'apertura è, infatti, ampiamente dedicata ad echi di fiati e percussioni giamaicane, che sono presto tallonate dal penetrante basso che scorta la cadenza decisamente "old school" del guest rapper, M.A.D. Ne risulta una vera e propria granata sonora, la cui autorità non si percepisce completamente dal bizzarro clip, dove due fattorini d’occasione trasportano in giro un gigantesco altoparlante nella speranza di trovare chi sia capace di farlo rendere al massimo.

Attenzione, i tentativi di ristrutturare/rinnovare la musica dance non si fermano certo qui. La seguente Drifted è un trip di psichedelia elettronica alquanto rilassante, ove è labile il confine tracciato tra l’house e la tribal. Atmosfera che da riposante diviene, a dir poco, magica e sognante sulle scandite note di placido pianoforte, con Little By Little, canzone che annovera tra gli ospiti alla voce, quella bellissima ed intensa di una leggenda vivente del soul, quale Richie Havens. Nella traccia successiva, Fogma, dai flessuosi sintetizzatori “a singhiozzo”, il duo londinese decide di confrontarsi direttamente con l'house più classica e impetuosa. La gradevolissima My Friend è una piccola e malinconica gemma d'atmosfera, leggera nell'arrangiamento soft, imperniato sul groove rubato all'intro di Gotta Learn How To Dance della Fatback Band, e minimale nell'unica frase del testo, « Whenever I’m down, I call on you my friend. A helping hand you lend in my time of need », interpretato dalla voce di Celetia Martin, tuttavia, tratta integralmente da Best Friend di Brandy. Uno straordinario esempio di come il sano e genuino lavoro di assemblaggio, in cui la drum machine e gli svariati sintetizzatori trovano un'armonica fusione con strumenti "autentici" quali chitarre funky e organi elettrici, possa risultare oltremisura creativo ed oltremodo innovativo. Tagliato su misura è lo splendente clip d'accompagnamento, con la sequenza delle scene di tangibile vita quotidiana di un'anonima impiegata di città a conferire quel senso di avvilente routine e persistente prevedibilità insite nell'esistenza dell’essere umano moderno, alternate, però, ai fulgidi ricordi degli istanti trascorsi al Sole, in spiaggia, tra feste e altro ancora.

In ogni caso, la sensazione di trovarsi in un mondo virtuale non si esaurisce qui, bensì continua attraverso la propagazione degli effetti sonori iniziali di Lazy Moon, in cui il vento sembra scorrere dolce sottofondo all'arpeggio di una chitarra acustica e alle note di un malinconico del violino. In termini di lunghezza, non si tratta di un breve episodio “bossanova”, tuttavia, all'interno di un disco di analogica musica dance, tra campioni e campionatori, realizzata con grande classe ed ottimo gusto, a dir poco, colpisce e stupisce l’attento ascoltatore che mai si sarebbe aspettato chissà quali “colpi di archi” proprio qui, nel club dei Groove Armada, che immediatamente si rilancia, a seguito di tale pausa con Raisin’ The Stakes, dalle tipiche atmosfere della “vecchia scuola”: ritmo scarno, enormi vibrazioni, convulsi fiati, lungo rap d’assalto. Healing, piuttosto, è la sintesi dell’energia, del dinamismo e del movimento, dove i “bassi” riempiono l’umano sterno a colpi di martello, subito attenuati da una nuova fermata: Edge Hill, che presenta vari inserimenti di chitarra acustica e ottimi arrangiamenti sinfonici, il tutto tracciato su un sapiente tappeto di, ancora, archi. In simili episodi, sembra di trovarsi di fronte ad una vera e propria jam session, anziché ad un lavoro di re-sampling. Il fatto che Andy Cato e Tom Findlay abbiano, generalmente, girato in tour con una band di nove e più elementi può aiutare a afferrare lo spirito che soffia vitale entro l’anima dei Groove Armada. Spazio, allora, a Tuning In, che propone le atmosfere lounge care al duo, laddove su tempo veloce solo a tratti, si distendono nell'ordine: l’onnipresente basso, seppur discreto, la leggera tastiera in appoggio e gli interventi vocali di Tim Hutton, limitati a pochi versi proiettati nell'aere, ove, una manciata di istanti dopo, si propaga cadenzata Join Hands, ripetitiva, anche se efficace a far allentare la tensione. In conclusione, altra perla d’altri tempi: Likwid. A fronte di uno spazio, o forse un’atmosfera parallela al club, si erigono radar che sondano un miscuglio di suoni, dal basso oltre il confine sino a pulsazioni sintetiche, elevando tutto ciò che è ascrivibile sotto la ridicola e banale etichetta di dance, un “qualcosa” che è insuperato e insuperabile per dignità artistica, che mai stanca e che arricchisce l’ascoltatore, a seguito di reiterati ascolti, sempre di nuovi suoni, di sfumature ritmiche, che non possono che rendere il disco mai uguale a se stesso. Rimasti per parecchio, forse troppo, tempo, nella nicchia delle cult-band idolatrate dai soli addetti ai lavori, Tom Findlay e Andy Cato hanno definitivamente sfondato con questo disco, dimostrando, una volta di più, una versatilità ed una sensibilità non comuni, tali da permettere loro di realizzare brani sempre azzeccati pur mutando ogni volta registro e genere. Magnifici.

 
 
 

 

Post n°86 pubblicato il 02 Luglio 2006 da Nekrophiliac
 
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UNDERWORLD: A HUNDRED DAYS OFF (2002)

Milioni di parole. Milioni di paure. E un senso di impotenza che si erano lasciati nel cuore. Darren Emerson è uscito dal gruppo. Gli Underworld si ripresentarono orfani del guru da club. E ciò si percepì da subito. Perché A Hundred Days Off viaggia intorno una sua propria orbita ritmica ripetitiva, oziosa, ebbra, non più diretta discendente della techno di Detroit, ma figlia illegittima tanto dell’ambient di Brian Eno quanto delle eurocentriche visioni dei Kraftwerk. Il cantante Karl Hyde e il produttore Rick Smith ripartirono così da sonorità techno-ambient smorzate dalla vocalità sognante del primo , quasi a voler legittimare la nascita di una nuova era. Forse A Hundred Days Off risulta, ancora oggi, difficilmente digeribile a chi si era invaghito di loro a seguito della magistrale colonna sonora del fortunato Trainspotting. Forse sarà disprezzato da coloro che popolano le notti all’interno dei club, ma è dolce il profumo dei fiori appena schiusi per le numerose api in cerca di cibo. Un disco spiazzante. A seguito dell’ultimo (capo)lavoro in studio, il micidiale Beaucoup Fish (1999), a due anni dalla pubblicazione del fenomenale DVD live Everything, Everything (2000) – dimostrazione di quanto un gruppo elettronico possa valere dal vivo proprio quanto una rock band – ma soprattutto dopo il divorzio dal dj Darren Emerson, si temeva che Karl Hyde e Rick Smith non fossero stati in grado di tenere il passo di un sound che esplose nei primi anni dell’ultimo decennio del secolo scorso con quel capolavoro di techno e contaminazioni che fu il dirompente Dubnobasswithmyheadman (1993) e che ci ha poi accompagnato a lungo. Alla luce di questo loro terminale full-length, dunque, c’è ben poco da temere per il futuro del duo. A Hundred Days Off (2002) riprende gli stilemi espressivi di un suono melodico e trascinante alle cui vette non ci si avvicinava più così tanto da tempo, forse, ancor prima di quel “fulmine a ciel sereno” che fu il singolo aggressivo e trascinante Born Slippy (1995) il collante, da molti atteso, tra elettronica underground e pop-music. In ogni modo, è opportuno precisare che gran parte di ciò che rimane, ritmiche in primis, è ereditato da Darren Emerson, ma i due hanno dimostrato di esser comunque abili nel preservare vivo quel “beat emozionale” che tanto ha fatto sognare e, anzi, ne hanno accentuato, ove possibile, il carattere visionario. Prendere o lasciare? Immancabili tastiere, sincopate percussioni e deleteri ritornelli sono già elementi sufficienti per alzare al massimo il volume. Nel corso della scaletta, Rick Smith e Karl Hyde hanno davvero lasciato il segno, attraverso veri e propri momenti di sublimazione della dance, ma non sono del tutto assenti attimi di ottima elettronica, dimostrazione di tracce sufficientemente dotate di personalità. In ogni modo, Beaucup Fish (1999) era costruito e strutturato d’una musica senza tempo dotata di un'anima propria, mentre il disco in questione resta saldo a ciò che è definibile ed ascrivibile alla realtà, o meglio alla contemporaneità. Groove, techno, elettronica psichedelia ed un saccente e ipnotico utilizzo dello spirito pop fanno del sound Underworld un vero marchio di fabbrica, che si temeva andasse perso. Non è stato per nulla così. Atmosfere leggendarie e al tempo stesso emotive, ricerca di spazi in cui trovare ambienti sì sintetici, bensì con un carattere ed una concretezza rovente e vibrante che si staglia a metà strada tra la pura tecnologia sotto forma di suono e l’umana concezione del movimento e del linguaggio del corpo, ergo la danza. Vocoder e campionamenti sono definitivamente spariti e gli Underworld si sono ormai barricati su caleidoscopici fruscii ambientali, beat ricercati tra trance e techno minimale, orchestrazioni plastiche, “nuove ossessioni” ritmiche di spaziali breakbeat, che creano reticoli sonori la cui esecuzione è, a dir poco, incantevole per quanto sia in grado di derivare ermeticamente elegiaca e martellante. Raramente, poi, si era sentito un Karl Hyde così ispirato, così compositore, così artista: pezzi come Mo Move, Two Months Off, Sola Sistim, Trim, Dinosaur Adventure 3D e Luetin esistono proprio al fine di dimostrarlo. È, infatti, la voce,  più di ogni altra cosa, che sembra fondersi e diventare un tutt’uno con ciò che è musica, connotando un insieme di colori e riflessi luminosi in un crescendo che fa passare in secondo piano alcuni rallentamenti ritmici. Gli Underworld confermano fortemente la loro leadership e finiscono per essere come un fiume in piena: un flusso continuo che scorre veloce e inarrestabile. Sarà che questo è un combo supercollaudato che non ha perso smalto e lucidità, piuttosto, che ha raccolto un abbandono seppur doloroso come una nuova sfida, con animo rinnovato, sarà quel che sarà, ma sembra proprio che il duo sia l’epigono di una certa estatica ed estetica “avanguardia” che ha sempre trovato nella terra d’Albione, la buia Inghilterra, il luogo più fertile dove placidamente prosperare.

Tra artificio e realtà. La tracklist di questo disco ha in sé brani lunghi – una media di circa sette minuti l’uno – ed intensamente legati ad una circolarità sonica che tratteggia un ipotetico spazio dove idealmente si rinvengono e rinascono i generi più difformi e disparati, un parallelo mondo ove gli Underworld ne sono i personali platonici demiurghi. Non c’è niente di meglio che iniziare con Mo Move, costruita su un insieme di suoni globalmente “deep”, filtrati attraverso melodiche suggestioni eteree e “testuali”: « I dream that I’m chemical, I become chemical, ride into the ocean of chemical ». Two Months Off è il primo singolo estratto, nonché la luce che risplende in un oscuro reame.

Gli Underworld rispolverano tastiere e tirano fuori il vecchio anfetaminico mordente, di fatto Two Months Off, non a caso, caratterizzata più del dovuto dall’evidente e dilagante “french-touch”, è destinata alle classifiche, alle piste da ballo e a schiavizzare la mente dell’ascoltatore, pronto a varcare la soglia della tecnologia futuribile grazie all’ammaliante voce-guida di Juanita. Ciò che sorprende è la facilità con la quale ci si avvicina, di continuo, verso nuove imprevedibili sonorità, a dir poco, “etniche”, in una portentosa Twist, che non infiamma i cuori, ma il riscalda. Il che è diverso. Atmosfere stemperate, dimesse e minimali echeggiano nella successiva e riflessiva Sola Sistim, dal placido beat, lento ma ammaliante, una sorta di notturno trip-hop interpretato con dovizia dalla voce del solito Karl Hyde, sempre a suo agio nell’algido box, edificato attorno a sintetizzatori e fiati, dal fido Rick Smith. La rarefazione sonora progredisce e si fa sempre più densa in Little Speaker, che è la chiave di “svolta” dell’intero lavoro: dall’intimità precedente alla “progressione” dilatata e dilagante nel finale di traccia. Malgrado ciò, nessuno si aspetterebbe ora l’appena accennato “cotonato” tono “western blues” di Trim, ennesima coraggiosa creazione che rimanda, per conclamata immaginazione, alla produzione propria dei Depeche Mode, soprattutto per l’eleganza e l’ispirazione espressa qui. Non è tutto, perché l’ennesima prova di forza di un duo che riesce ad essere fruibile, senza realmente volerlo, al di là del dancefloor, è l’acustica Ess Gee, collage sonoro dichiaratamente “chill-out”, connotata quanto mai di una suggestione straordinaria. Sopraggiunge, finalmente, la dance di Dinosaur Adventure 3D, secondo ed ultimo singolo estratto, una sorta di fulmine a ciel sereno a seguito di cotanta quiete.

Gli Underworld, convinti delle loro potenzialità, si riappropriano di loro stessi, facendo sì che il nostro corpo, la nostra mente e anche la nostra anima diventino un tutt’uno, pulsante. Balletlane, piuttosto, richiama alla mente e alla gola un certo aroma jazz, scelta stilistica che si avvicina al sound tipico dei St. Germain, mentre la terminale Luetin sembra sorniona nel suo incedere, ma durante la sua lunga progressione si colora e si connota di mille ed una sfumature, mai impercettibili, bensì tangibili, talvolta oniriche. Il risveglio degli stoici Underworld è ormai inequivocabile, in sostanza, devastante.

 
 
 

Post N° 85

Post n°85 pubblicato il 23 Giugno 2006 da Nekrophiliac
 
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SYSTEM OF A DOWN: TOXICITY (2001) 

Micidiale tossica follia. Qual è il rischio più grosso nel bissare un successo? Il fallimento del bis. I System Of A Down non hanno fallito, sono venuti meno alla routine, hanno confezionato un piccolo miracolo incidendo Toxicity. Sono riusciti a tornare sulle scene con qualcosa di ugualmente potente e addirittura superiore confermando e soprattutto superando le aspettative. Spesso l’attesa dei fan, l’attenzione pressante dei critici, la paura di non riuscire ad eguagliare il primo successo, gli enormi carichi di responsabilità arrivati dopo esso, i tour e i vari nuovi e molteplici impegni portano a una seconda uscita di un album non degno di nota, cosa che invece non è stata per i System Of A Down, che sono riusciti a curare ogni piccolo particolare, un lavoro estremamente razionale nella sua irrazionalità più completa. Ricco di echi, suggestioni mediorientali e sfumature che nel primo non sempre si riuscivano a cogliere. Preciso in ogni piccola scelta, in ogni suono, anche se il miscelarsi di punk, metal, hardcore, folk e musica tribale potrebbero far perdere questo “equilibrio” razionale, ma è un mix incastrato alla perfezione. Alcuni critici lo hanno definito « un lavoro folle, deviato, malato, ma maledettamente intelligente ». Anche se gia nei primi tour, con il primo album fecero da spalla a degni gruppi del mondo metal, come gli Slayer, anche dopo la loro definitiva consacrazione nell’ambiente metal sul palco dell’Ozz Fest nel 1998, anche dopo il tour mondiale e il doppio disco di platino portati a casa con il loro primo e omonimo album, i System Of A Down si confermano sulle scene mondiali piazzandosi direttamente in classifica nel 2001 con il loro secondo disco. Toxicity, con cui la band sfonda il muro della notorietà vendendo più di 6 milioni di copie in tutto il mondo e riuscendo a farsi conoscere anche oltre confine, scatenando subito una forte diatriba tra i fan sul genere di riferimento dell'album: per la maggior parte dei critici i System Of A Down rientrano infatti nelle tendenze nu-metal ma, a causa della frequente connotazione spregiativa che viene data al termine, alcuni fan si ribellano e spingono invece per far rientrare i System Of A Down nel novero dei gruppi progressive o quantomeno del metal alternativo. Toxicity li ha ormai catapultati tra le metal band, gruppo si “cattivo”, ma al tempo stesso in grado di utilizzare suoni energici e originali nello stesso momento, band “dura” che riesce ad essere anche impegnata socialmente, tanto da tirar fuori, dopo la notorietà  discussi video antibellici, campagne anti-bush e dichiarazioni di impegno militante. In confronto al primo album i suoni si fanno più “puliti”, leggermente più melodici, ma non per questo escono dalla scena metal, anzi, le forti influenze metal miscelate alle sonorità tipiche armene fanno sì che la musica dei System Of A Down si confermi particolarmente originale e riesca a catturare l'attenzione di milioni di fans.

Un po’ paladini della giustizia, un po’ pure briganti. Con Toxicity (2001) il gruppo, l’anno seguente la sua uscita si ritrova come head-liners all’Ozzfest, dovendo prendere il posto di Ozzy Osbourne per qualche tappa, degna consacrazione di degno album. Così che chitarre distorte, sonorità originali che ricordano il medioriente, oscure melodie che ipnotizzano e testi di lotta politica sono la conferma della band, non sono più degli emergenti. L’album da amare quanto odiare, perché dopo questo difficile trovare, o sperare in un’uscita che lo superi, in cui ogni traccia è una traccia a se e bella per questo. Album che ha diviso la categoria nu-metal, genialata o solita solfa? A mio parere quest’album è uno di quei pochi da portarsi su un’isola deserta, uno di quegli album che non ti deludono dal primo minuto all’ultimo, non ti stufano per quanto tu possa premere “repeat” sullo stereo. Chi lo definisce nu-metal, chi hardcore, chi trash, chi rock, io non lo definirei proprio, è un genere a se che riesce a fondere perfettamente le sonorità dure e spigolose del metal con la fluidità dei ritmi ben più morbidi della tradizione armena. I giochi di voce di Serj Tankian ti stupiscono e ti incantano, gli assoli di chitarra Daron Malakian ti ipnotizzano, il basso di Shavo Odadjian ti entra nel cervello e la batteria di John Dolmaian la senti vibrare entro tale incastro perfetto. Ogni singola traccia è una canzone a se, ma al tempo stesso si miscela perfettamente con quella precedente e quella successiva. In ogni canzone c’è da emozionarsi, la senti partire da dentro, che esce fuori come una furia, un vulcano in eruzione, con la lava che ti scivola addosso, pur avendo quel non so che di piacevole, ma al tempo stesso lancinante. Ogni singola emozione data da questo disco è intensa come pochi riescono a darti: le sonorità originali, diverse dal solito contesto del nu-metal, la voce a più registri, con diverse tonalità in ogni traccia, i ritmi incostanti della loro musica riescono a farti immergere in una diversa realtà. Anche se considerata band statunitense d’adozione, non perdono occasione di ricordare al pubblico che la loro musica è una delle vie di sfogo e di denuncia per il genocidio subito dagli Armeni. La politica e le idee antimilitaristiche sono costanti in Toxicity (2001). Non li si può considerare solo una band nu-metal, non li si può considerare solo una delle tante band che usano la musica a scopo politico, i System Of A Down sono una delle poche band che utilizzando sempre le stesse sette note che utilizzano tutti i gruppi, tutti coloro che fanno musica, sono riusciti a tirar fuori qualcosa di originale, di intelligente, di socialmente utile, di idealmente e politicamente corretto (dal mio punto di vista) e spesso per gruppi del genere, o li ami o li odi, odiarli non fa per me.

Un insieme complesso. Attacco subito al potere, attacco di chitarra violento con Prison Song, voce sussurrata e chitarra violenta, growl e testo veloce cantato da Serj Tankian e Daron Malakian che si alternano. « I buy my crack, I smack my bitch, right here in Hollywood »,  testo aggressivo, prepotente, rabbioso sul sistema carcerario degli Stati Uniti d’America, e sul sistema carcerario di ognuno di noi, le nostre vite, la nostra prigione – dal sociale al personale – un decrescendo di tono, fin quando il suono vocale sembra avvicinarsi a quello di una canzone d’amore che non è « They're trying to build a prison. For you and me. Oh baby, you and me » e poi di nuovo un crescendo in velocità, fino allo stridio finale della chitarra. Needles è lo stesso violenta, ma più costante nel sound. Il dolore interno di ognuno di noi viene scandito dalle parole rigettate a una velocità disarmante e al suono di una chitarra e un basso che ti entrano dentro, fin quando Daron Malakian con « I'm just sitting in my room. With a needle in my hand. Just waiting for the tomb. Of some old dying man. Sitting in my room. With a needle in my hand. Just waiting for the tomb. Of some old dying man? » ci pregia di questo suo momento vocale degno di nota, fuori dal contesto del suono, ma perfettamente incastonato nella canzone. Con Deer Dance compare gia il saltare di tono in tono, soprattutto vocale – la danza del cervo era una danza propiziatoria per la pace che usavano i nativi americani danzando in cerchio – come se fosse una cantilena, come se fosse un giro tondo, una denuncia della società americana, dei bambini che vivono abbindolati dal mondo di plastica, dell’america vendicativa del « andrà tutto bene noi siamo l’America », una denuncia sulle frottole raccontate, sulla vita del soldato arruolato senza nessun motivo: « A deer dance, invitation to peace, War staring you in the face, dressed in black. With a helmet, fiere. Trained and appropriate for the malcontents. For the disproportioned malcontents. The little boy smiled. It'll all be well ». Un urlo che a volte ricorda il sound e il ritmo dello ska, ma miscelato a un metal “cattivo”, col basso che scandisce il tempo, violento, veloce, melodico, triste e di nuovo prepotente, che ferisce. Cambia sound Jet Pilot, dura sin dall’inizio, con un ritornello costante, sempre uguale, che entra dentro, veloce come una lama, ed intervallato da quel soud “orientale” - « My, source, is the source of all creation. Her, discourse is that we all don't survey. The skies, right bifore. Right before they go gray. My source, and my remorse. Flying over a great bay » - che spezza la cantilena, cantilena spedita, ritmata, un rimorso che riaffiora alla mente e che con un attimo viene spazzato via. X è una canzone a se, doveva essere l’ultima del primo album, ma per vari motivi venne posticipata a questo. Il ritmo si fonde perfettamente con Jet Pilot, ma non è più una cantilena, è un lanciare immagini con la musica, con il basso e la chitarra che stride, con la batteria che colpisce dove sa che deve colpire, « Tell the people, tell the people that arrive. We don’t need to multiply. Die! ». La canzone è un grido contro la massificazione, « non abbiamo bisogno di annullarci », porta con se il suono meno fluido del primo album, del cambio di tono costante e rabbioso, ma anticipa il singolo che li porta sulle vette delle classifiche. Ecco Chop Suey!. Chi conosce i System Of A Down non può non conoscere Chop Suey!, è l’esempio portante del loro genere, della loro musica, della miscela di metal, sound orientaleggiante, ferocia, malinconia, ira, dove il titolo originale doveva essere “Suicide”, modificato dalla band in Chop Suey!, che ne ricorda per sonorità il titolo originale. « I die when angel deserve to die » è un grido disperato, a cui si aggiungono  richiami ai versi della bibbia - « Father, into your hands, I commend my spirit » (Luca 23,46) e « Why have you forsaken me » (Marco 15,34) - come se fosse un’ultima preghiera, una richiesta sconsolata, così come sono i versi, così come sembra la canzone stessa. Serj Tankian cambia tonalità almeno tre o quattro volte nello stesso testo, da melodico a growl, urla, scalpita, grida, canta e si dispera allo stesso tempo. Gli strumenti uniscono il tutto rendendolo un capolavoro, la prova la si ha ascoltando le ultime righe ad occhi chiusi « Trust in my self righteous suicide. I, cry, when angels deserve to die. In my self righteous suicide. I, cry, when angels deserve to die ».

Con Bounce si ricambia suono. Nelle esibizioni dal vivo, Serj Tankian accompagna il suono della chitarra con « pogo pogo pogo » e un gesto della mano che sottolinea l’ambiguità del bastone a molla richiamato dalla canzone. Sembra una canzone senza senso, ma basta riflettere al doppio senso del « salta salta » ed ecco che esce fuori il significato vero e proprio della canzone stessa. Svelta, spezzata da una doppia voce di Serj Tankian e Daron Malakian, come se fossero il coro di sottofondo, la chitarra da senso alla canzone, da ritmo: « Oh, I like to spread you out. Touching whoever's behind », quest’ultimo verso sembra cantato da fantasmi, su un altra tonalità, su un altro ritmo, a riprendere l’introduzione della canzone nella stesura iniziale con un “dudek”, flauto armeno. Con Forest si torna al sociale, chi siamo, cosa stiamo diventando, cosa faranno le nuove generazioni: « You saw the forest, now come inside. You took the legend for its fall. You saw the product of it all. No televisions in the air. No circumcisions on the chair. You made the weapons for us all. Just look at us now ». Perché non riusciamo a vedere cosa siamo, e cosa stiamo facendo? Chitarra e batteria la fanno da padrona, l’estensione vocale di Serj Tankian si nota in tutta la canzone, in ogni strofa, in ogni singola parola. Si cambia di nuovo, chitarra strimpellata, lenta, e un “na-na-na-na” dolce come una “ninna-nanna”, suono tenero, lento, avvicinato con la seconda voce di Daron Malakian in sottofondo, spezzato da un grido, dalla chitarra, dalla rabbia. ATWA è questo, un intermezzo tra rabbia e dolcezza. ATWA (air, trees, water, animals) aria, alberi, acqua e animali. La terra, il nostro mondo, la natura e cosa ci accade intorno. Un mix di dolcezza e astio da far paura, completamente miscelato e fluido, indivisibile, come due volti della stessa medaglia: « You don't care about how I feel. I don't feel it anymore. I don't sleep, anymore. I don't eat, anymore. I don't live anymore. I don't feel », sembra come una domanda, insomma, ci stiamo annullando? ATWA è un acronimo della filosofia ambientale di Charles Mason che crede di poter preservare la terra eliminando interamente l’inquinamento umano e riportando all’equilibrio primordiale flora e fauna. I System Of A Down non sono sensibili solo al tema della guerra. Con Science si ritorna alle sonorità iniziali dell’album, il cocktail perfetto di metal e lontano oriente, dove però stavolta l’intermedio è suonato da un polistrumentalista armeno, Arto Tuncboyaciyan, che ritroveremo verso la fine dell’album. Scienza come progresso o come rovina per l’umanità? « Science has failed our world, Science has failed our Mother Earth ». Un richiamo a quella che viene chiamata fede, alla spiritualità della vita, un ricordarsi che non esiste solo il mondo materiale fatto di formule, progresso e studi, dove l’uomo si muove verso l’ “inesplorato” grazie alla fede, allo spirito e alla voglia di conoscenza. Shimmy riporta tutto allo stato iniziale, confusionale, parole apparentemente messe alla rinfusa, ma che hanno il loro significato. Ed ecco di nuovo quel crescendo ritmato dal basso, aiutato dalla batteria: « Don't be late for school again boy. Don't be late for school again girl ». Ritmo, preciso, costante, pressante, istruzione, educazione e voglia di uscire fuori dagli schemi. Proprio ciò che fanno i System Of A Down giocando col sound di questa canzone. Dodicesima canzone, secondo singolo, “tossicità” porta il titolo dell’album. Toxicity per quanto uno possa descriverla, raccontarla, recensirla è solo limitarla nella sua complessità. La chitarra iniziale ti fa saltare in piedi, te la fa riconoscere dalle prime note, ti fa partire di testa, ti fa tenere il ritmo col piede, con la mano simuli il suonare le corde. Un sussurro, la voce di Serj Tankian che si fa più presente, fino al lamento, all’urlo di « How do you own disorder, disorder. Now, somewhere between the sacred silence. Sacred silence and sleep. Somewhere, between the sacred silence and sleep. Disorder, disorder, disorder ».

Disordine, disordine, ma la traccia è tutto tranne che disordinata, è un insieme di suoni, lenti, melodici, veloci, furiosi, eppure ha un suo preciso ordine, che delinea, non a caso, il disordine in cui viviamo, nella nostra tossicità, nel nostro veleno. L’assolo di chitarra finale, accompagnato all’urlo di Serj Tankian è degno di nota, indescrivibile. Con Psycho ci avviciniamo alla fine dell’album, altro sound, diverso atteggiamento, e diverso approccio alla canzone, dal disordine ordinato di Toxicity alla confusione totale della tredicesima traccia. Il basso ne segna la psicosi. Parole una dietro l’altra senza congiunzioni. Psicosi, cocaina, il non fermarsi e di nuovo ecco il suond orientale destreggiarsi tra le parole, le unisce, le spiega, rende fluida la canzone: « So you want the world to stop. Rushing to watch your spirit fully drop. From the time you were a psycho, groupie, cocaine, crazy ». La psicosi risulta essere descritta perfettamente in 3.44 minuti di canzone. Ultima traccia, terzo singolo dell’album, Serj Tankian nei live accompagna Daron Malakian alla chitarra quando suona questo pezzo. Aerials, i trapezisti, video circense particolare degno di una canzone particolarissima.

Nuovamente, più domande riecheggiano. chi siamo, cosa diventiamo, cosa dobbiamo fare, cosa vogliamo: « And we are the ones that want to chose. Always want to play. But you never want to lose ». Ci copriamo di maschere, a tal punto da non sapere più quale sia la nostra realtà: « trapezisti nel cielo, quando abbandoni la chiusura mentale liberi la tua vita », soltanto che non tutti noi siamo in grado di farlo e finiamo per abbandonarci ad essa, da trapezisti a trapezi della propria vita (letteralmente aerials significa eterei, trapezisti, aerialists in inglese, è una semplice metafora). Una chicca per chi possiede l’album originale: la chiusura del disco non si ha con Aerials ma bensì con Arto, canzone fuori dagli schemi del disco, un’altra dimensione, un altro stato d’animo, altre immagini e altri disegni nella mente: la terra armena. Serj Tankian accompagna il percussionista armeno che ha gia lasciato segno in un paio di canzoni di questo album per ricordare una delle messe cantate armene, per la precisione è la messa scritta da Komitas, monaco e compositore armeno che impazzì alla vista degli orrori commessi dai Turchi durante il genocidio armeno. Con ciò si conclude degnamente un disco che credo faccia parte della storia non solo del metal ma della musica, si conclude ma nessun vieta di risentirlo.

 
 
 

 

Post n°84 pubblicato il 08 Giugno 2006 da Nekrophiliac
 
Foto di Nekrophiliac

DEPECHE MODE: EXCITER (2001)

L’eccitante rinascita. Ad oltre un onorato e travagliato ventennio dal loro album di debutto, Speak And Spell (1981), con più di 50 milioni di copie vendute per “soli” dieci opere alle spalle, i mai sazi Depeche Mode – “in anticipo” circa le tendenze future – ritornarono sulla scena con Exciter, perfetta rappresentazione della loro straordinaria evoluzione stilistica. Non era facile rimanere sulla cresta dell'onda, almeno non lo sarebbe stato per un'artista qualsiasi, lo fu, invece, per il gruppo in questione. Ri-trovare l'ispirazione dopo innumerevoli gioie e sforzarsi di riuscire, ancora una volta, a regalare fluttuanti emozioni a seguito di ripetute uscite, sembrerebbero compiti che prevedono un non facile assolvimento. Transitati dall'electro-pop – di cui furono tra i promotori negli anni '80 – a sonorità a tratti più solari, Dave Gahan, Martin Gore e Andrew Flecher si presentarono, all’alba del terzo millennio, sotto una veste davvero inedita. Realizzato in collaborazione con Mark Bell, minimalista produttore degli atmosferi e drammatici Homogenic (1997) e Selmasongs (2000) dell’islandese Björk, il rarefatto Exciter non poté che colpire sin dal primo ascolto per la prestanza e la vitalità dei brani presenti, caratterizzati da arrangiamenti geniali – come è giusto e solito aspettarsi dal terzetto – e da corposi e mai banali testi. È altrettanto vero che molti fans "storici", dal 2001 ad oggi, hanno manifestato contro la “sterzata” stilistica fin troppo brusca della band, ma ciò non deve affatto trarre in inganno, perché tali considerazioni sono state tanto premature quanto errate: Exciter è dannatamente “pop”, eppure il risultato finale è, a dir poco, raffinato e superbo, rispetto agli “illustri o tali” predecessori dell’ultimo decennio. Cos'è esattamente Exciter? Un elegante, sinuoso e notturno affresco sonoro, interpretato con tanta classe e una mano sul cuore. « Eppure trovo che questo sia un lavoro più esaltante dei precedenti », spiega Martin Gore. Una sensazione di sollievo “artistico” che non può non far pensare anche alla ripresa del front-man della band Dave Gahan, personalità carismatica che, per poco, non è rimasta vittima di una gravissima dipendenza da droghe pesanti. Nove anni fa, pochi giorni prima dell'uscita di Ultra (1997), era stato trovato in stato di incoscienza in una camera d'albergo di Los Angeles, a seguito di un tentativo fallito di suicidio ed era stato poi, ovviamente, arrestato per possesso di droga. Il completo “recupero” di Dave Gahan è decisivo per la resa di Exciter. « Sono migliorato dal punto di vista vocale. Mi piace immergermi in ogni canzone fino a scomparirci dentro. Con Ultra non ero riuscito a farlo, non ero fisicamente in grado di farlo. Ma ora sono di nuovo a pieno regime. Sono più sicuro di me e cerco di mettere qualcosa di bello in ogni pezzo », precisa il cantante. La differenza si sente, eccome. Dave Gahan pare aver riconquistato non soltanto l’avvolgente e profondo timbro della sua versatile e "convinta" voce, ma soprattutto le innate doti istrioniche che ne hanno fatto l'emblema dei Depeche Mode, anche se, a bocce ferme, il vero "deus ex machina", nonché garanzia compositiva di totale qualità, resta pur sempre Martin Gore, un attimo più defilato nel rapportarsi con l’esterno. « Quelle di Exciter avrebbero potuto essere state in tutto e per tutto canzoni risalenti alle varie fasi della storia della band. Questo disco è un po' come se fosse un Greatest Hits di brani mai pubblicati in precedenza. Con questo non voglio dire che saranno per forza dei successi stupefacenti. Penso semplicemente che sia un lavoro pieno di forza. Le canzoni hanno un suono nuovo, fresco. Eppure Exciter mi ricorda uno dei nostri primi album, Black Celebration (1986). Tante canzoni diverse tra loro che però funzionano perfettamente una dopo l'altra nello stesso album », sottoscrive, a conferma dei buoni propositi, Andrew Fletcher che, dalle origini della band, è il deputato addetto alla ritmica e al bass-synth. Il suono, per l’appunto, è come sempre all'avanguardia, liquefacendo basi elettroniche a momenti più elettrici ed acustici, con un tappeto ritmico spesso sornione, una sorta di alienante centrifuga lo-fi, trip hop, drum'n bass, sfruttando, di tanto in tanto, ambientazioni classiche e digressioni verso toni distorti e chitarre al limite dell’heavy metal. Un insieme omogeneo. Si è puntato più su un certo tipo di atmosfera eterea ed elettronica che potrebbe non andar sempre “a bersaglio”, e sicuramente non fa di Exciter un'esperienza d'ascolto immediata e coinvolgente, ma al fine di comprendere lo spazio interiore, al pari della freddo distacco di fondo che sembra attanagliare tutti i brani, è richiesto più d’un ascolto. Un insieme straniante. Certamente, non sperimentale.

Continua a sognare. È l’elettronico imperativo categorico. Dream On – non a caso primo singolo estratto, nonché brano con cui sboccia l’eccitante fiore notturno – è denso di suggestioni oniriche e, opportunamente, la struttura crepuscolare che assume secondo dopo secondo, denotando una sorta di inquieta tranquillità, ai limiti dell’irreale, che si muove su un tema principale a cui si aggiungono delicati arpeggi di chitarra, come una femminile mano che accarezza l’ascoltatore nel pieno del suo sonno o sogno musicale. Spiega Martin Gore, « Avevo preparato l'abbozzo di Dream On su chitarra. Ma l'idea era quella di far sparire del tutto quella chitarra dalla versione definitiva. Nel frattempo abbiamo lavorato su percussioni elettroniche piuttosto tese e affilate, quelle che si sentono in sottofondo, e quando le abbiamo sovrapposte a quella traccia di chitarra ne è uscita un'alchimia perfetta ».

Allucinogena, felpata e ritmata, Dream On sembra essere una bizzarra ma trascinante luce nel buio che si staglia, suo malgrado, al di sopra di un altrettanto polveroso tracciato, highway tra la vita e la morte.

Paying debt to karma [Pagando il debito al karma]

You party for a living [Fai festa per la vita]

What you take won't kill you [Quel che prendi non ti ucciderà]

But careful what you're giving [Ma stai attento a ciò che stai dando via]

I Depeche Mode così hanno re-imposto il loro marchio di fabbrica. Segue una godibile Shine che va dischiudendosi a partire da indefinite e indistinte inflessioni psichedeliche, sino a dilatarsi su freddi inserti ritmici, che si mantengono massicci per l’intera sua durata, a sua volta, impiantata da passaggi evoluti sonori, talvolta squisitamente retrò. È qui che si rivela una grande capacità di variare, sapientemente, registro, da una traccia all’altra. Ecco, a rigor di logica, The Sweetest Condition che un feeling decisamente blues. Ennesimo cambio di rotta. La vischiosa The Sweetest Condition risulta singolarmente vicina a generi non conformi all’ottica del britannico trio, dato che resta in parte rettificata dall’ordinario fondale elettronico; quindi, si delinea come “ballata allargata” alle più diverse contaminazioni, forte di un ingannevole e indisposto motivo e di aguzzate intromissioni strumentali lentamente filtrate e sottoposte a stravolgenti effetti d'eco. Una nuova ballata è alle porte: When The Body Speaks. Silenziosa, sottomessa e suadente, è una traccia moderata, “all’inglese”, accreditata la sua effettiva contiguità con alcuni canoni psichedelici dei primi anni '90, divenuti poi nuovamente melodici, come nel caso dei Verve pre-1997. When the Body Speaks, dominata dall’arpeggio della chitarra di Martin Gore, è seppur triste e interpretata con leggerezza, gravida di suggestione. Nuovamente spazio all’industriale pezzo che l’ascoltatore-medio non si aspetta. La prepotente e ridondante The Dead Of Night suona davvero insolita, i Depeche Mode qui si rendono protagonisti di coraggiosi ed energici arrangiamenti metallici, eclatante input del nuovo producer Mark Bell, per niente nuovo ad “atmosfere” del genere. Fra episodi languidi e suoni insolitamente duri, Exciter scorre via piacevole: organico binomio che manifesta i segnali di una nuova vita e connota un capolavoro imprevisto e improvviso. Quanti altri gruppi possono dire di aver fatto lo stesso? Lovetheme, intanto, è l’ordinario inserto strumentale che si deve al genio Martin Gore, il quale plasma una manciata di piacevoli secondi atmosferici che fungono da perfetta introduzione, tanto tematica quanto sonora, a ciò che musicalmente e intimamente seguirà: Freelove, terzo singolo estratto. Melodica, tiepida, dal sintetizzato e sintetico battito, adornata da orpelli sonori che arricchiscono il tutto, Freelove è, come Shine in precedenza, un richiamo ai tempi che furono, analizzando, per giunta, le relazioni umane, il vero trait d’union di Exciter (2001). « Scrivo di quello che mi tocca di più e che mi appassiona », chiarisce lo stesso Martin Gore, da sempre autore delle musiche e dei testi. Parole in cui Dave Gahan si è immerso totalmente, con un'aggressività e delle sontuose intonazioni che fanno di lui, spiega il tastierista, un artista completo. « Ho amato Freelove fin dal primo ascolto del demo », conferma il cantante. « La forma era ancora grezza, ma già si capiva che nascondeva dentro una meravigliosa melodia pop, una delle più belle che Martin Gore abbia mai scritto, paragonabile a Enjoy The Silence in Violator (1990) ».

Freelove ammalia e, in effetti, se “suona” a mo’ di raffinata canzone pop, un richiamo ai tipici suoni techno e industriali, quelli che battevano martellanti, impareggiabilmente "teutonici", in Master And Servant e People Are People (entrambe da Some Great Reward, 1984), si ritrovano del tutto “smorzati” e appena percepibili, invece, in Comatose, dove la forma del brano è intangibile, dinamica, lenta, varia o statica. Una sorta di spirale sembra avvolgere il tutto. È come un vuoto errore in fase di montaggio, dove il suono è evocativo e altrettanto caoticamente oppressivo. Saranno queste le sembianze del futuro dei Depeche Mode? Playing The Angel (2005), per ora, si è discostato da tale “pronostico”, poiché ha finito per seguire ciò che Andrew Fletcher definì il “nuovo percorso”, intrapreso a partire dalla « sapiente fusione di elettronica e blues suonato con la chitarra acustica », il primo pezzo della nuova era, vale a dire, Dream On. Non è tutto, proprio perché c’era chi era, ugualmente, pronto a scommettere che il trio intraprendesse strade “alternative”, seguendo quanto realizzato con I Feel Loved, il secondo, e straordinariamente coinvolgente, singolo estratto.

Lascia attoniti per la ritmica tribale del suo svolgersi, tambureggiante e primitiva fino a quando si distende un assolo pressappoco incendiario di Martin Gore, riproposto anche più avanti, proprio nel momento in cui si odono tali parole:

As the darkness closes in [Appena cala l'oscurità]

In my head I hear whispering [Nella mia testa sento sussurrare]

Questioning and beckoning [Domandare e chiamare]

But I'm not taken in [Ma non vengo catturato]

È inconsueta e naturale spensieratezza che qui si riesce a percepire, interpretata magistralmente da Dave Gahan, spudorato, sboccato, ma raffinato nel suo canto, dove il nuovo suono si abbina senza contingenti problemi, dato che riesce ad associare vocalità classiche a un timbro più acustico e sfumato come nel caso delineato da I Feel Loved, un taglio, qui, nettissimo, col passato. La melodrammatica Breathe, piuttosto, rimanda alla “tradizione” dei lenti cantati dalla calda voce di Martin Gore – quali Home (da Ultra, 1997), One Caress (da Songs Of Faith And Devotion, 1993) e A Question Of Lust (da Black Celebration, 1986) – e soprattutto alle parti di Condemnation (da Songs Of Faith And Devotion, 1993) nel suo dispiegarsi in modo sostanziale vocale, lasciando galleggiare qua e là una base musicale ondeggiante, su cu si erge una specie di filastrocca d’altri tempi circa il modo in cui i pettegolezzi, e tanto più il “passaparola”, sono in grado di rovinare una storia d’amore. La piacevole Easy Tiger è la secondo ed ultima intermissione strumentale di Martin Gore, ammantata qui d’un sacro velo quasi religioso, ai limiti della new age. Infine, è il turno dell’ammiccante I Am You, che si colloca a pochi passi dal trip-hop, in odore di Massive Attack: discreta parte della circoscritta caratterizzazione melodica è affidata al solo Dave Gahan, sporadicamente supportato da contemplate ingerenze della sezione strumentale, che nel segmento finale prende addirittura il sopravvento e conduce, improvvisamente, il brano ad un secco epilogo. La conclusione è affidata al quarto soave singolo estratto, Goodnight Lovers, che mantiene ciò che il titolo esplica: un'apertura dal sapore quasi cinematografico è seguita da una sussurrata e flebile ballata, accompagnata da gentili voci corali d'accompagnamento.

Dignitoso è il commiato a fari spenti offerto dai Depeche Mode. Inossidabili.

 
 
 

 

Post n°83 pubblicato il 31 Maggio 2006 da Nekrophiliac
 
Foto di Nekrophiliac

DADDY G: DJ KICKS (2004)

Identità a colori. Daddy G dei Massive Attack, nome di assoluto prestigio, è ormai una realtà che, come si usa dire in questi casi, non ha bisogno di molte presentazioni. Membro fondatore e tuttora elemento attivo dei seminali Massive Attack, è anima di quell'ensemble che, partendo dall'hip-hop pionieristico, ha saputo creare atmosfere visionarie, “infettando” l'incedere del gravitante beat in 4/4 con colorazioni e fascinose dilatazioni. Questo è il suo mondo sonoro, il chiarimento della sua dote portata nella musica del gruppo a cui appartiene ed ogni suo set è sempre occasione per uno spiazzante viaggio per le strade della black music, dell'hip-hop appunto e, dell'inquietudine urbana, unendo a questo anche le rifrazioni del dub, del reggae e varie sperimentazioni elettroniche. Un attitudine meticcia che lo ha accompagnato nell'esperienza del “Wild Bunch Sound System” e nella sua successiva evoluzione con Massive Attack, da cui decide di separarsi temporaneamente nel 2003, dedicandosi a una breve carriera solista. Che cosa mancava nell’ultimo, magnifico, album dei Massive Attack? L’energia, quella di Daddy G, l’anima nera della band, che alla composizione di 100th Window (2003) non ha partecipato, lasciando Robert Del Naja in preda ai suoi incubi personali, gelidi e tecnologici. Il resto di tale sottrazione è tutta contenuta in questa selezione. Ed è così che, al già prezioso diadema rappresentato dalla serie “Dj Kicks” si aggiunge, infine, uno dei gioielli più lucenti: è il turno proprio di Grant "Daddy G" Marshall, vero trait d'union tra multiple sonorità, di sedersi davanti all'ideale stereo che la mitica etichetta berlinese K7 mette a disposizione degli artisti coinvolti nel progetto. Una vera moda, la lista dei talentuosi dj e remixers chiamati alla compilazione del Dj Kicks. Fautori della scena agli albori ricordiamo Vikter Duplaix, la “premiata ditta” Kruder & Dorfmeister, Stereo MC's, Thievery Corporation, Kid Loco, Truby Trio, Nightmares On Wax, non ultimo in ordine di apparizione Erlend Øye, il 50% dei Kings Of Convinience. Delle serie “Dj Kicks”, oramai, il conto è stato perso tempo fa, e in nostra aiuto non giunge neanche una qualsiasi forma di numerazione che prima l'etichetta attribuiva, fatto che sta ad indicare il più che voluto intento di rendere la fortunata serie praticamente senza termine stabilito. È ed un bene, soprattutto se di tanto in tanto emergono opere come quella scalciata da Daddy G, oramai parte integrante dell'araldo della città di Bristol e del suo sound difficilmente confondibile, che ha inciso profondamente il modo di fare musica da quindici anni a questa parte. In ogni volume della serie “Dj Kicks” scappa sempre fuori la scheggia che non ti aspetti, l'artista-feticcio o il brano che deliziosamente stona nell'immagine mentale; con Daddy G invece tutto torna a suo posto, tutto è già come ti aspetti, il che non sempre è un male davanti a tanta grazia, ma di certo lo spirito della compilazione K7 sembra rilassarsi. Con sapienza e sensibilità, infatti, Daddy G mescola in un unico irresistibile flusso sonoro alcuni remix che i Massive Attack hanno fatto per altri o che altri hanno fatto per loro. A dire il vero, non sempre "pulito" e “preciso” nel mixing, a volte dei veri e propri "stacchi", Daddy G è stato l'anima soul dei Massive Attack e tiene a precisare la sua vocazione anche in questa compilation. Avanti e indietro nel tempo, facendo anche accostamenti azzardati. Daddy G è riuscito ad estrapolare l'anima del trip-hop, sviscerando in un sol colpo la sua concezione di calore soul, di spazio dilatato (si legga dub) e di ritmo (si legga hip-hop), ma anche di influenze disparate e sanguigne. Insomma, tutto ciò che ha influenzato il trip-hop e tutto ciò che il trip-hop ha influenzato a sua volta. In un sol colpo.

Jamaica aroma. L’installazione sonora conta di diciassette brani che spaziano in questo suo enorme calderone di influenze sonore. Daddy G sceglie saggiamente di giocare in casa, proponendo una tracklist rappresentativa della sua sfaccettata personalità musicale in cui non possono che spiccare i ben noti nomi di Tricky e degli stessi Massive Attack. Che siano protagoniste di un festino da centro sociale, di un playground periferico o di un ascolto casalingo, quindi, queste diciassette tracce faranno sicuramente la loro figura. Daddy G svolge egregiamente il proprio dovere, a partire già dall’Intro di Philip Levi & Tipper Irie, che riscalda l’atmosfera prima di Armagideon Time di Willie Williams - « la mia registrazione preferita » - una leggendaria traccia per la storia del reggae, seguita a ruota dal breve “stacco” di Rockfort Rock dei Sound Dimensions. Basta poco per comprendere che ci si trova di fronte ad un album decisamente “per intenditori” che sapranno sicuramente apprezzare anche insolite scelte reggae in questa prima parte, soprattutto se in versioni non comuni come Dawn Peen, tirata a lucido dal languore “triphoppeggiante” francese di Non Non Non firmata da Melaaz, in un vestito francese con la sua Non Non Non. Riecco, il metropolitano “angelo dalla faccia sporca”, Tricky, nero, tanto nero, tantissimo, nel suo esatto equilibrio tra fisicità e spiritualità soul, nonché illustre “compagno di merende” di una decina d’anni fa del trio di Bristol, a cui è concesso l'onore di un cosiddetto “unreleased mix”, quell'Aftermath che segnò proprio il bivio con i Massive Attack. Per questo set, Daddy G ha scavato in profondità nei suoi case, rinvenendo affetti personali, cioè il funky motown di Just Kissed My Baby – traccia che gli splendidi Meters scrissero per Ava, sua figlia – e varie tracce “fatte in casa”, cioè gli ovvi remix per un mai compianto Nusrat Fateh Ali Khan e Les Negresses Vertes, riproponendo in chiave dub prima Musst Musst e poi Face À La Mer. Senza ombra di dubbio, è questa la “sua” intima e mediterranea musica, ma la vera nota di ampio rilievo è quanto segue: la celeberrima Karma Koma [The Napoli Trip], che vede la partecipazione dell’ex front-man Raiz degli Almamegretta, che marchia un successo cantato in inglese ristrutturandolo con versi in napoletano, facendo sì che, addirittura, lo stesso “inglese a metà”, Robert Del Naja, canti in dialetto. Una "bella sorpresa" per gli ascoltatori e una “bella soddisfazione” per i partenopei, dato che sembra uno scherzo del destino questo involontario omaggio, proprio nel momento che Stefano Facchielli, in arte D. RaD, membro della band, era scomparso da pochi giorni a causa di un incidente stradale. Detto questo, Daddy G non è un grandissimo dj, ma la sua selezione è dannatamente di grande spessore per varietà ed intreccio, infatti, continua a nobilitare il buon nome del reggae, e dall'immenso patrimonio della musica in levare cava fuori il reggae eletttronico di Budy Bye, ad opera di Johnny Osbourne. che tiene in scacco l'ascoltatore per quasi cinque minuti con le sue poliedriche variazioni sul tema, noto ai più di San Martino. Talvolta, campanaro. Questo è il bello. Ancora “classici” reggae/ska a seguire, e se lo strepitoso dubplate mix Signs del duo Badmarsh & Shri non bastasse, ecco la mai doma e progressiva dancehall di Here I Come firmata Barrington Levy. È il turno ora di Oh Yeah di Foxy Brown, basata su una vecchia traccia di Frederick "Toots" Hibbert e dei Maytals, forse il pezzo che maggiormente si collega la “scena” musicale caraibica attuale, dominata da Sean Paul e soci.

Daddy G., non contento, ha altresì ripescato altri vecchi "compari" della sua carriera: i Leftfield, tra i gruppi apripista della scena underground elettronica britannica dei primi anni ’90, autori di un capolavoro assoluto quale Rhythm and Stealth (1999), e qui protagonisti di un animata Inspection / Check One, più dub che mai. La quindicesima traccia, dai bassi profondi e dalle atmosfere “sospese”, proviene direttamente dalla colonna sonora di Blade II, nient’altro che I Against I, in collaborazione col rapper statunitense Mos Def, ennesimo personaggio che non ha bisogno di presentazioni, autore qui di una prestazione emotiva e penetrante. L’ultimo, in ordine d’apparizione, “gingillo” è la godibile versione dance di Rock Steady, realizzata da Danny Krivit, ma interpretata, anni e anni fa, dalla regina del soul, Aretha Franklin. In chiusura del disco, Unfinished Sympathy, “Perfecto Mix” lasciata alle esperte mani del genio Paul Oakenfold, un più che giusto tributo alla canzone che lanciò quel fenomeno suburbano chiamato trip hop. « Queste tracce sono sempre nel mio box » disse Daddy G a mix ultimato.  E non solo nel suo. Questo lavoro rispolvera vecchie canzoni che sono “ammodernate” a mo’ di salone di bellezza, dove ognuna di esse è impreziosito e mai “sconvolta” o “capovolta”, un abilità fuori dal comune, riservata a pochi eletti. La sostanza di ogni singolo pezzo è fortemente mantenuta in vita, anche se la predominante di ognuno altro non è che la netta “vibrazione” che trasmette all’ascoltatore. Niente salti sulla poltrona, ma qui svetta alta l'eleganza di un uomo che da dietro il mixer mostra il colore della propria anima e della propria pelle che, tempo tre anni fa, avrebbe fatto tanto comodo ai “suoi-non-suoi”, amputati, Massive Attack. Non risulterà, perciò, un disco di culto, però, certamente ne è consigliato un ascolto. Profondo.

 
 
 

 

Post n°82 pubblicato il 25 Maggio 2006 da Nekrophiliac
 
Foto di Nekrophiliac

PLANET FUNK: NON ZERO SUMNESS (2002)

Senza precedenti. Planet Funk, spiega l’introduzione al gruppo nel loro sito, è un nome che suggerisce un’idea di grandezza piuttosto anomala rispetto alla norma, nel nostro orizzonte discografico. Così in Italia, come all’estero. Non è il solito gruppo dance. È, piuttosto, un collettivo di musicisti, dj, cantanti e strumentisti che pensano alla e in grande. La formazione base conta 4 elementi stabili, ma, durante le loro esibizioni, non è infrequente veder salire sul palco molti più artisti, anche di differente “estrazione” musicale. « Vogliamo portare il nostro lavoro a un livello più alto », sottolinea Sergio Della Monica, uno dei cosiddetti “Magnifici Quattro”. « Ci piace il funk, ci piace il rock, ci piace la house, ci piace la trance, quindi, abbiamo deciso di unirci e mixare nella stessa 'pentola' tutte le influenze che avevamo ereditato dalle migliori esperienze musicali degli ultimi venti anni e vedere cosa veniva fuori ». Ambizioso. Ciò nonostante, i Planet Funk, artisti propriamente da dancefloor, riescono a far sapientemente coesistere nello stesso disco ascendenti musicali lontani anni luce tra loro: Pink Floyd, King Crimson, Police, Clash, Stevie Wonder, Brian Eno, Underworld, Leftfield, Cocteau Twins, New Order e Depeche Mode. La storia, abbastanza singolare di per sé, non può che iniziare a Napoli, non a caso, una delle città italiane più cosmopolite, un luogo dove classico e moderno si compenetrano, musica popolare, neomelodici e cantanti da e di quartiere convivono con una poderosa scena underground. È questa la casa dello Sergio Della Monica, di Alessandro Sommella e Domenico Canu, i tre producers conosciuti anni fa come Souled Out!. La loro prima club hit, Shine On, risale addirittura al 1991. In seguito giunge anche l'album di debutto, che diventa la prima produzione internazionale di Sony Italia. A metà anni '90 fondano l'etichetta Bustin' Loose, che produce e realizza brani come No Access di Hondy e la hit “crossover” Looking For Love di Karen Ramirez. La Bustin' Loose mette in circolazione anche un'altra hit, Where Is The Love: è un brano dei Kamasutra, ovvero l'altra metà dei Planet Funk. A incarnarla è lo spezino Alex Neri, dj di lungo corso che inizia a farsi strada collaborando con il tastierista Marco Baroni. La svolta è per il 1999, alla Winter Music Conference di Miami. È qui che Alex Neri  incontra Domenico Canu dei Souled Out!: tra i due nasce un feeling che si trasforma subito nella matta voglia di sperimentare insieme nuovi e inesplorati percorsi musicali. Al loro pronto ritorno in Italia, i Planet Funk, letteralmente, ri-nascono come un eclettico gruppo musicale, basato proprio sulle intime capacità dei quattro membri. Il primo frutto di questo nuovissimo approccio è Chase The Sun, con la voce della cantante lappone Auli Kokko. Nell'estate del 2000, Chase The Sun è mixata dai dj senza destare troppo interesse, ma, entro la fine della stagione di Ibiza, gente come Adam Freeland, Danny Tenaglia e gli stessi Deep Dish la trasformano in un successo. Risultato: le case discografiche cominciano, giustamente, a contendersi i Planet Funk. Vincitore di questa insolita competizione è David Boyd della Virgin, l'uomo, o meglio l’ “eminenza grigia”, che ha messo sotto contratto i grandissimi Verve di Richard Ashcroft. Tuttavia, l’altro “interprete-chiave” del gruppo è il carismatico e con talento da vendere Dan Black, ex membro dei Leigh Bowery's Minty e poi della band indie-rock sperimentale The Servant, che “timbra” quasi tutti i successi dei Planet Funk, di fatti, a fine primavera 2001 esce il secondo singolo, Inside All The People, magistralmente interpretata proprio dal vocalist inglese, che preannuncia l'uscita a marzo 2002 dell'LP d'esordio, appunto, Non Zero Sumness. Lo stesso Jim Kerr dei Simple Minds si accorge di loro e li assolda per una collaborazione in One Step Closer, brano incluso in Cry (2002). La consacrazione dei Planet Funk nel Belpaese passa anche attraverso MTV, poiché Who Said, ennesimo singolo, impazza per tutta l'estate in radio e tv. Sul finire dell'anno il disco è promosso anche all'estero e l’ultimo singolo in ordine di tempo, One Step Closet, precede un “aggiornamento” del debut album, Non Zero Sumness Plus One, che contiene anche i remix di Rosa Blu e Who Said. Il resto è storia recente. Nell’aprile 2005 è pubblicato il secondo album, The Illogical Consequence, ardita sintesi fra pop progressivo e psichedelico, dance ed elettro-pop. L’ultima sfida.

Orgoglio partenopeo. C'è davvero da scommetterci, il potenziale d'impatto sonoro del debut album del progetto nato alle pendici del Vesuvio è davvero grande; il funk, il trip-hop in debito di malinconia, la house e la trance si fondono ad una attitudine rock e ad un amore indiscutibile per le sonorità pop anni '80 in maniera inossidabile, caratterizzandosi per una produzione dal respiro decisamente internazionale e, proprio per suddetti motivi, se non si conoscesse la storia di ognuno dei componenti del gruppo si farebbe fatica a credere alla provenienza estremamente “geografica” di questo progetto. L'album, in prima pubblicazione, si compone di undici pezzi che, senza pregiudizio alcuno, spaziano tra più generi già citati: ne fanno parte i quattro maggiori singoli di successo dei Planet Funk: a onor di cronaca, Chase The Sun, Inside All The People, The Switch e Who Said, anche queste ultime “firmate” sempre dall'incisiva voce di Dan Black, interprete pure di Paraffin, ballata tra i migliori pezzi dell'album, un mix di pop ed elettronica-dance, con tanto di video registrato presso il Centro Direzionale di Napoli. Gli altri vocalist che partecipano alle registrazioni sono, appunto, Auli Kokko, quel genio di Raiss e Sally Doherty. Ricapitolando: un inglese tirato a lucido, una lappone conosciuta guardando Rai Tre, l’ex frontman partenopeo degli Almamegretta e una cantante-violinista contattata attraverso Internet. Un cast eterogeneo e di qualità messo insieme grazie a una fantasia tutta napoletana. È l’arte di “arrangiarsi” a scandire i primi vagiti del gruppo. Se è vero, com’è vero, che in Italia la dance è stata ormai “sdoganata” dalle credenze popolari del pubblico più “rock”, questo esordio dei napoletani Planet Funk ne è un ulteriore conferma. In realtà, ci avevano già “pensato” Casino Royale, Motel Connection e gli stessi Almamegretta ad avvicinare due mondi solo apparentemente distanti, mentre nel frattempo raccoglievano (e raccolgono) i proficui frutti di altrui semine gli ormai “nazional-popolari” Subsonica. Certamente, per i Planet Funk non si tratta di battere le stesse strade dei cinque torinesi, visto e considerato che l’uso della lingua inglese li potrebbe tagliar fuori da una fetta di mercato, fortemente, “nostrana” che, a ragion veduta, potrebbero tranquillamente recuperare oltre l’anglo-francese Manica. Il perché è intrinseco al disco in questione, dato che gli ingredienti per spopolare al di fuori dai confini nazionali ci sono tutti e, soprattutto, una cura dei suoni decisamente sopra la media nazionale. Non a caso il disco, in fase “embrionale”, è stato concepito e registrato ai Sun Recording Studios di Napoli, ma i “ritocchi” sono, comunque, d’importazione, precisamente del Townhouse di Londra. Il disco riesce – grazie, forse, a una lavorazione “biennale” – con creatività mai doma, a generare molta “atmosfera” e un clima da viaggio capace di “sollevare” l’ascoltatore con variopinta musica, accompagnandolo per un gradevole percorso intorno al Pianeta. Ciò non fa altro che confermare la validità e la bontà del progetto. Ciascuno dei cinque singoli si è rilevato travolgente a modo suo, gli artisti “rendono” divinamente, tanto in studio che sul palco, e, paradossalmente – a differenza di tanti altri lavori da dancefloor, proiettati ai vertici delle classifiche di vendita per la presenza di soli singoli e poi caduti nell’oscuro abisso del dimenticatoio più totale – le altre canzoni dell’album sono effettivamente degne di essere ascoltate e riascoltate, decostruendo così ogni preconcetto di sorta. L’obiettivo è rappresentare la prima voce di un puro rinascimento musicale, qualcosa di universale: una missione per i coraggiosi Planet Funk, di non essere simbolica e passeggera parte storia della musica, ma di fare musica.

Nuove Ossessioni. L’incipit del disco è Where Is The Max, influenzato, senza ombra di dubbio, dal ritmo pop dei primi Depeche Mode, qui privo, però, di quella intensa malinconia, quel crepuscolo di fondo che contraddistingue le opere di Martin Gore e illustri soci. Un brano, questo, che annuncia un disco propriamente atipico. Un’ouverture suggestiva che rende l’effetto del pezzo d’apertura nelle serate nei club. È l’inizio. L’ascoltatore inizia ad avvertire l’atmosfera ipnotica, eppure rimane interdetto, prima di restituire tutto sé stesso alla diretta appartenenza a quella musica. Spazio a Chase The Sun, il primo pezzo esplosivo in senso stretto, motivo trascinante di qualche tempo fa: un impatto puramente dance, poi ecco si ritrovano ancora gli ultimi Depeche Mode, Exciter (2001) docet, gli echi dell’eccelso Crises (1983) di Mike Oldfield.

La domanda viene così da sé, circa quale sia il Sole che si sta inseguendo. Un brano, dunque, luminoso e incandescente, probabilmente, il più noto della band. È la volta poi All Man’s Land, melodia prossima alla trance, dove la spregiudicata leggerezza risulta essere controbilanciata all’opposto, da una vena inquieta e riflessiva e deliziosamente espressiva di una nostalgia implacabile. Una segnalazione per le doti canore dell’eterea e delicata Sally Doherty. A proposito, non si limita a cantare. Il flauto qui è il suo. Da qui al vacillare il passo è breve: prima The Switch e poi Inside All The People, due brani che rendono evidente la presenza nel background della band di quel rock che ha reso famosa Manchester tra la fine degli anni Ottanta ed i primi Novanta, una ricerca melodica che non pregiudica l’attitudine, in verità, ballabile di questi due stessi e riusciti brani. The Switch, terzo singolo, accompagnato da suggestioni alla Morcheeba, è, probabilmente, uno dei pezzi più “leggeri” del disco, in quanto orecchiabile e trascinante a dovere.

Per Inside All The People è difficile scrivere qualcosa che vada al di là di un commento euforico. C’è da alzarsi in piedi. Un’interpretazione di Dan Black suggestiva e ammaliante, anima della canzone magnetica e incisiva e prossima all’immortalità, nel suo genere. Un martellante e frenetico inno che, nella sua grandezza, non resterà “ascritto” ad un genere o ad una influenza particolare. Inside All The People deve essere ascoltata più volte, interiorizzata, sino a lasciarla esplodere entro e fuori il proprio essere fisico e non.

Capace di causare ulteriori positive suggestioni è Under The Rain, una delle tracce più complesse: inizialmente seduce grazie alla voce ancora di Sally Doherty, un parlato che si risolve in una progressivo canto di sirena – sembra quasi che i Planet Funk avessero desiderato rallentare il ritmo impressionante di Inside All The People con una traccia decisamente più vicina all’opera agli Everything But The Girl – dove poi il club-style, i virtuosismi alle tastiere e la sonora discesa introspettiva dominano la scena. Al terzo minuto dei sei della canzone è possibile essere assuefatti da ipotetiche visioni, dove un brano come questo potrebbe, non a caso, rappresentare l’archetipo dello stato d’animo di chi vive un’attesa meravigliosa e lacerante. Una lenta pioggia cade sul suolo della nuda terra. Effetti “collaterali” mediati dai Planet Funk che allietano poi con la “ballata sintetica” Paraffin', senza azzardo, il miglior brano dell’intero lavoro, mix di pop ed elettronica-dance, sigillato da un riff di chitarra a cui è davvero impossibile resistere. Paraffin’ annovera ancora Dan Black alla voce, penultima volta dopo i virtuosismi di The Switch e la titanica interpretazione di Inside All The People. L’atmosfera rimanda, inequivocabilmente, ai Porcupine Tree, o se preferite, a tratti delle sperimentazioni del progetto U.N.K.L.E. (1998) del duo Dj Shadow / James Lavelle. A questo punto sarebbe alquanto estraniante pensare ai Planet Funk come a una band italiana.

C’è tanto intimismo interiorizzato in Piano Piano, brano che sembra annunciare la prossima conclusione dell’esperimento sonoro di Non Zero Sumness. Una sorta di rappresentativa pausa di riflessione del progetto Planet Funk. A chiudere la lista degli ospiti ecco un napoletano D.O.C., il già citato Raiss, ex deus ex machina degli Almamegretta, in forma come ai tempi di Lingo (1998) che in Tightrope Artist firma il capitolo più sperimentale dell'intero album, una sorta di viaggio ai confini delle radici house-music, dà nuovamente prova delle sue abilità vocali in un brano che, crediamo, il gruppo ha “cucito su misura”. Un altro manufatto italiano da esportare all’estero e stavolta la lingua non dovrebbe essere un problema. Tightrope Artist ricorda, “causalmente” e non “casualmente”, quell’insieme di pulsioni dub che sono proiettate in direzione dei Massive Attack dei primi tempi, delle Blue Lines (1993), o i primissimi Prodigy; l’interpretazione roca e sporca di Raiss contribuisce a realizzare un pezzo piuttosto dissonante, almeno in apertura, col resto del disco. Poco a poco, “sottovoce”, ritorna la magia dell’incantesimo Planet Funk, atmosfera più sognante e visione pura di una ricerca nuova nel panorama musicale. Voilà, Who Said, ultima apparizione di Dan Black alla voce. Influenze, ancora una volta, dalla dance nobile, per così dire: il protratto estraniarsi, ancora una volta, nasce dall’interpretazione del vocalist, che trasporta l’ascoltatore nella dimensione sperimentale dei piccoli gruppi underground inglesi. Quanta nostalgia dei Depeche Mode che furono maestri imprescindibili di un ventennio fa. Who Said è devastante, dal ritmo al testo. Niente è lasciato al caso. Ripetitiva sì, ma con stile.

Il brano di chiusura è The Waltz, interpretato da Sally Doherty. Un titolo dalle “arie mitteleuropee” per una band che davvero dista dalla mitteleuropa e, per contaminazioni e quant’altro, è più mediterranea che mai. È il tributo a Jean Michel Jarre, ai Pink Floyd della Division Bell (1994), un’impropria escursione epica che conclude degnamente un album tanto innovativo, quanto sperimentale. C’è persino tempo per una ghost track, dal sapore psichedelico e notturno. Che aggiungere più? Alchemici Planet Funk, non solo Napoli, ma l'intero Pianeta vi merita.

 
 
 

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