DARK REALMS V2
So, I've decided to take my work back underground. To stop it falling into the wrong hands.
Post n°98 pubblicato il 17 Novembre 2008 da Nekrophiliac
THE FIELD: FROM HERE WE GO SUBLIME (2007) Di necessità, virtù. «The process starts at this moment when I hear there’s a song I want to make something else. And I sample it, looking for bits and pieces in it that I really like and I’m trying to rearrange it. It could go backwards, forwards, sideways, everywhere, you know? Double it, loop some new things, new instruments, like the guitar in the software. And of course the beat. That’s probably the whole thing. Then I mix it live. Always». Axel Willner/The Field è assoluto padrone della sua nobile tecnica artistica e non è affatto nuovo ad un certo genere di idee a riguardo. Infatti, rende loro forma tratteggiata e ritmo destrutturato. Seppur continuo e, quanto meno, intenso. Per un suono che aliena qualsiasi rapporto con spazio e tempo circostanti. Ascoltarlo è vivere un’esperienza extra-sensoriale. Perché statico a tratti, fluttuante, indefinito ed indefinibile. In una parola, sospeso a mezz’aria. In un clima di tensione, attesa. Sempre in presa diretta. È un continuo rallentare ed accelerare. Per non fermarsi mai. Disarticolato, ma organico. Un corpo non-strutturato di tagli ed inserti che faticano a definirlo plastico. Tessuto su tessuto, molecola con molecola, cellula per cellula. Questo è il disco con cui perdersi, lasciarsi andare. Verso l’oblio tecnologico. Basato sull’incomprensibile ed intima connessione fra ripetizione e differenziazione di mille e più microscopici dettagli sonori e le loro altrettanto numerose ed impercettibili variazioni. Senza dimenticare, le pause ed inattese esplorazioni o un battito in quattro quarti. Un filamento tanto esile quanto terso lega le tracce: una sorta di pacato caos sonoro dallo sviluppo sconfinato che nella meticcia musica di The Field si raccoglie in smaglianti sovrapposizioni tonanti, che non possono che riportare alla mente talune produzioni progressive di metà anni ’90 del secolo scorso, così come quelle più shoegaze, da cui lo svedese è stato folgorato tempo fa. Fra terra e blu. Over The Ice va oltre. Senza limiti. Senza ancoraggi. The Field ha scomposto, separato, estrapolato un frame da Under Ice di Kate Bush e forgiato un qualcosa di non-nuovo, denso di mirabile incanto. Questo il “semplice” pezzo d’apertura. A Paw In My Face recupera, ristruttura, rivaluta e ripropone un sample da Hello di Lionel Richie. Per niente fredda minimal/techno, anzi sempre morbida, solare. Un’onda energetica che non si esaurisce, a dispetto del titolo, con Good Things End, perché un suono sferico attorciglia l’ascolto ed una tartassante mestizia s’avviluppa in nuove ossessioni sonore. The Little Heart Beats So Fast è l’episodio più pop delle dieci meraviglie, che scorrono via delicate, mai irruente, abbracciano le menti e le rapiscono, inizialmente, per più di un’ora e, chissà, per quanto altro tempo ancora. Raramente il titolo di un album è riuscito a racchiudere nelle sue esigue parole il senso dell’intera opera. Everday si plasma su linea-guida costituite tra echi e trame fitte come velluto, penetranti e piacevoli. Silent, invece, è un’immersione barbiturica in una sognante notte stellata. Con The Deal si tocca il punto più alto in assoluto del contemporaneo capolavoro: dieci minuti di sudore sgorgante da un caleidoscopio elettronico che sembra non esaurirsi. E l’aria si fa satura. Le pulsazioni aumentano. La quiete, in una discesa di flangers, giunge mai tarda con un’atmosferica Sun & Ice, presto interrotta dalla pressione esercitata da Mobilia, più incisiva nel suo incedere. In chiusura, From Here We Go Sublime atomizza il riverberante doo-wop dei Flamingos. In conclusione, il disco si sgretola, si granula, ma non si arena, galleggia placido tra saliscendi e crescendo passionali, asserragliato dietro ad frammentato muro sonoro, che non può che proiettarlo, quale ideale reincarnazione per il nuovo millennio dello shoegaze, nell’Olimpo delle “pietre miliari”. Rilegge, altresì, con classe, le suggestioni melodiche disseminate dalla trance nel corso della sua, ormai lunga, esistenza. Oggigiorno ha assunto i contorni di ciò che è stato dai più chiamato “pop ricombinante”, e cioè assumere un piccolissimo frame di una canzone infinitesimale punto di partenza dal quale poi si dipana il tutto. Al cuore della sostanza, la vita, metafora della musica, ha sempre inizio da un che di microscopico. Eppure, a seguito di apprezzamenti ad ogni latitudine e longitudine, l’arte di The Field non può che essere divenuta, ormai, macroscopica. Alla portata di tutti. Per coloro che amano il genere, così come tutti quelli che non hanno alcuna familiarità con esso. Non ci si dimenticherà facilmente di un disco d’esordio simile. Che non ha nulla di virtuoso, ma può risultare ripetitivo, ossessivo, persino monotono nel suo banale intercedere, scontato. Nonostante ciò, incarna i colori del giorno e della notte, rappresenta brividi e sentimenti in note e, squarciando l’anima, lascia in eredità ai posteri eteree carezze. |
Post n°96 pubblicato il 30 Giugno 2007 da Nekrophiliac
PLANET FUNK: THE ILLOGICAL CONSEQUENCE (2005) Ipse dixerunt. « I Planet Funk hanno fatto un cammino diverso da molti altri musicisti che partono dal rock e lo contaminano con la house e con la club culture in genere. Per noi è stato il contrario, abbiamo portato il rock dentro la musica da ballo, nel dancefloor. E' un esperimento coraggioso, frutto del nostro DNA musicale a testimonianza della nostra crescita. Siamo veramente soddisfatti del lavoro che abbiamo fatto per questo disco. Ci siamo accorti di essere cresciuti, perché tutto è avvenuto in maniera spontanea. Siamo sicuramente più soddisfatti del lavoro precedente, non solo perché quello che finisci ti sembra sempre il lavoro migliore, ma anche perché è veramente il prodotto della band. C'è compattezza, non è solo una raccolta di canzoni come era successo per l'esordio ». The Illogical Consequence (2005) è un omaggio all’uomo, nonché un singolare groviglio di tecnologica umanità e compenetrante espressività. Non più un insieme di brani intesi come potenziali singoli, bensì un sentiero nelle anse della musica strumentale, spesso associata a dense linee vocali, che contraddistingue il giorno dalla notte. Luce e buio. Perché The Illogical Consequence? « Il titolo esprime un concetto molto ampio che non si limita al solo disco. Le cose più significative sono quelle che non vengono progettate a tavolino, bensì frutto di illogiche e impensabili conseguenze. Le illogiche conseguenze sono effetto di istanti, di momenti colti e sviluppati. Questa è un po’ la storia del disco, ma anche di quanto è successo all'uomo. Qui si parla di ecologia e di tecnologia, due elementi che possono coesistere. Anche il video di Stop Me è basato su questi elementi, lo abbiamo girato in Cina, nella più grande discarica di computer al mondo. È un posto incredibile, altamente inquinato, intorno al quale si è creata una comunità che vive su questa discarica. Il disco vive sulle paure, gli errori e le ossessioni del genere umano che nonostante tutto resta arbitro del proprio destino ». La nuova musica globale nasce a Napoli, in via Posillipo, nello studio panoramico che affaccia sul golfo. Il breve, ma intenso, percorso musicale dei Planet Funk li ha visti imbattersi in una moltitudine di generi, perennemente in bilico, fra dance, trip-hop e pop elettronico. Un progetto ambizioso? Marco Baroni, Domenico GG Canu, Sergio Della Monica ed Alex Neri sono riusciti nel loro intento: a seguito del fortunato esordio di Non Zero Sumness (2002), The Illogical Consequence (2005) finisce per essere un vero prodotto d’esportazione. Di musica internazionale. « Non ci interessano i confini. La nostra musica trova i suoi riferimenti più immediati fuori dell'Italia. All'estero però abbiamo una caratteristica "nazionale" che ci fa riconoscere immediatamente come band italiana. Ci fa piacere, non lo consideriamo certo un limite, d'altronde succede lo stesso con tutti gli altri artisti, pensi immediatamente a quella che è la cultura di provenienza, anzi ne vai a cercare le peculiarità ». I Planet Funk, a tal riguardo, continuano a beneficare delle altrui voci, scegliendo, di volta in volta, quelle più appropriate ai loro intenti creativi. « Rispetto al disco precedente Dan Black canta solo in tre brani. I rapporti con lui sono ottimi, ma noi siamo un collettivo aperto e, tra tutto il materiale che avevamo con la sua voce, queste tre canzoni sono quelle che meglio si adattano al concetto e allo spirito del disco. La voce di Dan è "importante" e può penalizzare le partiture musicali, non volevamo che questo succedesse. Per il resto abbiamo lavorato con John Graham, un DJ cantante inglese al quale è piaciuto il nostro progetto, e Sally Doherty, che già appariva nel primo disco. In due album abbiamo allineato sette cantanti a dimostrazione del fatto che non esiste una voce unica per il gruppo ». Solida dichiarazione d’intenti. Giungla Sud. Ipnotica ed oscura, Movement Is Noted è la naturale introduzione ad Everyday, ovvero la sintesi della semplice magnificenza sonora e lirica: chorus irresistibile e preziosa tastiera a scandirne l’incedere. Improvvisa esplosione? Per forza di cose, è stato un singolo di successo che ha fatto il pari con Stop Me, divertente “tormentone estivo” di due anni fa che fungeva da colonna sonora allo spot della Coca Cola, dove si possono riascoltare le colorate nonché vivaci atmosfere degli anni 80 del secolo scorso: questo è il trademark dei Planet Funk, più unico che raro, che si ricollega direttamente alla orecchiabile produzione precedente. Con la placida Trapped Upon The Ground, subentra un clima calmo, mentre è la voce di Dan Black a farla da padrona. Il cambio di marcia, però, è immediato con una dinamica Come Alive. Le varianti del disco rendono il lavoro così disomogeneo che bisogna ascoltare una traccia più volte per poterla comprendere a fondo. Si prosegue con la distesa Laces, esperimento folk, sempre su piacevoli livelli. La altrettanto gradevole ballata acida con disturbi elettronici, corroborata all’interno da un’anima spontaneamente commovente, quale è The End finisce per essere la linea di spartiacque con quanto di ottimo giungerà con Ultraviolet Days e Tears After The Rainbow. Se la prima è un intermezzo lento e malinconico seppur morbido e avvolgente, la seconda assurge a vero e proprio capolavoro dell’intero lotto. Calma apparente mediante sapienti tastiere surrogata ad improvvise sfuriate elettroniche, lasciando l'impressione di chi abbia intenzione di distaccarsi, comunque, dal filone più dance che aveva caratterizzato il precedente album per orientarsi verso un sound diverso, più vicino al rock elettronico. E non è tutto. L’uomo è artefice primo del proprio destino e The Illogical Consequence celebra, a suo modo, l’eccezionalità della mente umana e la sua capacità di modificare la realtà. Una traccia particolarmente interessante e che chiama alla riflessione sulla condizione dell’essere umano è proprio la nona traccia: « Tears After The Rainbow contiene un campionamento estratto da un documentario/intervista con Oppenheimer trasmesso dalla BBC nel 1965, in cui il fisico piange e riconosce il suo errore: aver costruito un mostro come la bomba atomica. Questo ci ha fatto riflettere sul potere che la mente ha, dell'uso che se ne può fare, nel bene e nel male, dell'illogicità dei suoi percorsi ». Una canzone di pace con un innesto angoscioso come l’ammissione pubblica di colpa di Oppenheimer, vessillo della potenza e della creatività della mente umana impiegate per fini non propriamente nobili, se considerate le innumerevoli innocenti vite spezzate. Un “a cappella” azzeccato e di forte impatto che sa di miseria e smarrimento, genuino ravvedimento. Le sorprese di Illogical Consequence non finiscono qui, perché un esperimento tanto particolare, quanto convincente è prossimo: una voce sintetica scandisce fiumi di parole per Inhuman Perfection, evocativa composizione d’atmosfera distesa su un raffinato crescendo armonico. La voce è della nota attrice Claudia Pandolfi che recita la parte di un’avveniristica donna in un futuro in costante mutazione : « la conosciamo da parecchio tempo (tramite Sergio Della Monica) e con lei volevamo collaborare in un video. È venuta a trovarci in studio durante la lavorazione, comprendendo e apprezzando lo spirito dell'album. Noi cercavamo qualcuno che potesse prestare la sua voce a un recitato nel brano Inhuman Perfection. Lei era ideale. La sua voce poi è stata "lavorata" ed è irriconoscibile ». Peak, arrembante e tirata, annovera, piuttosto, nuovamente la voce di Dan Black, mentre, invece, in Dusk ritorna quella già conosciuta ed apprezzata su Non Zero Sumness (2002) di Sally Doherty, per una canzone impostata al pianoforte, prima di esplodere con notevoli propagazioni rock. La sontuosa ed affascinante conclusione di un viaggio psichedelico ovattato è affidata ancora a Dan Black – un po’ meno “scomodo ed egocentrico” rispetto al passato, ma sostituito pienamente dalla duttile ed estremamente poliedrica voce di John Graham che concretizza le tecnologiche visioni eteree del “suono Planet Funk” – con Out On The Dancefloor, soltanto che qui la sua centripeta personalità è ben mitigata da una forte componente sonora, che detta le regole dell’emozione per chi ascolta. Pollice rivolto verso l’alto per i Planet Funk. L'ennesimo. |
Post n°93 pubblicato il 31 Marzo 2007 da Nekrophiliac
BOARDS OF CANADA: TRANS CANADA HIGHWAY (2006) Il suono ai confini del suono. Dai Chemical Brothers ai Boards Of Canada: Michael Sandison e Marcus Eoin Sandison, per davvero fratelli, giungono, con elettronico furore, da Edimburgo, Scozia, e già da più di dieci anni producono ottima musica, estatica e ammaliante, divenuta ormai un marchio di fabbrica, spesso imitata, mai effettivamente eguagliata. I Boards Of Canada, musicalmente parlando, nascono e crescono, in quanto, familiare duo circondato dagli strumenti dei genitori e da due registratori, intorno alla metà degli anni ’80 del secolo scorso, auto-producendo i propri lavori su rudimentali musicassette d’altri tempi – registrando uno strumento su una cassetta, poi ascoltando questa mentre suonavano un altro strumento, ovviamente con l’altro registratore che registrava il tutto – e in seguito, sotto forma di gruppo allargato a terzi, compiendo la giusta gavetta e la consueta trafila nel mondo underground, sviluppando quel loro tipico gusto per un suono indefinito, comunque caldo, pieno zeppo di disturbi e fruscii analogici vari. Al di là di ben sette releases, di cui solo l'ultima in ordine cronologico è reperibile, cioè Twoism (1995), sotto Music70, label fondata dagli stessi Michael e Marcus Eoin, il passaggio prima a Skam, pubblicando l’EP High Scores (1996) e poi definitivamente all’etichetta “di tendenza”, Warp Records – che annovera Aphex Twin, Autechre, Nightmare On Wax e Squarepusher tra gli artisti del suo catalogo – segna inevitabilmente il lancio dei Boards Of Canada sul mercato, consacrandoli oggi come uno dei nomi più importanti in ambito di elettronica. A quel punto, ed è storia abbastanza recente, il mondo si accorge di loro e dei successivi capolavori Music Has The Right To Children (1998) e Geogaddi (2002). Al termine di una lunga pausa triennale, è pubblicato The Campfire Headphase (2005), in parte sperimentale, supportato da accordi di chitarra suonati in studio e non campionati, che, forse, ha un po’ deluso l’attesa. Il duo scozzese mai domo, oltretutto devoto alla new wave più elettronica, evidentemente, ha deciso di proiettare i propri intenti in chiave cinematica con un nuovo EP, deviando il corso del loro suono per l’ennesima volta. La sensazione è stata comune a molti: i Boards Of Canada, con il recente e penultimo lavoro, avessero non solo depauperato in parte le felici intuizioni e la vena creativa che da sempre li ha contraddistinti in positivo, ma anche inseguito – senza successo – nuove potenziali sonorità. Invece, Trans Canada Highway li riconduce su percorsi a loro molto più congeniali, attraverso un’elettronica dal forte impatto ambientale e un’attitudine che richiama quella di molte band post-rock. The Campfire Headphase (2005) li aveva visti adottare un mood più introspettivo, se possibile, rispetto ad una antecedente discografia quantomeno vivace, Trans Canada Highway non segue del tutto la stessa “autostrada” stilistica, e, a conti fatti, risulta essere ancora un disco “strumentale”, nel senso letterario del termine, considerato che in taluni tratti emerge perfino la sinfonia. La frontiera scomparsa. Trans Canada Highway si accoda alla già nutrita discografia dei Boards Of Canada sette mesi dopo il full-length The Campfire Headphase (2005), eppure bisogna tornare a Geogaddi (2002) per poter schematizzare la successione ininterrotta di concetti che ne contrassegna alcune delle rappresentazioni mentali di fondo: all'epoca, invero, con il sostegno del presidente della Warp, Steve Beckett, il duo progettò e realizzò tale disco, in modo che avesse una durata pari ad esatti 66 minuti e 6 secondi. Una presa in giro per gli ascoltatori che temevano la presenza del Maligno. A siffatta durata seguiva il numero 23 delle tracce presenti, presupposto logico che prevede che 2\3 equivalga, ovviamente, a 0,666. Un ulteriore scherzo era conferito dalla versione giapponese dello stesso Geogaddi (2002), la cui bonus track From One Source All Things Depend, conteneva samples di bambini che discutevano su chi\cosa fosse realmente Dio. Trans Canada Highway, EP di 6 pezzi, è stato, suo malgrado, pubblicato il 6 maggio 2006, anche se la data prefissata per l'uscita era originariamente il 06/06/06. Tuttavia, al di là della singolarità dei numeri e della curiosità della cabala – architettata dal duo – accompagnate da un buffo quanto innocuo messaggio subliminale, maggiormente consistente appare il legame sotteso fra The Campfire Headphase (2005) e, appunto, Trans Canada Highway. Perché simil titolo? L’intero EP è un concept sul viaggio di mezz’ora, in autostrada per le vaste terre canadesi, esattamente da St. John’s a Victoria. In apertura, dunque, maggiormente in rilievo è posta una estesa laguna di inesplorati suoni, generatrice di acquosi mulinelli fluttuanti, a più orbite. Vero e proprio vortice liquido, a una manciata di istanti da un tuffo al cuore. Dayvan Cowboy, in versione rimaneggiata rispetto quella presente su The Campfire Headphase (2005), è la classica traccia che fa gridare al miracolo: un’esplosione di feedback smembrati nella ionosfera che si trasforma in una lenta panoramica su un brullo panorama. Il videoclip “in caduta libera”, il primo in assoluto della carriera dei Boards Of Canada, è stato diretto da Melissa Olson, assistente cinematografica canadese, che ha selezionato plastiche immagini di skydive che coniugano perfettamente l’offerta sonora che nel corso degli anni hanno destabilizzato i due fratelli: vocazione disorganica dell'elettronica per niente nobile e, piuttosto, tesa all'introspettiva ambient; strutture dei brani più convenzionali e supporto di strumenti veri – in questo caso chitarre acustiche filtrate. Dayvan Cowboy prevale senza dubbio sulle seguenti cinque tracce qui proposte, tanto per il particolarissimo effetto di "rielaborazione in chiave sintetica" di peculiarità principalmente rock quali artefatte distorsioni, così come per l'accentuato tasso melodico, che rende piacevolmente scorrevoli i restanti venti e più minuti di algide ed espanse atmosfere in piena forma Boards Of Canada, tra “cinematografici” echi e psicotici avvitamenti. Trans Canada Highway presenta, al di là del fortunato brano Dayvan Cowboy in ben due versioni, una quaterna di brani deputati a connotare molteplici e susseguenti short-cuts di umori ambientali. Una levigata e minuziosamente lavorata Left Side Drive è in odor di classico da ben altra collocazione, non da EP. Heared From The Telegraph Lines e Under The Coke Sign finiscono per esser due gracchianti interludi da paesaggi erbosi sintetici, e infine la frammentata ed eterea Skyliner riporta l’ascoltatore alle dense sonorità di Sixtyniner con fondi pulsazioni di fibrose percussioni. A seguito dei curati remix realizzati per Beck e cLOUDDEAD, quest’ultimo, sotto le spoglie di Odd Nosdam, ricambia il favore: la sua versione di Davyan Cowboy, nove glaciali minuti di durata, mette in risalto una sorta di mantra centrale, a colpi di ritmiche hip-hop. Originale, diametralmente diversa rispetto le altre. Il ritorno dei Boards Of Canada e del loro “melting pot” sonoro così si chiude. In bellezza. |
SHARAM: DUBAI GU29 (2006) In costante ascesa. Il 30 gennaio del corrente anno, in uno stadio straripante di gente, compreso un folto gruppo di donne che risiedevano comunque in un altro settore, la nazionale allenata dallo “stregone bianco” Bruno Metsu ha battuto nella finale della Coppa del Golfo il favorito Oman con un goal di Ismael Matar. I “caroselli” sono andati avanti fino a tarda notte. I tifosi si sono ridotti a ballare persino sui tetti delle auto. Un paese intero completamente “nel pallone”. Una festa mai vista da queste parti? C’è da obiettare. A partire dallo stadio di Abu Dhabi, capitale degli Emirati Arabi Uniti, occorre spostarsi a Dubai – secondo emirato del paese – che si trova sul Golfo Persico, a sud ovest di Sharjah e a nord est della stessa Abu Dhabi. Si distingue dagli altri emirati in quanto soltanto il 10% del suo prodotto interno lordo è derivato da entrate collegate all'industria petrolifera. Le maggiori fonti di ricchezza di Dubai sono, infatti, la zona economica speciale di Jebel Ali ed il turismo, che fa registrare un’incessante crescita. La decisione del governo di differenziare l'economia ha concorso ad accrescere il valore della proprietà immobiliare, che nell’ultimo biennio, ha vissuto un vero e proprio incremento. Le costruzioni su larga scala hanno reso Dubai una delle città a maggiore sviluppo urbanistico del mondo, al pari delle celebrate metropoli cinesi. L'esigenza di allargare il commercio e, in parallelo, il turismo ha determinato la creazione di complessi di elementi unici al mondo, sia per gli aspetti meramente architettonici che per le inimmaginabili dimensioni. I grattacieli sorgono a decine lungo tutta la città, che non è più ben definita, in quanto le zone desertiche sono, a tutt’oggi, in fase di edificazione. Lo sviluppo, difatti, coinvolge entrambe le principali attività economiche. Da un lato le attività commerciali e residenziali si estendono verso il deserto. Sono in fase di costruzione l'International City, la Silicon City, la Sport City e Dubailand, che dovrebbe diventare il più grande parco divertimenti del mondo. Dall'altro lato il turismo si concentra, piuttosto, sulla luminosa costa, dove la creazione delle c.d. “Palme” – cioè penisole create artificialmente nel Golfo Persico, la cui forma richiama quelle degli omonimi alberi – contribuirà a portare in primo piano gli Emirati Arabi Uniti. Oltre alle futuristiche “Palme” – il cui completamento si stima entro l’anno 2015 – è in fase di costruzione il cosiddetto "Mondo", ovvero un'isola artificiale che, se osservata dall'aereo o dal satellite, richiamerà il nostro pianeta, con i relativi continenti. Tuttavia, la zona sicuramente più bella dal punto di vista panoramico è quella di Jumeirah, ove la catena alberghiera di proprietà della ricca famiglia dell’emiro Al Maktum ha creato 4 tra le strutture alberghiere più affascinanti, tra le quali il celebre Burj al-Arab – la “torre araba” – che è diventata l'indiscussa icona di esportazione di Dubai, nient’altro che l'hotel più lussuoso al mondo, con 7 stelle che, con orgoglio, campeggia alle spalle di Sharam nella copertina del disco in questione. Soltanto metà del profondo piatto dal sapore medio orientale? Lo scorso 6 aprile al Trilogy, club che ha inserito a pieno titolo Dubai nella mappa delle capitali mondiali della musica elettronica ha visto esibirsi, per l’appunto, Sharam Tayebi, metà del duo Deep Dish. Il tutto opportunamente trasferito nell’ultimo ed ispirato volume della prestigiosa serie Global Underground, legata alle migliori sessions nelle maggiori capitali mondiali. A seguito della pubblicazione del fortunato secondo disco di loro stessa produzione – George Is On (2005) – che ha riscosso uno scrosciante successo grazie ai diffusi singoli quali Flashdance, Say Hello, Sacramento e Dreams, Sharam, separatosi temporaneamente da Dubfire, l’altra e immancabile metà del duo iraniano/statunitense, oltre alla suddetta compilation, mesi fa ha lanciato anche il singolo PATT (Party All The Time). Malgrado nato in Iran e rimasto lì fino al compimento dei 14 anni, nella scelta delle canzoni non c’è niente propriamente ravvicinabile alle, per così dire, “origini” di Sharam, in quanto ha scelto di presentare, piuttosto, un ottimo “spaccato” del vero e proprio “Deep Dish sound”, a partire dal brano d’apertura del primo cd, denominato “The Club”, cioè Sugar (Sweet Thing) [Nicka & Alse Remix] di DYAD10, dalle sensuali vocals, costante preludio “zuccheroso” a Look Around [Spider Funk Dub] del duo di Barcellona Spider & Legaz, che si innesta con deciso vigore, accompagnata da svariati assoli di chitarra, per poi lasciare spazio alle olandesi 16 Bit Lolitas e al progressive del loro brano Passing Lights, dallo straordinario coinvolgimento. Tocca poi al funky di Bliss [Felix Da Housecat Remix] del duo elettronico britannico dei Syntax, che spezza l’up-tempo del terzetto iniziale per segnare una prima cesura, dato che con l’ennesimo pezzo di Spider & Legaz, vale a dire, Majorca Roots si ritorna di prepotenza ad un sound più trance e meno “notturno”, soprattutto se corroborato dal leggendario dj e produttore tedesco, rispondente al nome di Paul Van Dyk e dalla stupenda The Other Side [Deep Dish Other Than This Side Remix] che, al di là della dance, annovera un testo “carico” di un certo ricordo, risalente alla data del 26 dicembre del 2004, allorché il Sud – Est asiatico fu colpito e devastato da quell’onda di anomale proporzioni, e ormai tristemente nota a tutti, quale il cosiddetto “tsunami”. Paul Van Dyk scrisse simil testo: When this broken trough [Nell’infranta depressione] I will can’t with you [Non potrò essere con voi] When I wait my longest time [Quando resterò in attesa a lungo] Daylight brings the great divide [La luce del giorno segnerà la grande separazione] We can like the rain [Possiamo essere come la pioggia] Whispering your name [Sussurrando il vostro nome] Long to be with you divide [Il desiderio d’esser con voi ci divide] Believe the sunrise [Credete nell’alba] When I reach the line [Quando raggiungerò la linea] I will see you on the other side [vi vedrò dall’altra parte]. Paul Van Dyk ritenne opportune di rendere tributo a quelle migliaia di persone che hanno perso i loro cari, ritraendo l’insieme di sensazioni che avranno travolto l’essere umano nell’impossibilità d’esser a diretto contatto con un’altra persona e che, tragicamente, risultavano essere già appartenenti ad uno o più verdi “passati”. Eppure, non tutto è perduto: l’aspirazione e la fede di rivedere costoro “dall’altra parte” non potrà mai venir meno. In questa vita o nella prossima. In coda alle riflessioni di Paul Van Dyk c’è Minds Talking (Dave Audé Remix) dei Lunascape, duo belga dedito al trip-hop, in una versione completamente rivisitata che si mantiene su un buon livello di battiti, tale da introdurre la progressive house senza sosta di Timelapse [Moonbeam pres Glockenspiel Mix] di Jiva e Rula: a metà canzone sembra esser tutto finito, il brano sfuma per poi sterzare deciso verso una nuova progressione sonora senza confini e limiti alcuni, ergo, Together We Rise dei canadesi Sultan & Ned Shepard. Dopodichè, ancora 16 Bit Lolitas, stavolta in compagnia del trio statunitense dei Motorcycle per la frizzante ed esplosiva Deep Breath Sedna [Dave Dresden Mash-up]. Something to Lose [Cedric Gervais Remix] dei produttori newyorkesi Creamer & K ft. Nadia Ali & Rosko e Stilettos (Pumps) [Dave Audé Pumps Dub] dei giovanissimi Crime Mob ft. Miss Aisha – gruppo rap di Atlanta – piuttosto, sono ottimamente “legate” fra loro, la prima è più cadenzata, la seconda più ripetitiva. Posta a chiusura di “The Club” c’è una quanto mai ritmica Eiffel Nights opera di Pig & Dan, due produttori che da anni lavorano insieme e hanno, infatti, sviluppato ormai una consolidata e fruttuosa unione. Il secondo cd, “The Hub”, annovera, come brano “d’attacco”, spontaneo, fresco, Direct Me [Joey Negro Remix] dei The Reese Project – storico poker d’assi dell’house statunitense – che è ottimo aperitivo, prima della luminosa Timewarp del britannico Pete Heller, dj e produttore, forse più noto per aver remixato, e l’elenco è abbastanza lungo, brani per Underworld, Daft Punk, Faithless, Chemical Brothers, Jamiroquai, Moby, Martin Solveig sino a Blood On The Dance Floor per Michael Jackson. Che dire di Spirit In My Life di Cedric Gervais ft. Caroline? Nato e cresciuto a Marsiglia, Cedric Gervais ha iniziato la sua carriera da dj a soli 13 anni, ispirato da Laurent Garnier e Carl Cox. È stato il più giovane dj-resident del leggendario Club Queen a Parigi e, non sorprenderà di certo che, trasferitosi a Miami, praticamente presenza fissa in spiaggia, era ormai maturo per lanciarsi in suoi propri esperimenti, proprio come questo suo ultimo singolo, decisamente house-oriented. La traccia successiva, Everlasting, è sognante e dolce, così come l’avvenente Miss Nine, ennesima presenza fissa della scena dance di Miami, tra l’altro, perennemente in tour coi i Deep Dish stessi, il che ha giovato, non poco, alla sua notorietà. In un mercato fortemente dominato dalla presenza dell’ “uomo” dj, la tedesca “Signora Nove” – all’anagrafe Kristin Schrot – è stata, di fatti, in grado di crearsi da subito un suo seguito in nemmeno 3 anni, grazie alla sua progressive house, fonda, fitta, e quanto mai eclettica. Complimenti. Connected [Spider & Legaz Remix] di Sultan & Ned Shepard ft. Steromovers è una nuova ventata di buon umore realizzato con uno sfrigolio di plastici suoni, che fanno appena in tempo a spiegarsi a pieno prima che incomba una robusta Zero di Simon & Shaker, altro duo spagnolo, tra i migliori in circolazione per innovazione e qualità: ciò spiega il perché la Spagna abbia compiuto più d’un solo passo in “avanti” con propri artisti, divenuti, a distanza di tempo, “d’esportazione”. Superata la sbornia di Zero, Smaller [Dave Audé Remix] dei Suite 117, per un po’, è chiamata a raffreddare l’atmosfera con placidi colpi di beat. E non c’è due, senza tre. La martellante Psych è ancora una volta propria della produzione di Spider & Legaz, mentre, a seguire, The Cello Track [Dub] dei Twotrups si connota per l’abbondanza di orientaleggianti melodie, supportate da ridondanti bassi. Who is Watching, contrariamente alle massicce produzioni trance della superstar olandese Armin van Buuren, qui supportato anche dalla vocalist Nadia Ali, mantiene un profilo basso, più groove, comunque attraente. Da qui in poi infuria la tempesta di sabbia: il vento soffia prima veloce e perpetuo con la sinuosa El Ayoun di Casa Grande, poi caldo ed avvolgente con una caotica Manitou del duo spagnolo/austriaco Felipe & Nicolas Bacher. Spazio a Feedback [Valentino Kanzyani Earresistable Mix] dell’occasionale duo statunitense Acquaviva & Maddox, mai banale, mai fuori tempo: ha il pregio di esser al posto giusto, al momento giusto, essendo la naturale introduzione al pezzo che l’ascoltatore medio non s’aspetta in quanto superba conclusione di due ore e più di deep progressive house e molto altro ancora: Everyday dei partenopei Planet Funk è la “conseguenza illogica” del loro deflagrante ed intenso passato. Si dota di un chorus insuperabile, con tastiere che ne impreziosiscono il soffice incedere, coadiuvate dalla voce del dj inglese – in sostituzione di Dan Black – quanto mai nostalgica, al pari del testo della canzone stessa: Just when I'm thinkin it was always you [Proprio quando sto pensando che eri sempre tu] The Sun has gone and let the rain come through [Il Sole se n'è andato e ha lasciato spazio alla pioggia] The things I'm hearin I've already heard [Le cose che sto ascoltando le ho già ascoltate] But now I'm walkin in a different world [Ma ora sto camminando in un mondo diverso] Just when I'm feelin like I'd made it through [Proprio quando mi sto sentendo come se ce l'avessi fatta] And still had somethin that they never knew [E ho ancora qualcosa di cui loro non sono mai stati a conoscenza] The artificial is controllin me [L'artificiale mi sta controllando] And I dont' recognise a thing I see [E io non riconosco ciò che vedo]. “The Hub” si conclude così, toccando l’apice con l’ultima e infinita traccia d’una bellezza disarmante, aggettivo qualificativo che per la cornice di Dubai s’addice perfettamente. Tra plastiche dune e tramonti meccanici, grazie Sharam. |
Post n°88 pubblicato il 04 Novembre 2006 da Nekrophiliac
CHEMICAL BROTHERS: DIG YOUR OWN HOLE (1997) Questione di bioritmica. La storia rinasce ogni volta più spessa, evoluzione sì continua, ma la radice è la stessa. Sostituito il nome Dust Brothers nel momento in cui scoprirono che esisteva già, poiché appartenente ad un duo di produttori statunitensi, i Chemical Brothers, ovvero Tom Rowlands e Ed Simons conosciutisi alla Manchester University nel 1989, si presentarono con Exit Planet Dust (1995) nelle semiserie vesti di propagatori delle novelle ritmiche da night club. Ne furono in effetti avanguardisti, in originalità e qualità, nella "Madchester" dell’ultimo decennio del secolo scorso. La nociva mistura di rock e acid house che misero a punto divenne l'asse di sostegno di questo album, elettronica prevalentemente strumentale, di immemorabile memoria, rimandando ad un passato appartenuto ai teutonici Kraftwerk. Tale sound, coniato dai due, amalgama un’overdose di funk, rock e hip-hop, come in un disorganico collage di pop art. La regolare prassi si ripropone monotonamente dall'inizio alla fine, cioè, campionare battiti hip hop, indirizzarli verso sempre nuovi loop, poi, prima accartocciandoli in spirali di sintetizzatori, e dopo danneggiandoli a colpi di chitarre rock. Bisogna render loro atto di dar vita a tutto ciò con un atteggiamento irreale e demenziale, che stravolge l’orecchio dell’ascoltatore che si appresta a percepire le prime folli tracce: Leave Home, destinata a perdurare come uno dei loro capisaldi, e la pressante In Dust We Trust, sino alla siderale escalation di Chemical Beats. Successivamente, con la pubblicazione dell'EP Loops Of Fury (1996), intenso e furioso, grazie a tre irresistibili brani quali l’omonima Loops Of Fury, Breaking Up e Get Up On It Like This, lanciò in orbita i Chemical Brothers, pronti per pubblicare Dig Your Own Hole (1997), il secondo, attesissimo, album del duo più celebre e celebrato della techno mondiale, che, non a caso, riparte dai loro esordi, con estrema disinvoltura, dalla fusione fra tutto ciò che risulta oggigiorno “ballabile” e tutto ciò che è inquadrabile nel “rock”. Diffidare dalle imitazioni. Dig Your Own Hole, rilevante capitolo per la musica degli anni ’90, è stato un vero e proprio trampolino di lancio in campo commerciale per i Chemical Brothers. È, in maniera indiscutibile ed imperscrutabile, il miglior disco pubblicato dal sodalizio inglese: settanta acri minuti di suoni esplosivi, a cui nessun umano corpo può opporre resistenza, per undici infettate schegge nelle quali gli opprimenti tempi metropolitani si liquefanno con irritazione ed inquietudine, plasmando un capolavoro del genere. In teoria, è un disco che sembrerebbe accontentare più gusti, ma, in realtà, appare sempre un po’ distante da chi preferisce, in campo musicale, ben altro. L’estatica e quanto mai ricca musica dei Chemical Brothers, così come quella di molteplici altri artisti che si occupano di techno, si riunisce insieme a innumerevoli altri generi per sagomarne uno nuovo di zecca, che può “suonare”, da orecchio ad orecchio, melodico o inebriante, regolare o trascinante, uggioso o elettrizzante. In ogni caso, l'evoluzione digressiva, a seguito del sopra citato Exit From Planet Dust (1995), poteva farsi difficoltosa, tuttavia, i due alchimisti sono mirabilmente riusciti a scovare assortite soluzioni acrobaticamente cacofoniche, nell’attraente stravolgimento delle leggi così attuato. Un disco dal quale tutti si aspettavano precise indicazioni per il futuro. Un disco a seguito del quale il mondo non è stato più lo stesso, perchè è un po' come quando ti innamori, e qualcosa nel tuo modo di percepire determinati aspetti muta per sempre, in bene o in male. Non c'è niente da dire o fare. Impossibile analizzarli a freddo. Nel bagaglio di datate ispirazioni datate, i Chemical Brothers hanno deciso di rigettare a priori i legami con la chimica che sbalordisce, e, piuttosto, riaffermare, invece, i legami biologici della compositiva arte libera da schema alcuno. Acidi e basi. Qui non è questione di incontrare il gusto delle masse, ormai non è tanto questione di stile, ma è questione di classe, è essere diverso da ogni produzione che si fa, diverso nella musica, insomma, l’originalità come prima qualità. L’apertura di Dig Your Own Hole è affidata alla straripante Block Rockin' Beats, caratterizzata da una bass-line dei 23 Skiddo e da un ritornello vocale così semplice, che tutti gli appassionati della dancefloor possono facilmente comprendere, senza dover conoscere chissà quale lingua straniera. È un pezzo che dà veramente la carica: il ritmo è cadenzato dal suono della chitarra e da una serie di suoni intersecati, uniformati e campionati alla perfezione – praticamente delle fantasiose sincopi sismiche alla Public Enemy – a foggiare, con l’apporto della batteria, una musica autorevole e mai ordinaria od oltremisura ripetitiva. Si prosegue sulla stessa linea con la title-track, Dig Your Own Hole, ennesimo avvincente mix di suoni campionati che, a tratti, richiamano alla mente i frastuoni senza tregua del territorio urbano, che tra sirene, tribalismi africani e pulsioni funky, terminano direttamente nel terzo aggressivo pezzo dell’album, ovvero Elektrobank. I suoi otto minuti sono emblematici del programma del disco con le persistenti metamorfosi dell'arrangiamento attorno a una macchinosa modulazione poliritmica. Qui ad un ripetitivo baccano di sottofondo va, lentamente aggiungendosi, una voce che pronuncia una manciata di parole di difficile comprensione, intramezzate a grida e schiamazzi, finché non esplode una fonda e opprimente musica che prosegue, senza calo di ritmo alcuno, per oltre cinque minuti, fino a stemperarsi nel suono della batteria che riduce progressivamente la sua intensità. Piuttosto, gli ultimi due minuti sembrano esser completamente al di fuori dal resto del pezzo, ecco uno dei tanti “marchi di fabbrica” dei Chemical Brothers. In questo caso, in mancanza d’uno stacco netto, si assentano le prime note di Piku, da un fittizio ritmo, al quale va sovrapponendosi un altro a pochi secondi di distanza. La fanfara interrotta e riciclata all'infinito è una vera e propria dimostrazione di equilibrismo eufonico da parte di due emaciati interpreti dell’arte del campionamento. Piku fluisce gradevole, e proprio quando la musica sembra “imballarsi”, sfruttando un abile seppur dilettevole sollazzo ritmico, raggiunge nel finale il suo culmine, divenendo Setting Sun, la canzone che dell’album è probabilmente la più nota. Per gradi, si fa sempre più imponente e scrosciante a batteria, si amplificano i toni e gli echi disturbati, disposti precisamente al di sopra dell’imperversa voce di Noel Gallagher, non uno qualunque, bensì l’anima creativa degli Oasis. Il ritmo è semplicemente irrefrenabile, e di per sé, diviene quasi inammissibile trattenersi dal muoversi o dal cantare l’intera canzone. Subito dopo spazio a It Doesn’t Matter, sperimentale pezzo con tendenze più dirette all'house, e dunque volutamente ripetitivo, carico di collera, che sembra mai esplodere, la cui forza risiede proprio nella ripetizione continua. È uno dei pezzi più particolari del disco, che si può apprezzare fino in fondo solo se si comprende a pieno il suo significato. E così Don’t Stop The Rock finisce col fondersi insieme al pezzo precedente, attraverso un unico e ricorrente suono che l’accompagna per gran parte del suo andamento, e, anzi, in più d’una frazione diviene addirittura quello dominante, per poi scomparire e riaffacciarsi di tanto in tanto. Don’t Stop The Rock è ancora all’insegna della ripetitività, che è simbolo proprio della realtà metropolitana scrutata dai vigili occhi dei Chemical Brothers, tuttavia, è impeccabile, “antinomicamente” parlando, l'armonia di tutti i brani, sapientemente costruita in certosina maniera, facendo spiccare l’impressione di artificiale che il loro meticoloso montaggio ha da sempre conferito alle primigenie musiche. Ancor prima della fine, sono già percepibili le parole che danno vita al titolo del successivo pezzo, ovvero Get Up On It Like This, più divertente e ritmato, contagiato tanto dal rap, tanto dal versante più propriamente techno, appartenente allo stile d Fatboy Slim. Quest’ultimo, pezzo più breve dell’intero disco (meno di tre minuti), precede ciò che, invece, si può definire il più esclusivo, il più fuori dagli schemi, praticamente un sobbalzo elettrodomestico senza storia: Lost In The K-Hole, forgiata nell’eccezionale basso, dà quasi origine ad un senso d’evasione, propria dei grandi sognatori. Pur tenendo salde alcune peculiarità che sono alla base del genere, Lost In The K-Hole spicca per le magiche melodie ed echi da oltretomba. Si giunge, quindi, alla decima traccia, Where Do I Begin, cantata dalla composta e seria voce dei Portishead, Beth Orton, dove la musica, perlomeno nei primi tre minuti, sembra essere completamente al di fuori degli standard di Dig Your Own Hole. Un’originalità che conferisce maggior movimento all’intero disco. Dopo aver titubato per la prima parte del pezzo, ecco che nella seconda alzano il capo gli originali Chemical Brothers, con la solita baraonda di prorompenti e replicati martellamenti a strati, che danno l’idea della circostanza di vero e proprio caos, chiamato a distruggere qualsiasi schema conferisse equilibrio all’interno di Where Do I Begin. Praticamente saldato al finale, si snoda l’ultimo pezzo di questo leggendario disco, ovvero The Private Psychedelic Reel, lunga ed elettronica ballata dalle atmosfere orientaleggianti, realizzata con la collaborazione dei Mercury Rev, e in particolare della loro voce Jonathan Donahue, che qui però suona il clarinetto. È la summa delle capacità compositive dei “Fratelli Chimici”, una sorta di viaggio da nove minuti, che racchiude la magia, la bellezza, la forza, la bravura, la genialità, che il duo ha sottratto al mondo sogni, e trasformto in pura musica. Stentare a credere. Chiudere gli occhi e lasciarsi andare completamente. Un suono ipnotico del sitar che anima sonorità psichedeliche, proiettate verso il buio spazio. Memorie dell’epoca rave, memorie adolescenziali. Una canzone che entra in testa una volta e non uscirà mai più. In conclusione, d’innanzi a simili giochi di prestigio, i Chemical Brothers finiscono per esser i protagonisti indiscussi della nuova era della musica elettronica. Irraggiungibili. |
Post n°87 pubblicato il 20 Luglio 2006 da Nekrophiliac
GROOVE ARMADA: GOODBYE COUNTRY (HELLO NIGHTCLUB) (2001) Caustico ritroso. Al culmine di una vibrante nottata, splende alto il bagliore della luce del nuovo giorno, appena circoscritto alla risacca di un placido mare che solletica il bagnasciuga: è la ricorrente sensazione di uscita dallo stimato club, per il quale, ore fa, ti sei lasciato alle spalle un intero paese. Non c'è scampo. Trip hop, dub, dancehall, e illimitati samples sono i generi, ben assortiti, che si disperdono nell’etere, surrogati dalle piacevoli note, non a caso, “groove” più del solito. L’anima del disco, straordinariamente riuscito al di là delle più rosee aspettative, è qui racchiusa: divertire, stupire, come un bian coniglio fuoriuscito dal cappello di due magici prestigiatori londinesi, Tom Findlay e Andy Cato, e, perché no, resistere anche all’usura del tempo, divenendo un modello per tutti coloro che intenderanno seguire le orme del duo, almeno sino al club. Un nome importante, praticamente fondamentale, per gli appassionati dell’elettronica di qualità. Sotto la sigla Groove Armada si celano coloro i quali collezionarono una piccola serie di successi, con "4 Tune Cooking" e "At the River", nello scorso decennio, già ballati da mezza Europa, prima di compiere il tanto sospirato salto di qualità, coinciso con la pubblicazione del loro album di debutto: Vertigo (1999), che fece in tempo a scalare, di prepotenza, le classifiche del Regno Unito, vincendo persino un disco d'argento. I singoli in esso contenuti conobbero, a rigor di logica, un successo inaspettato: basti pensare a I see you baby, remixata da quel genio di Norman Cook, meglio conosciuto come Fatboy Slim. I Groove Armada, a questo punto, firmarono poi una compilation della serie Back To Mine e, nel 2001, tale capolavoro. Dissimile, polimorfo, “contaminato” e autentico, Goodbye Country (Hello Nightclub), fin dal titolo, è in grado di conquistarsi il suo spazio nella storia. Infatti, si passa da accenni decisamente plastici ed elastici, propriamente dance, ad istanti più "musicali", desiderati, apprezzati e d'atmosfera; inoltre, i due hanno finito col collaborare con molteplici artisti proprio per far sì che il “genere” si contaminasse attraverso una vena creativa che a loro (forse) non appartiene. Dal tramonto all’alba. Con curiosità, Suntoucher è in prima battuta e promette, in parte, ciò che contraddistingue il disco per la sua intera lunghezza: un ritmo chill-out contornato da reiterate chitarre ovattate, surrogate da una serie di fiati ben riverberati, infine sostenuti da occasionali vocalist, a tratti “black", come nel caso in questione, con il flusso di parole “thrilling” di Jeru The Damaja. Una piacevole sorpresa. Il gioco si ripete con il secondo brano, ma qui il volume dei diffusori acustici si alza all'inverosimile. Superstylin’: ecco il primo singolo estratto, nonché il brano che, magnificamente, racchiude in sé l'essenza dell'intero album. È in grado di fare incontrare il cielo e il mare, cioè l’accattivante acid house e l’inneggiante down beat, risultando congeniale tanto per le dancehall, quanto per radiofonica da esser proposta come sveglia del mattino: tale è il cammino intrapreso dai Groove Armada, che hanno l’ampio merito di “sdoganare la musica dance”, rendendola non soltanto un veicolo di commerciabili folle, bensì, facendo emerge il suo più alto livello qualitativo. Dopo aver spaziato dall'ambient alla techno, non disdegnando incursioni nel trip-hop, i "due ragazzi con il trombone" – in quanto si avvalgono tanto in studio, quanto dal vivo di una sezione di fiati "autentica" – si cimentano qui in un’improbabile congiunzione della spontanea solarità del dub, con la grezza potenza del drum'n'bass. L'apertura è, infatti, ampiamente dedicata ad echi di fiati e percussioni giamaicane, che sono presto tallonate dal penetrante basso che scorta la cadenza decisamente "old school" del guest rapper, M.A.D. Ne risulta una vera e propria granata sonora, la cui autorità non si percepisce completamente dal bizzarro clip, dove due fattorini d’occasione trasportano in giro un gigantesco altoparlante nella speranza di trovare chi sia capace di farlo rendere al massimo. Attenzione, i tentativi di ristrutturare/rinnovare la musica dance non si fermano certo qui. La seguente Drifted è un trip di psichedelia elettronica alquanto rilassante, ove è labile il confine tracciato tra l’house e la tribal. Atmosfera che da riposante diviene, a dir poco, magica e sognante sulle scandite note di placido pianoforte, con Little By Little, canzone che annovera tra gli ospiti alla voce, quella bellissima ed intensa di una leggenda vivente del soul, quale Richie Havens. Nella traccia successiva, Fogma, dai flessuosi sintetizzatori “a singhiozzo”, il duo londinese decide di confrontarsi direttamente con l'house più classica e impetuosa. La gradevolissima My Friend è una piccola e malinconica gemma d'atmosfera, leggera nell'arrangiamento soft, imperniato sul groove rubato all'intro di Gotta Learn How To Dance della Fatback Band, e minimale nell'unica frase del testo, « Whenever I’m down, I call on you my friend. A helping hand you lend in my time of need », interpretato dalla voce di Celetia Martin, tuttavia, tratta integralmente da Best Friend di Brandy. Uno straordinario esempio di come il sano e genuino lavoro di assemblaggio, in cui la drum machine e gli svariati sintetizzatori trovano un'armonica fusione con strumenti "autentici" quali chitarre funky e organi elettrici, possa risultare oltremisura creativo ed oltremodo innovativo. Tagliato su misura è lo splendente clip d'accompagnamento, con la sequenza delle scene di tangibile vita quotidiana di un'anonima impiegata di città a conferire quel senso di avvilente routine e persistente prevedibilità insite nell'esistenza dell’essere umano moderno, alternate, però, ai fulgidi ricordi degli istanti trascorsi al Sole, in spiaggia, tra feste e altro ancora. In ogni caso, la sensazione di trovarsi in un mondo virtuale non si esaurisce qui, bensì continua attraverso la propagazione degli effetti sonori iniziali di Lazy Moon, in cui il vento sembra scorrere dolce sottofondo all'arpeggio di una chitarra acustica e alle note di un malinconico del violino. In termini di lunghezza, non si tratta di un breve episodio “bossanova”, tuttavia, all'interno di un disco di analogica musica dance, tra campioni e campionatori, realizzata con grande classe ed ottimo gusto, a dir poco, colpisce e stupisce l’attento ascoltatore che mai si sarebbe aspettato chissà quali “colpi di archi” proprio qui, nel club dei Groove Armada, che immediatamente si rilancia, a seguito di tale pausa con Raisin’ The Stakes, dalle tipiche atmosfere della “vecchia scuola”: ritmo scarno, enormi vibrazioni, convulsi fiati, lungo rap d’assalto. Healing, piuttosto, è la sintesi dell’energia, del dinamismo e del movimento, dove i “bassi” riempiono l’umano sterno a colpi di martello, subito attenuati da una nuova fermata: Edge Hill, che presenta vari inserimenti di chitarra acustica e ottimi arrangiamenti sinfonici, il tutto tracciato su un sapiente tappeto di, ancora, archi. In simili episodi, sembra di trovarsi di fronte ad una vera e propria jam session, anziché ad un lavoro di re-sampling. Il fatto che Andy Cato e Tom Findlay abbiano, generalmente, girato in tour con una band di nove e più elementi può aiutare a afferrare lo spirito che soffia vitale entro l’anima dei Groove Armada. Spazio, allora, a Tuning In, che propone le atmosfere lounge care al duo, laddove su tempo veloce solo a tratti, si distendono nell'ordine: l’onnipresente basso, seppur discreto, la leggera tastiera in appoggio e gli interventi vocali di Tim Hutton, limitati a pochi versi proiettati nell'aere, ove, una manciata di istanti dopo, si propaga cadenzata Join Hands, ripetitiva, anche se efficace a far allentare la tensione. In conclusione, altra perla d’altri tempi: Likwid. A fronte di uno spazio, o forse un’atmosfera parallela al club, si erigono radar che sondano un miscuglio di suoni, dal basso oltre il confine sino a pulsazioni sintetiche, elevando tutto ciò che è ascrivibile sotto la ridicola e banale etichetta di dance, un “qualcosa” che è insuperato e insuperabile per dignità artistica, che mai stanca e che arricchisce l’ascoltatore, a seguito di reiterati ascolti, sempre di nuovi suoni, di sfumature ritmiche, che non possono che rendere il disco mai uguale a se stesso. Rimasti per parecchio, forse troppo, tempo, nella nicchia delle cult-band idolatrate dai soli addetti ai lavori, Tom Findlay e Andy Cato hanno definitivamente sfondato con questo disco, dimostrando, una volta di più, una versatilità ed una sensibilità non comuni, tali da permettere loro di realizzare brani sempre azzeccati pur mutando ogni volta registro e genere. Magnifici. |