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Per il recupero dei Collegi Arbitrali di Disciplina nel Pubblico Impiego

Post n°19 pubblicato il 21 Settembre 2011 da dirittiedignita

 

- La conflittualità nel sistema di misurazione delle performance individuali -

 

L'articolo che segue è stato pubblicato sulla rivista "Il Mondo Giudiziario" -nella sezione "Personale delle Cancellerie" -  n.ri 37 e 38, rispettivamente del 12 e 19 settembre 2011

 

La Delibera n. 104/2010 della Commissione per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche, istituita dall'art. 13 del D.lgs 27 ottobre 2009 e più brevemente conosciuta con l'acronimo di CIVIT, ha fornito le linee guida per la definizione dei sistemi di misurazione e valutazione delle performance organizzative e individuali introdotte dalla riforma di cui al citato Decreto legislativo e riguardanti il lavoro pubblico.

Tra i vari criteri delineati, ai quali le Amministrazioni dovranno assoggettarsi, attraverso i rispettivi Organismi indipendenti di valutazione (OIV) previsti dall'art. 14 del medesimo atto legislativo delegato, la Commissione ha ritenuto opportuno evidenziare, al punto 4), quale diretta conseguenza del complessivo sistema di valutazione, l'ipotesi di un aumento ricorsuale al Giudice del lavoro da parte di quei prestatori che non condivideranno le scelte valutative meritocratiche che li riguarderanno di persona.

La medesima CIVIT, infatti, osserva l'opportunità di istituire "dei soggetti terzi rispetto al valutato e al valutatore", diversi per funzione e composizione rispetto agli OIV, cui demandare la risoluzione bonaria e in via stragiudiziale del conflitto, che inevitabilmente verrà a crearsi a seguito dell'implementazione del nuovo modello gestionale delle performance individuali dei lavoratori pubblici (con eccezione di quelli realmente e concretamente "pubblici": magistrati, professori universitari, avvocati dello Stato, diplomatici, prefetti, autorità amm.ve indipendenti, ecc.) e, soprattutto, come prescritto dall'art. 7, co. 3 del D.lgs 150 del 2009

Alla luce di quanto sostenuto dalla Commissione sembrerebbe utile, ma si potrebbe usare anche il termine «indispensabile», reintrodurre un organo collegiale il cui funzionamento è già stato collaudato nei decenni scorsi.

 Ci si riferisce ai Collegi Arbitrali di Disciplina che il D.L. n. 112 del 2008, convertito in legge n. 133 del 2008, ha di recente soppressi per corrispondere a "sentimenti" di natura demagogica, più che soddisfare esigenze razionalmente ispirate ai principi di cui all'art. 97 della Costituzione.

Tra le accuse che venivano precedentemente mosse all'indirizzo dei CAD che si occupavano dei procedimenti disciplinari promossi nei confronti dei dipendenti pubblici, c'era quella che li vedeva troppo protesi a loro favore. Non si è, però, mai dimostrato - dati alla mano - se tale asserzione avesse qualche fondamento o meno.

Nella fattispecie delle decisioni deliberate dal CAD presso il Ministero della Giustizia, ad esempio, esse hanno trovato conferma presso la competente Autorità in sede giurisdizionale nella quasi totalità dei casi.

E ciò a riprova del fatto che quando le decisioni dei CAD sono state  favorevoli al lavoratore ricorrente avverso un provvedimento sanzionatorio irrogato dal datore di lavoro, hanno reso giustizia in maniera fondata ed equilibrata poiché non censurata dal Giudice ordinario, dimostrando, così, la scarsa capacità del datore di lavoro di fare riscorso alle procedure disciplinari secondo diritto (e, spesso, secondo buon senso).

Ora, invece, detto contenzioso è ricaduto completamente sui già affollati ruoli dei Tribunali ordinari in funzione di GdL. Sebbene molti sono i tentativi presenti nei Disegni di Legge allo studio del Governo e pronti ad essere approvati in sede parlamentare volti a introdurre ulteriori filtri con intenti deflattivi (o sarebbe meglio dire «defatigatori») del processo civile, ci sembra che la soppressione dei CAD è andata proprio nel segno opposto alle anzidette intenzioni.

È singolare che mentre da una parte con il c.d. Collegato al Lavoro approvato nel novembre 2010 si favorisce il ricorso a diverse ipotesi di conciliazione e arbitrato nelle controversie individuali di lavoro (art 31), dall'altra si dispone la soppressione dei Collegi di disciplina arbitrale presso le Amministrazioni pubbliche.

Si consideri, poi, che, ai sensi del comma 8, art. 31 del Collegato al lavoro di modifica dell'art. 412 quater c.p.c., le controversie di cui all'art. 409 c.p.c. possono essere devolute a un collegio di conciliazione e arbitrato irrituale i cui costi per la relativa nomina e costituzione restano a carico sia del lavoratore, sia del datore di lavoro che decidano di farvi ricorso, poiché l'articolato normativo prevede che: "Il compenso del presidente collegio è fissato in misura pari al 2 per cento del valore della controversia dichiarato nel ricorso ed è versato dalle parti, per metà ciascuna, presso la sede del collegio mediante assegni circolari intestati al presidente... Ciascuna parte provvede a compensare l'arbitro da essa  nominato", oltre le spese legali da liquidarsi nel lodo, pari all'1 per cento del valore della controversia.

I Contratti collettivi di categoria prevedono, infatti, come mera facoltà (possono) l'istituzione di un fondo avente la finalità di rimborsare il compenso per il presidente del collegio e del proprio arbitro di parte. Le altre spese legali restano a carico dei dipendenti.

E' opportuno, a tal fine, stigmatizzare il fatto che dal mese di novembre 2009, data dalla quale i CAD hanno perso la propria operatività per effetto dell'art. 73 del D.Lgs 150 del 2009, il contenzioso in materia giuslavorativa dell'Amministrazione giudiziaria è schizzata alle stelle: dal gennaio 2010 alla data di entrata in vigore della Legge 4 novembre 2010, n. 183, c.d. Collegato al lavoro1, sono state avviati migliaia di  tentativi obbligatori di conciliazione innanzi alle apposite commissioni istituite presso gli Uffici provinciali del lavoro, tentativi che nella totalità dei casi diventeranno ricorsi giudiziari "in carne e ossa", attesa la globale mancata presentazione dell'Amministrazione datrice di lavoro in sede conciliativa obbligatoria.

La miopia dell'intervento legislativo di tipo demagogico prima evidenziato non ha, dopotutto, tenuto conto che i CAD esercitavano un importante effetto filtrante di tutta l'immensa mole del contenzioso rappresentato dai procedimenti disciplinari in ambito di rapporto di lavoro pubblico contrattualizzato.

I CAD, inoltre, non comportavano alcun onere economico per l'Amministrazione posto che dei 5 componenti di ciascun collegio soltanto il presidente percepiva un compenso simbolico posto a carico dell'Amministrazione, pari a sole 1,13 € a seduta.

In definitiva, anche alla luce del sistema di valutazione e classificazione sulla meritevolezza della prestazioni di lavoro individuali del P.I, e  attesa la delibera del 2 settembre 2010, n. 104 della CIVIT, prospettante in anticipo l'incremento della conflittualità di natura contenziosa in ambito lavorativo pubblico in relazione all'implementazione e diffusione dei sistemi di valutazione - con il conseguente auspicio di introdurre soggetti terzi rispetto alle parti in contesa deputati a pronunciarsi sulla corretta applicazione del Sistema al fine di evitare il ricorso al Giudice del lavoro - si potrebbe incominciare a parlare seriamente dell'esigenza di "spogliarsi" di ogni pre-giudizio ideologico nei confronti delle precedenti esperienze fornite dai CAD e pensare a soggetti autonomi e indipendenti o comunque terzi in grado di rispondere alle molteplici esigenze rappresentate:

1.   dal beneficio immediato dovuto al contenimento del ricorso alla tutela giudiziaria;

2.   dal conseguente beneficio indiretto del contenimento dei costi sociali di una Giustizia ordinaria civile del lavoro;

3.   dal contenimento dei tempi per la definizione delle procedure valutative delle performance individuali che non possono attendere i tempi della giustizia ordinaria ex art. 414 c.p.c.;

4.   dal contenimento dei costi a carico dei lavoratori e delle Amministrazioni in caso di ricorso al GdL, in ogni grado del processo;

Si potrebbe pensare all'istituzione di soggetti terzi di conciliazione stragiudiziale ispirati alla razionalizzazione delle strutture e dei relativi costi (generalmente già bassi) di esercizio, come, ad esempio, di organi collegiali competenti per più Amministrazioni dello Stato, raggruppati per affinità istituzionale o contrattuale del lavoro o, ancora, a base territoriale.

Si potrebbe, oltremodo, prevedere il possesso di requisiti culturali di elevato livello ed anche una selezione per titoli ed esami nei confronti  di coloro i quali vogliano far parte di tali organismi.

Far riferimento ad un Collegio unicamente composto e competente per più amministrazioni potrebbe, infine, essere una modalità utile ad allontanare il sospetto di cui in passato i CAD erano accusati e dei quali si è già esposto prima.

L'abolizione dei CAD appare tanto più priva di motivazioni logiche ed oggettive, posto che il Governo, al fine di migliorare il comatoso stato della giustizia ha già dato il via ad azioni per deflazionare l'enorme contenzioso che affligge il nostro sistema giudiziario.

Al riguardo è sufficiente fare riferimento oltre che al citato arbitrato Collegato al Lavoro, anche all'Istituto della Mediazione la cui "ratio", in parte condivisibile, è quella di tentare di risolvere le quotidiane controversie che sorgono nella vita quotidiana evitando che le stesse si riversino nelle aule dei Tribunali affollate ormai all'inverosimile.

Non si comprende, quindi, quale sia la motivazione (se non quella di una prevenzione ideologica nei confronti dei Lavoratori Pubblici) che ha portato l'abolizione dei CAD i quali dirimevano stragiudizialmente senza onere alcuno per i Tribunali le controversie disciplinari riguardanti 3 milioni ed oltre di dipendenti pubblici i quali ora, per tutelare i propri diritti,  non avranno altra possibilità che rivolgersi al Giudice del Lavoro con conseguenze facilmente immaginabili in merito all'aggravio dei carichi di lavoro e delle spese procedurali conseguenti.

Tale decisione appare tanto più sconcertante posto che la "Legge Brunetta" rende molto più semplice l'irrogazione delle sanzioni disciplinari nei confronti dei pubblici dipendenti ampliando a dismisura la potestà disciplinare dei Dirigenti.

A questo punto è facile ipotizzare un aumento del numero dei procedimenti disciplinari nei confronti dei Lavoratori Pubblici (come di fatto si sta verificando) a cui seguiranno le relative impugnazioni innanzi al Giudice del Lavoro già travolto da centinaia di migliaia di procedimenti.

Come tutto ciò possa tradursi in un miglioramento dei servizi pubblici appare davvero di difficile comprensione.

Quello che ancora una volta appare evidente, purtroppo, è la inequivocabile volontà punitiva nei confronti dei pubblici dipendenti, senza alcuna reale volontà riformatrice da parte dei responsabili della Pubblica Amministrazione.

E' fin troppo scontato sottolineare che i soggetti chiamati a dirimere il conflitto individuale di lavoro debbano non solo essere terzi e imparziali, ma dimostrarsi tali rispetto alle parti contendenti (oltre a dover essere e dimostrarsi indipendenti), affinché si possa parlare di un efficace sistema conciliatorio cui affidare la risoluzione delle controversie.

Solo, infatti, il pieno rispetto di questi due requisiti può spingere entrambe le parti in disputa ad affidarsi con fiducia a un organo con funzioni conciliative, poiché di riconosciuta autorevolezza.

Possiamo anche dire con facilità che quanto più grande è il riconoscimento della terzietà e indipendenza dei soggetti investiti dalla procedura conciliativa, maggiore sarà il ricorso con successo a queste tipologie deflattive della conflittualità tra datore di lavoro e prestatore d'opera. L'autorevolezza, misurata sul riconoscimento della terzietà e imparzialità, degli arbitri e conciliatori è il canone con il quale pesare il grado di efficacia di chi è chiamato a risolvere controversie di qualunque specie.

Se ciò è vero fino ad apparire lapalissiano, si cita quanto previsto dall'OIV (Organismo indipendente di valutazione di cui all'art. 14 D.lgs n. 150 del 2009) istituito presso il Ministero della giustizia lì ove, in conformità alle direttive CIVIT e al citato D.lgs 150 del 2009, ha individuato il soggetto cui affidare le funzioni conciliative per la risoluzione in via stragiudiziale delle eventuali dispute sorgenti tra valutatore e valutato in occasione della misurazione delle prestazioni individuali del lavoratore-valutato.

Specificatamente, per gli Uffici giudiziari il conciliatore è stato individuato (si V. il "Sistema di misurazione e valutazione delle performance" - Registrato alla Corte dei conti il 27 aprile 2011 che è possibile leggere in: www.giustizia.it) nella figura del valutatore operante presso un altro Ufficio giudiziario, secondo uno schema definibile per "Competenze incrociate".

In altre parole, il valutatore, ad esempio, della Corte d'appello farà da conciliatore per il personale in servizio presso la relativa Procura generale.

 Il valutatore della Procura generale diverrà conciliatore per il personale della relativa Corte d'appello.

Si incrociano, così, le funzioni conciliative tra gli uffici di prossimità.

Ebbene, quale potrebbe essere il grado di terzietà (mentre non è da mettere in discussione il livello riferito all'indipendenza) di un conciliatore che è egli stesso espressione, poiché la rappresenta in pieno, dell'Amministrazione datrice di lavoro?

Per comprendere l'assurdità ed illogicità di tale meccanismo è sufficiente osservare che nel corso della propria carriera il valutatore in servizio nella Corte di Appello al quale sono stati attribuiti compiti di conciliatore per il personale della Procura Generale potrebbe essere trasferito presso tale ufficio giudiziario assumendo, quindi, il potere-dovere di valutare gli stessi dipendenti nei cui confronti precedentemente era stato chiamato ad assumere funzioni di conciliatore nelle controversie concernenti  le valutazioni della prestazione lavorativa.

E tale commistione di ruoli potrebbe verificarsi anche in senso contrario e cioè che un soggetto il quale ha svolto nei confronti di dipendenti di un  ufficio giudiziario funzioni di valutatore potrebbe essere trasferito presso un  ufficio giudiziario di prossimità con funzioni questa volta di conciliatore nei confronti delle controversie in materia di valutazione dell'attività  lavorativa promosse  dai dipendenti che lui stesso aveva precedentemente valutato!

Senza voler mancare di fiducia nelle qualità morali e professionali del soggetto che, come un novello giano bifronte, potrà assumere, nei confronti degli stessi lavoratori, a seconda dei casi, il ruolo di valutatore o quello di conciliatore sembra ragionevole che possa sorgere qualche fondato sospetto in merito alla effettiva terzietà che il conciliatore-valutatore sarà in grado di assicurare nello svolgimento della propria attività.

 

I sospetti appaiono, poi, ancora più sinistri se il ragionamento è allargato a quanto dovrebbe accadere in sede di Amministrazione centrale della giustizia.

Se è vero che chi è chiamato a svolgere funzioni conciliative non solo deve essere, ma apparire terzo rispetto alle parti in conflitto, allora, in questo caso, non sembra proprio essere rispettato né il requisito presupposto dell'essere, né quello (deontologico) dell'apparire.

Il soggetto conciliatore, infatti, è pur sempre parte datoriale (con conseguente relativo approccio culturale o di mentalità verso il valutato-ricorrente) e dunque non può dirsi equidistante rispetto alle parti in contesa(!).

I sopra riportati timori risultano ancora più fondati alla luce della Delibera CIVIT n. 124 del 22 dicembre 2010 che esprimendosi su di una richiesta di parere da parte di una Pubblica amministrazione riporta il seguente assunto:

"...Tanto precisato, risulta, semmai, più coerente con il dettato normativo il tentativo di conciliazione previsto dall'art. 410 cpc, così come novellato dalla recente legge n. 183/2010, in materia di risoluzione delle controversie di lavoro (Collegato al lavoro). A tal riguardo, le amministrazioni potranno eventualmente ricorrere a tale istituto per soddisfare quanto previsto dall'art. 7, co. 3, del dlg. n. 150/2009.

ESPRIME

l'avviso che l'esigenza dell'adozione di procedure di conciliazione, ai sensi dell'art. 7, co. 3, del dlg. n. 150/2009, deve essere soddisfatta o con l'istituzione di un apposito collegio di conciliazione nelle forme anzidette o con l'applicazione dell'istituto di cui all'art. 410 cpc.

In quest'ultima ipotesi ci si riferisce alle Commissioni istituite presso la Direzione provinciale del lavoro.

Alla luce di questo autorevole parere, le procedure di conciliazione previste dal Sistema di misurazione e valutazione per il personale contrattualizzato del Ministero della giustizia sembrano essere apertamente in contrasto con le direttive CIVIT che non lasciano scampo a diverse ipotesi operative.

A questo punto sarebbe stato opportuno creare un organo di conciliazione collegiale misto ovvero composto sia da membri nominati dall'Amministrazione, sia da rappresentanti dei lavoratori. In altri termini, i CAD avrebbero potuto svolgere questa funzione delicata portando tutta la propria esperienza e collaudata organizzazione anche in riferimento alla capacità di approccio al conflitto inteso come fenomeno.

Soprattutto, però, si sarebbero liberati gli Uffici giudiziari da gravose conseguenze sul piano organizzativo!

Le condizioni in cui versano gli Uffici sono sotto gli occhi di tutti: le ataviche carenze di personale costituisce ormai un trend di crescita progressiva causato dal mancato turn-over del personale giudiziario, a sua volta dovuto al blocco delle assunzioni nell'ambito del Pubblico impiego.

Gli Uffici più piccoli sono in grossa difficoltà, così come quelli più grandi. Sembra molto difficile pensare che tali procedure conciliative possano essere svolte con le risorse umane attuali.

Si tratta di procedura che a regime diventerà, per la quasi totalità degli uffici, una ennesima incombenza da gestire e che, per le ragioni appena evidenziate, richiederà, con molta probabilità, l'istituzione di segreterie ad hoc in grado di assistere valutatori e conciliatori nella gestione dei tempi e delle rispettive procedure di valutazione e conciliazione.

Si consideri, poi, che le numerose "innovazioni" introdotte negli ultimi tre anni hanno, quale diretta conseguenza, prodotto (soltanto) una notevole quantità di incombenze e adempimenti, spesso legati a rigorose scadenze. Si pensi, ad esempio, alle numerose statistiche che vengono richieste ai responsabili della gestione del personale (che, per la cronaca, coincidono - nell'ambito degli Uffici giudiziari - con i valutatori, nonché conciliatori) volte ad alimentare le banche-dati volute dal Dipartimento della Funzione Pubblica della PCM (tassi di assenza mensile; tassi di assenza annuali - Tab. 11; procedimenti disciplinari avviati; percentuale di adesione agli scioperi; monitoraggio dei permessi retribuiti, etc.) e alle comunicazioni telematiche introdotte come obbligatorie per la PA.

Tutto ciò a fronte dell'ulteriore riallocazione delle risorse contenute nell'art. 74 D.L. 25 giugno 2008, n. 112, convertito con Legge 6 agosto 2008, n. 133, per effetto della quale si riduce il contingente di personale adibito allo svolgimento di compiti logistico-strumentali e di supporto, come quelle in materia di gestione del personale, in misura non inferiore al dieci per cento a favore delle funzioni istituzionali. Le conseguenze scaturenti dalle ennesime incombenze che deriveranno dalle procedure di valutazione e conciliazione presso gli uffici giudiziari, e descritte dal "SISTEMA DI MISURAZIONE E VALUTAZIONE DELLE PERFOMANCE" del 27 aprile 2011, potrebbe provocare ennesimi disagi e disservizi o peggio ancora dare luogo all'inosservanza delle stesse disposizioni per impossibilità materiale ad operare oppure, come già successo nella stragrande maggioranza dei casi, ad operare in maniera del tutto superficiale secondo lo schema dell'"apparenza" (adempiere con il solo intento di scongiurare eventuali responsabilità dirigenziali). Detti rischi si potrebbero facilmente evitare ripristinando i vecchi e collaudati Collegi arbitrali di disciplina e affidando loro queste incombenze.

Altro aspetto da sottoporre a verifica è, inoltre, quello che il più volte citato Sistema di misurazione non chiarisce se la procedura conciliativa ivi richiamata debba intendersi come obbligatoria o sia, invece, facoltativa per il dipendente-valutato che intende ricorrere avverso la "pagella" di misurazione della performance individuale.

A tal proposito è da tenere presente che in base agli orientamenti della Consulta (si vedano le Sentenze nn. 127/1977, 50/1955, 62/1968, 152/1996, 325/1998, 381/1997, 54/1996 e 232, 206, 49/1994, 488/1991 e da ultima la n.ro 221 del 2005) anche il Capo dello Stato effettuò dei rilievi nel marzo 2010 quando, in prima battuta, rimandò il testo del c.d. "Collegato al lavoro" (ddl 1167-B del Senato, poi divenuta Legge 4 novembre 2010, n. 183) alle Camere, proprio perché aveva eccepito dubbi sulla legittimità costituzionale di quelle norme (art. 31 in materia di conciliazione e arbitrato) che obbligavano i lavoratori a ricorrere ai vari strumenti conciliativi o di arbitrato prima ancora di adire il Giudice in violazione, così, della riserva a favore della giustizia statuale operata dagli art. 24, co 1, 25, co. 1 e 102 Cost., lasciando l'obbligatorietà della conciliazione alle sole ipotesi dei c.d. "lavori certificati", di cui all'articolo 80, comma 4, del d. lgs. n. 276/2003, che continua ad essere obbligatorio (art 31, co 2 L. n. 183 del 2010).

Si è, dunque, finito con affermare normativamente che il tentativo di conciliazione diviene facoltativo anche per il settore pubblico poiché, il co. 9 dell'art 31, dopo aver abrogato gli artt. 65 (tentativo di conciliazione obbligatorio nelle controversie individuali) e 66 (collegio di conciliazione) del d. lgs 30 marzo n. 165 del 2001, stabilisce che la normativa privata prevista si applica anche alle controversie ex art 63, co 1 D. lgs n. 165 del 2001.

Anche la conciliazione prevista dal Sistema di misurazione della valutazione de qua, la cui efficacia vincolante dovrebbe derivare dall'art. 30, co. 3 del D. Lgs n. 150 del 2009, non potrebbe non ispirarsi al principio della facoltatività dello strumento conciliativo. 

                                           Mauro Di Peso - Carlo Zaupa - Luca Cilli

                                                "Associazione Diritti & Dignità"

 

 


1 Il 24 novembre 2010

 

 

 

 
 
 
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