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e i gli pseudo intellettuali...

Post n°7 pubblicato il 01 Gennaio 2008 da dr_house_4U
 
Foto di dr_house_4U

a volte trovo proprio puerili gli atteggiamenti da intellettuali.. disperezzare la forma il bello, l'effimero il piacere ,,, e valutare solo l'intelletto e la morale..

la bellezza come anche il sesso sono un dono di dio, disprezzarla perchè così, per luogo comune, si appare più profondi è un idiozia..

certo, ovviamente nn è tutto..

ma nemmeno l'intelligenza lo è...

 
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e anche x quest'anno ...

Post n°6 pubblicato il 01 Gennaio 2008 da dr_house_4U
 
Foto di dr_house_4U

dormito poco .. ma divertito tanto... e pure lei...

chissà che cosa vuol dire se in primo rapporto dell'anno è stato sadomaso...?

 
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Ma se la corsa cinese inciampa il regime potrà farsi aggressivo

Post n°5 pubblicato il 31 Dicembre 2007 da dr_house_4U
 
Foto di dr_house_4U

Sempre più attraente, il modello Pechino non è però infallibile

Il 2008 sarà l' anno della Cina. I Giochi olimpici - con la loro regia
sicuramente impeccabile, senza l' ombra di un contestatore, un
senzatetto, un dissidente religioso o altri guastafeste di sorta -,
esalteranno con ogni probabilità il suo prestigio globale. E mentre l'
economia americana continua a sprofondare nella spirale dei mutui
immobiliari insolvibili, il boom della Cina non si arresterà. Nuove e
spettacolari costruzioni, progettate dagli architetti più in vista
sulla scena mondiale, faranno di Pechino e Shanghai i modelli dell'
avanguardia del ventunesimo secolo. Gli imprenditori cinesi scaleranno
tutte le classifiche degli uomini più ricchi del pianeta. E, nelle aste
internazionali, gli artisti cinesi riusciranno a strappare quotazioni
che i loro colleghi possono soltanto sognare. Riemergere da uno stato
di sostanziale miseria e da una sanguinosa tirannia nel giro di una
generazione è un' impresa mirabile, e alla Cina va reso merito di tutto
ciò. La sua fortuna, tuttavia, costituisce anche la sfida più
significativa rivolta alla democrazia liberale sin dai tempi del
fascismo, negli anni 30 del secolo scorso. E non perché la Cina
rappresenti una seria minaccia militare. Il rischio di una guerra con
gli Usa, o addirittura con il Giappone, non è che una fantasia nella
mente di qualche fanatico e paranoico ultranazionalista. No, è nel
campo delle idee che il Modello Cinese mette a segno le sue vittorie.
Il successo materiale della Cina, con buona pace delle ripercussioni
sull' ambiente naturale, fa del suo modello politico-economico un'
attraente alternativa al capitalismo liberal-democratico. Di più: un'
alternativa concreta. A dispetto dei proclami di alcuni esperti e
intellettuali, il capitalismo cinese non rispecchia quello europeo di
ottocentesca memoria. Se due secoli fa, infatti, la classe operaia (per
non parlare della popolazione femminile) in Europa non godeva del
diritto di voto, tutte le classi sociali potevano contare su molteplici
forme di vita organizzata indipendenti dallo Stato. Anche durante gli
stadi più critici del capitalismo occidentale, la società civile in
Europa e negli Stati Uniti poggiava su di un' estesa rete di circoli,
partiti, società e associazioni, dalle chiese ai club sportivi. Lo
stesso valeva per una Cina ancora lontana dalla democrazia, prima che
il presidente Mao soppiantasse ogni potenziale minaccia al monopolio
perfetto del Partito comunista. Dopo il tramonto del Maoismo, la
popolazione cinese ha riconquistato numerose libertà personali, ma non
quella di organizzarsi politicamente (o in altro modo) sfuggendo al
controllo del Partito. Il comunismo sarà anche fallito come ideologia,
ma sotto questo particolare aspetto la Cina non è cambiata. Il Modello
Cinese è talvolta descritto in termini tradizionali, come se la moderna
politica del Paese fosse semplicemente una versione aggiornata del
confucianesimo. In realtà, invece, una società in cui la corsa alla
ricchezza da parte della classe dirigente viene esaltata più di ogni
altra prerogativa umana, è ben lungi da qualsivoglia tradizione
confuciana. Si fa fatica, tuttavia, a negare il successo di tale
modello. Se c' è un mito che la corsa cinese alla ricchezza ha sfatato,
è l' idea confortante che dal capitalismo, e dalla crescita di una
ricca borghesia, non possa che scaturire una democrazia liberale. Al
contrario, è proprio il ceto medio benestante, subornato a suon di
promesse di illimitati guadagni materiali, che spera di preservare l'
attuale ordinamento politico. Può darsi sia, il loro, un accordo
faustiano (la prosperità in cambio dell' obbedienza politica, o meglio
dell' abdicazione), ma finora ha funzionato. Il Modello Cinese non
attrae soltanto le nuove élite della Cina costiera, ma esercita un
ascendente globale. I dittatori africani - anzi: i dittatori di
qualunque Paese - che sfilano sugli sfarzosi tappeti rossi srotolati al
loro arrivo a Pechino, l' adorano. Si tratta infatti di un modello
antioccidentale, e i cinesi non vanno in giro a predicare la
democrazia. Anche se volessero, non sarebbero nelle condizioni per
farlo. Esso, però, è anche fonte di ingenti somme di denaro, che
finiscono per lo più nelle tasche di questi stessi despoti. Il punto,
tuttavia, non è la corruzione. La vera vittoria è di natura ideologica.
Dimostrando che l' autoritarismo può avere successo, la Cina assurge a
modello per gli autocrati di ogni dove: da Mosca a Dubai, da Islamabad
a Khartum. Ed esercita una crescente attrattiva anche in Occidente.
Uomini d' affari, magnati dei media, architetti: tutti si riversano in
Cina. Quale location migliore, infatti, per fare affari, costruire
stadi e grattacieli, o vendere tecnologia informatica e sistemi di
comunicazione, di un Paese privo di sindacati indipendenti, nonché di
qualsiasi forma di protesta organizzata che possa intralciare gli
interessi economici? Le riserve sui diritti umani o civili, intanto,
sono liquidate perché «polverose», o espressione dell' «arrogante
imperialismo dell' Occidente». C' è un «ma», tuttavia, che rovina
tutto. Nessuna economia mantiene lo stesso ritmo di crescita all'
infinito. Prima o poi, giunge una crisi. E che cosa accadrebbe, se il
patto tra il ceto medio cinese e lo Stato monopartitico cominciasse a
scricchiolare a seguito di una battuta d' arresto, o peggio di una
recessione, nell' irrefrenabile corsa alla ricchezza materiale? È già
accaduto in passato. Per certi versi, la Germania del diciannovesimo
secolo, con la sua potenza industriale, il suo ceto medio istruito ma
politicamente sterile, e la sua tendenza al nazionalismo aggressivo, è
quanto di più vicino al Modello Cinese. Nel caso tedesco, il
nazionalismo si rivelò letale non appena crollò l' economia, e i
tumulti sociali minacciarono di sovvertire l' ordinamento politico. Lo
stesso potrebbe accadere in Cina, dove l' orgoglio nazionale rischia
costantemente di scivolare in uno scontro con il Giappone, Taiwan e,
alla lunga, con l' Occidente. Anche il nazionalismo aggressivo della
Cina potrebbe rivelarsi letale, qualora la sua economia inciampasse. E
poiché nessuno ha interesse a che ciò avvenga, non possiamo che
augurarle il meglio per il 2008, e dedicare un pensiero anche a tutti i
dissidenti, i sostenitori della democrazia e gli spiriti liberi che
languono nei campi di lavoro e nelle prigioni, sperando che possano
vedere il giorno in cui anche i cinesi saranno un popolo libero. Può
darsi che sia un sogno ancora lontano, ma a che cosa serve l' atmosfera
di Capodanno, se non a sognare? (Traduzione di Enrico Del Sero) * * *
Paralleli storici Per certi versi l' 800 tedesco è quanto di più vicino
al Modello Cinese. Quel nazionalismo fu letale * * * 10% Oggi sotto la
soglia di povertà I cinesi rimasti indietro nella corsa alla ricchezza.
Nel 1990 il 33% della popolazione era sotto la soglia di povertà * * *
L' anno del Dragone *** 08/08/08 È la data dell' inaugurazione delle
Olimpiadi di Pechino. Orario: le 8 e 8 minuti. Nella tradizione cinese
il numero 8 è di buon auspicio

Buruma Ian

 
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colui

Post n°4 pubblicato il 31 Dicembre 2007 da dr_house_4U
 
Tag: colui
Foto di dr_house_4U

un albero è conosciuto per i suoi frutti, un uomo per le sue azioni
una buona azione non è mai perduta
colui che semina cortesia miete amicizia, colui che pianta gentilezza raccoglie amore

 
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di Claudio Magris

Post n°3 pubblicato il 31 Dicembre 2007 da dr_house_4U
 

Se ne avessi il potere, proibirei per legge — quale offesa alla pietas di
una tradizione che per generazioni ha fatto sentire all'infanzia quanto vicini
e interscambiabili siano il sacro, il favoloso e il familiare — l'immagine e il
termine stesso di Babbo Natale. C'è un limite di decenza pure per la
secolarizzazione. Trasformare il mistero dell'incarnazione— l'eterno che si fa
storia, tempo fugace, carne fragile e peritura — o anche solo l'infantile
poesia di Gesù Bambino o dell'angelo che porta i doni nella figura di un
vecchio panciuto e svampito, dal viso rubizzo e giulivamente ebete, è un po'
troppo.



Se proprio ci si vuole sbarazzare del Cristianesimo — del linguaggio e delle
figure che esso ha dato per secoli alla rappresentazione della vita —meglio
tornare allo Yule, alla nordica festa pagana del solstizio d'inverno col suo
culto delle demoniche forze elementari, che Lovecraft, nei suoi racconti
dell'orrore assai poco natalizi, sentiva ancor vive e minacciosamente in
agguato sotto la crosta della civiltà. Non a caso, al tempo della mia infanzia,
catechisti e sacerdoti della parrocchia scoraggiavano e deprecavano, sia pur
blandamente, l'albero di Natale, l'abete di remota ascendenza boreale e pagana,
contrapponendogli il cristiano, cattolico e italico Presepe; palme e cammelli
d'Oriente e dolce terra umbro-francescana contro la neve del Settentrione. Mi
sarei dunque atteso una più energica riprovazione ecclesiastica — almeno pari a
quella delle zucche di Halloween — del paonazzo fantoccio da supermarket, con
le sue renne fatte per tirare la slitta a Cortina e non in Lapponia.



Se Babbo Natale, con rispetto parlando, deriva da Santa Claus ovvero San
Nicolò, come triestino mi sento corresponsabile del suo trionfo, visto che a
Trieste San Nicolò, col suo manto rosso, porta i doni nella notte tra il 5 e il
6 dicembre, ma quel rosso del santo di Bari ha almeno una sua regalità, da re
pastore e non da insegna luminosa di supermarket. Quest'ultimo, ovviamente, può
essere altrettanto sacro, con buona pace dei fustigatori del consumismo
nostalgici della miseria dei tempi andati. Nessun oggetto, nessuna istituzione,
nessun rito sono di per sé sacri; sacro è solo il senso di amore e soprattutto
di rispetto per gli uomini. Comperare un panettone a un supermarket, pensando
alla tavolata con persone amate, non èmeno poetico che preparare un pasto in
una capanna di pastori o in una casa contadina. Sono i simboli della vita a
dire il significato che le attribuiamo.



Sotto questo profilo, il ridanciano e scampanellante Babbo Natale è un segno
della crescente scristianizzazione; della perdita della memoria, del
linguaggio, del senso che il Cristianesimo dà al mondo. Non è solo il
vituperato consumismo, simboleggiato da Babbo Natale, che disturba. Pure in
passato il pranzo e i regali natalizi obbedivano alla logica del consumo, di
per sé nient'affatto disdicevole, e non è un merito se la penuria, subìta e non
certo scelta, costringeva a consumi più modesti. E' quel sorriso giocondo e
soddisfatto nel roseo faccione che nega il Natale. Le feste di un tempo univano
il piacere — per un bambino, anche l'incanto misterioso dei doni sotto l'albero
o davanti al Presepe — e la malinconia della ripetizione, che scandisce il fluire
e lo svanire del tempo quanto più cerca di catturarlo e fermarlo nel rito
sempre uguale. La festa—e il Natale è quella più grande—fa (soprattutto faceva)
sentire che la festa della vita finisce, che l'esistenza è il precipitare della
gioia e degli affetti nel buio del tempo e del nulla, così come nel grande
abete, che un magico zio travestito da angelo mi allestiva nella mia infanzia,
una cascata di caramelle bianche come la neve cadeva e spariva nella folta
ombra dei rami e le gocce di cera delle candele accese cadevano una sull'altra
e si consumavano.



Ogni anno tante gocce d'oblio, mentre la tavolata famigliare si arricchiva
di nuovi venuti e ancor più si spopolava di altri che se ne andavano lasciando
seggiole vuote. La festa diceva la tenerezza e anche gli acri, amari malintesi
della vita di famiglia; era occasione in cui emergevano e poi si sopivano
rancori antichi, acerbamente conviventi con gli affetti, che il bambino captava
sgomento e poi rasserenato, imparando a capire il nesso inestricabile di amore
e avversione che lega gli uomini. Protagonista e vezzeggiata, l'infanzia era
anche vagamente oppressa da quella ripetizione e da quella mistura di gioia e
malinconia, immortalata in tragiche e debolmente sorridenti foto di famiglia.
Anche in quei Natali tradizionali si violava e negava, senza saperlo, il
significato del Natale, che è preludio di Buona Novella e di liberazione e non
malinconia; tempo annunciato e vissuto come pienezza, come compimento di attese
e valori, e non quale stillicidio di minuti e di anni nel nulla. Ma tutto ciò
era almeno riscattato dalla malinconia; l'angelo—anche quello che porta i
regali—è sempre malinconico, figura del mondo caduto e imperfetto. Babbo Natale
invece è sinistramente allegro; è persuaso e vuole persuadere gli altri che
tutto va bene e andrà sempre meglio; che il nostro mondo, la nostra società, il
nostro benessere, il nostro denaro, la nostra democrazia, il nostro teatro
quotidiano siano i migliori e gli unici possibili, una crescita destinata ad
accrescersi trionfalmente sempre più, una scorpacciata senza limiti garantita
da pillole digestive sempre più efficaci, un progresso inarrestabile, uno
stadio definitivo e un ordine immutabile, un oggi scambiato per l'eterno.
Incubi di pranzi in cui l'obbligato ingozzarsi insinua nell'animo una
pesantezza di morte, quintali di biglietti augurali e cassette di vini e di
dolciumi che ingombrano la casa dei fortunati destinatari di omaggi con la
violenza dell'invasione.



Il Natale è la nascita di un bambino, di un salvatore che sarà crocifisso e
conoscerà l'estremo abbattimento del Getsemani; la gioia che esso annuncia non
è una truffa, perché non nasconde il dolore, il crollo del mondo. Uno dei più
grandi racconti di Natale di ogni letteratura, «Cristallo di rocca» di Stifter,
dice — come ha scritto Maria Fancelli in un memorabile saggio — «che
l'attraversamento del nulla è necessario ». Babbo Natale vuole invece farci
dimenticare che siamo sull'orlo di un vulcano, il quale potrebbe eruttare fuoco
distruttore da un momento all'altro; che le tensioni del mondo si vanno facendo
insopportabili e incontrollabili; che davanti al Presepe premono, per entrare
in quella capanna che è il cuore del mondo, più persone di quante essa possa
accogliere. Babbo Erode non si turba per le stragi di innocenti. Il fasullo
scampanellìo della sua slitta cerca di sopraffare il coro degli angeli che
annunciano gloria a Dio nell'alto dei cieli e pace in terra agli uomini di
buona volontà. Cerca di coprirlo perché, se lo si sente, si rimane sbigottiti
dalla smentita che quell'annuncio riceve sulla Terra, dove la pace è quasi
sempre negata agli uomini di buona volontà e semmai concessa ai farabutti. Quel
canto da sempre smentito va invece sempre ascoltato e seguito, per continuare a
credervi contro ogni evidenza, a sperare contro ogni vittoriosa negazione, con
quell'autentica speranza che passa sotto le forche caudine della disperazione e
rifiuta le stampelle del tronfio e menzognero ottimismo.

 
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