Creato da ElettrikaPsike il 17/12/2012

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Dillo, bella strega...se lo sai, Adorabile strega…Dimmi, conosci l’irremissibile? (I fiori del male, C. Baudelaire)

 

Messaggi di Settembre 2018

L’infallibilità popolare

 

 

 

Continuando a galleggiare sull’onda settembrina dei luoghi comuni - la stessa che aveva cullato la mia attenzione verso i ruoli genitoriali nel precedente post - vorrei fare ancora un viaggetto dissacrante sull’incongruenza, mostrando la saggezza popolare in tutta la sua operosità quando si riferisce alla realistica possibilità che un individuo sposato (o seriamente impegnato), in presenza di relazione clandestina (o comunque non istituzionalizzata) e parallela al legame riconosciuto, possa decidere effettivamente di scegliere la strada vecchia per la nuova.

Perchè è proprio in questo contesto - piuttosto discusso e anche forse troppo facilmente liquidato con esilaranti pretese di solennità (le stesse che da sempre contraddistinguono giudici e pastori) - che la vecchia saggezza popolare dà il meglio di se stessa, ripartendo buoni consigli e molto spesso rimpiangendo di non poter dare il cattivo esempio.

E se De André, di cotante perle d’assennata esperienza, ha fatto un capolavoro in musica, noi limitiamoci solo a prendere atto dei fatti.

 

 

 

Ma prima di soppesare l’infallibilità della doxa, una brevissima premessa a forma di perla:

[Sì, è vero, una persona impegnata è accompagnata ad un’altra e sarebbe cosa buona e giusta rispettare lo status quo; ma dove, di grazia, e in quale contesto umano, esiste un centro di gravità permanente e impermeabile, inviolabile ed asettico, esentato dalla possibile intromissione di agenti esterni e mutamenti di dinamiche? Ci si augura, in una sala operatoria; ma anche lì, gli sviluppi sono un tantino imprevedibili…Ed alla fine, ad essere onesti, si potrebbe anche dire che “tutti, in un modo o nell’altro, stavano con qualcuno prima di stare con qualcun altro…” però il punto non è la presenza o meno di un agente imprevisto ed esterno che si presenti a cospargere il seme del pericolo, quanto la sua possibilità di insediamento in un terreno fertile o refrattario. Sono solo la qualità e la condizione del terreno il solo problema a cui dobbiamo dare attenzione...]

 

 

Ed ora prendiamo una situazione tipo in cui una donna (ma si potrebbe tranquillamente parlare anche di un uomo), in seguito ad una scelta oculata, oppure per una totale inconsapevolezza ed un tranquillo disinteresse al riguardo, o, ancora, semplicemente suo malgrado, non sia riuscita a non coinvolgersi con un individuo già accompagnato - perché udite udite...succede, tra gli esseri umani, che a volte vincano i richiami emotivi sulle norme che dettano i divieti... - e che quindi, in un modo o in un altro, per un motivo o per l’altro, la sventurata, pur non chiamandosi Gertrude, abbia risposto di sì.

Passa il tempo (quanto, a vostro piacimento) e il marito fedigrafo (ma tranquillamente e indifferentemente si potrebbe parlare di una moglie) fa sospirare la compagna/amante non ufficiale perché, nonostante i proponimenti e gli spassionati piani progettuali, ancora non lascia la strada vecchia – né la casa – per la nuova via…E, a dirla tutta tutta, non sembra nemmeno così propenso ad accomiatarsi dalla moglie verso la quale si è dimostrato spergiuro, infrangendo una considerevole parte di presupposti su cui il patto matrimoniale si basava, preferendo fare democraticamente melina…

La buona saggezza popolare, dunque - il cui ruolo, nella nostra farsa, verrà indifferentemente assegnato alla madre, alla sorella o alle amiche predilette della "sventurata" – in questa precisa fase della storia, non mancherà di enumerare tutti i motivi per cui il traditore non lascerà mai il tetto dell’alleanza, partendo dalle leggi antropologiche, posandosi sulle eredità letterarie (scritte o tramandate oralmente) e non dimenticandosi le motivazioni pseudo-psicologiche o astrologiche del caso.

L’uomo è fragile – è pigro – ha bisogno di stabilità/affidabilità/ di un ruolo costituito – la letteratura scritta e di strada non fa che riportare esempi in questo senso, dalla figlia della vicina di casa ad Anna Karenina – la storia finisce sempre così, non la lascia...

E guai a provare a dire che nel romanzo tolstoiano era Anna Karenina quella sposata e che, in verità, aveva precisamente lasciato il marito per l’amante, perché la saggezza popolare risponderà prontamente che il punto non è quello, e che bisogna invece solo considerare come è andata a finire...

Andare a sindacare sui moventi del suicidio letterario, in quel caso, sarebbe un ulteriore gesto sacrificale e peraltro inutile perché la saggezza popolare ha ormai sentenziato.

 

A tutte le amanti: la vox populi dice che il vostro amato non lascerà mai la moglie, va sempre così.

 

Peccato, però, che la vox populi si comporti proprio come il marito infedele, perché sentenzia nello stesso modo sia per le amanti in attesa sia per le mogli tradite.

Infatti, mentre consola le afflitte sommergendo di parole postribolari tanto il marito appena emigrato quanto l’ex amante ora subentrata al ruolo ufficiale, ecco che motiva le sue ragioni partendo ugualmente dalle leggi antropologiche, posandosi sulle eredità letterarie (scritte o tramandate oralmente) e non dimenticandosi neppure in questo caso di farci entrare quelle psicologiche e/o astrologiche.

L’uomo è inaffidabile – quando perde la testa non lo ferma nessuno – per natura è irrequieto e avventuriero - se ne va sempre e sa resistere a tutto fuorché alle tentazioni – la letteratura scritta e di strada non fa che riportare esempi in questo senso, dai mariti che scappano con le badanti dei padri (o dei padri che scappano con le figlie delle loro badanti) fino ad Ulisse: guarda solo come finisce Penelope quando lui perde la testa per Circe o per una sirena qualsiasi...

Anche qui, pare inutile riaprire l’Odissea e ricordare che Ulisse ritorna. Non subito, si è preso i suoi tempi, certo, però ritorna.

 

Così, la conclusione per le mogli - quasi o appena - abbandonate, diventa: è inevitabile che se ne vada, mia cara, gli uomini lo fanno sempre.


 

 

Però, anche in questo caso, come sopra, inserisco una piccola precisazione dalla forma di perla, prima della conclusione effettiva:

[La vita è un regista molto meno rigido di quelli che assegnano le parti per un film, quindi occhio a catalogare con troppa severità quella “moglie”, quel “fedigrafo” o quella “amante” di turno come nemmeno Gesù nel Tempio... perché difficilmente ognuno di noi si ritroverà ad interpretare sempre una sola parte nell’arco della vita. I ruoli, a questo mondo, s’impersonano più o meno bene ma poi si riassegnano, ed anche con un’insolita ed ironica facilità…]

 

 

 

 

 

Conclusione: Sì, la saggezza popolare avrà pure tutta l’esperienza di un mondo molto antico sulle spalle e, forse, quando parla ha una sua ragionevolezza; ma in sostanza non stiamo a credere troppo alle sue promesse. Perché, ammettiamolo, le piace vincere facile affermando una cosa mentre giura il suo contrario…

Diamole, però, atto. 

In questo modo è certamente impossibile che si sbagli, e l’infallibilità popolare, subito dopo quella papale, è sempre salva nei secoli dei secoli.

 

 

 

 

 

 
 
 

SENTIMENTI UGUALI MA TANTO DIVERSI

 

 

 

"I figli sono come gli aquiloni:

insegnerai loro a volare ma non voleranno il tuo volo;

insegnerai loro a sognare ma non sogneranno il tuo sogno;

insegnerai loro a vivere ma non vivranno la tua vita.

Ma in ogni volo, in ogni sogno e in ogni vita

rimarrà per sempre l’impronta dell’insegnamento ricevuto"

 

- Madre Teresa di Calcutta -

 

 

 

 

 

Ho letto per molto tempo, nel corso degli anni, un’inverosimile quanto radicata saggezza popolare che viene tramandata, di bocca in bocca e da tastiera - di pc o smartphone - a tastiera, con una solennità quasi riverenziale riguardo alla centralità (piuttosto che alla supremazia) dell’amore genitoriale, rispetto a qualsiasi altro sentimento.

E guai brutti sono riservati a chi osi sfatarla o sia intenzionato ad interrompere questo passaparola di assennatezza consacrata.

Ma io, il mio punto di vista,

lo voglio argomentare ugualmente.

 

                                                                             

 

Ogni affezione del nostro animo, dalla più nobile alla più meschina - sia quindi amore, benevolenza o sia il disgusto, la repulsione, scendendo sempre più giù, fino ai meandri dell’odio più finemente distillato - essendo espressione naturale della nostra vita interiore  è, ovviamente, puramente personale e come tale va considerata. E su questo non c’è molto da dire.

Pur conservando, quindi, aspetti comuni che sono innegabilmente indicativi di un patrimonio genetico caratterizzante, gli esseri umani possiedono un cervello complesso e di notevoli proporzioni, oltre che neuroplastico e strutturato in modo tale da poter essere in grado di formulare pensieri, introspezioni, linguaggi e finalizzato a produrre ragionamenti logici, astrazioni ed innumerevoli forme di espressioni creative di portata incommensurabile.

Ogni nostra esperienza, quindi, ed in questo caso emotiva, risente, anche di quella che è la nostra irripetibile individualità.

Fa i conti con la nostra indole, con nostri impulsi,  con le nostre predisposizioni e con il nostro retaggio sociale: educazione ricevuta, esperienze vissute, contesti ambientali, grado di cultura.

Ogni singolo aspetto dell'eredità umana si va a sommare alle nostre propensioni interagendo con esse ed ecco perché, se è già di per sé difficile in ogni caso generalizzare, diventa ancora più complicato provare a farlo quando si tratta di indagare sui sentimenti.

In conseguenza a queste premesse, anche il sentimento per un figlio - un affetto che si può facilmente comprendere come tra i più radicati e forti, perchè categoricamente dettato anche da leggi biologiche di protezione, cura e desiderio di sopravvivenza attraverso la propria discendenza - è comunque soggetto alle variabili previste per la natura umana in ogni suo aspetto.

Ed ora affrontiamo alcuni punti estremamente popolari scardinandone almeno le pretese di assolutezza, partendo proprio dal fatto che, ogniqualvolta si parla di genitorialità, viene innanzitutto demarcata una scrematura biologica in nome della visceralità ancestrale che lega il corpo (e la psiche) della madre con quello del nascituro, da lei alimentato ed in lei (il più delle volte comodamente) rifugiato.

Un elemento, questo, che se viene (ed ammettiamolo, accade piuttosto di frequente...) identificato con termini di profondità, intensità e qualità, non solo riesce a differenziare sostanzialmente la paternità dalla maternità, ma va anche a penalizzare, senza alcuna apparente soluzione, la figura di ogni genitore adottivo, necessariamente estraneo a questa invisibile quanto simbiotica eco del sangue…

Sicuramente non si può dire che la natura stessa non ci metta del suo, perchè predispone la visceralità uterina connaturandola proprio nello scambio biologico e mentale tra la madre e il figlio durante la gestazione, ed altrettanto sicuramente va riconosciuto che tale profondità è di fatto necessaria, perchè aiuta a creare un legame che viene  poi ulteriormente rafforzato durante l’allattamento ed é totalmente finalizzato alla protezione ed alla salvaguardia del piccolo.

Per sancire questo vincolo, inoltre, la natura si è servita di un ormone che a livello neurologico ha lo specifico compito di favorire l'attaccamento relazionale e che l’organismo umano produce naturalmente - guarda caso - in quantità decisamente elevata proprio durante il parto e durante l’allattamento, chiamato ossitocina.

 

 

Sì, è innegabile, la natura predispone i suoi disegni, ed una madre, dal momento in cui porta nel grembo la propria minuscola creatura, almeno teoricamente dovrebbe essere predisposta a sentirla come una sua creazione: una parte commista alla sua carne.

Ed il legame, sempre su piano ipotetico, dovrebbe essere insolitamente fulmineo, sostanzialmente intuitivo e senza mediazioni, tanto da riuscire ad offuscare se non quasi totalmente occultare ogni altro rapporto - per quanto rilevante ma pur sempre più indipendente - fra il piccolo e qualsivoglia altra figura, compresa quella paterna nel suo ruolo di co-creatore.

Ma c’è un grosso ma, anzi ci sono molti ma…Perché se, da un lato, la natura stabilisce un programma, le singole individualità sono fatte di irridenti eccezioni che sovvertono le regole.

Alcuni comportamenti umani sono accolti e attesi semplicemente come consuetudini; ma nonostante ogni buona intenzione ed impegno, non c’è cordone ombelicale - in tutta la sua lunghezza e consistenza gelatinosa - che tenga, se il sentimento della madre, per una qualsiasi aliena ragione, non scatta.

E quando questo malauguratamente accade, neppure il programma previsto dalla norma della consuetudine si dimostra capace di sancire un legame che, di fatto, talvolta non si fa sentire. O non si fa sentire nel modo previsto…

E la natura stessa non si può certo dire che abbia lesinato sulle eccezioni.

Tralasciando, quindi, i casi più sconsiderati - di competenze psichiatriche e penali - ma anche quelle stesse leggi naturali che muovono un animale a scansare e a disconoscere il proprio cucciolo quando lo avvertono incapace di sopravvivere, chiediamoci, invece, dove si possa essere nascosta l'illustre chiamata del sangue in tutte quelle madri che, pur non animate da istinti omicidi, semplicemente non avvertono siffatta interdipendenza simbiotica con i loro figli.

E, per contro, domandiamoci sinceramente come la mettiamo con quelle donne comunque madri - non biologiche e magari anche sterili - che, armate di un'imprevista dose di ossitocina, pur non avendo mai beneficiato di questo magnanimo neurotrasmettitore durante un travaglio o una montata lattea, riconoscono comunque  un bambino come fosse il loro soltanto attraverso il contatto e l'olfatto, instaurando con lui un legame speciale per il resto dei loro giorni?

Forse, allora, c’è qualcosa di leggermente più forte di un richiamo plasmatico, nell’essere umano? 

Ma c’è ancora di più...

Abbandoniamo, oltre al legame biologico ereditario, anche la corrispondenza tra le specie e focalizziamoci, invece, per un secondo solo sull’affettività. Non solo, infatti, il legame tra una madre ed un figlio non biologico sembra essere  comunque garantito dall’ossitocina, ma anche il legame tra l’essere umano ed un qualsiasi cucciolo di altra specie animale.

Di conseguenza, anche l’affetto che ci lega al nostro animaletto domestico, ma in via ancor più generale, ogni istinto smodato e irrefrenabile che ci induce a nutrire sentimenti di tenerezza e di accudimento verso qualsiasi cucciolo, sono transpecifici. E a tal punto che non solo gli esseri umani, ma tutti gli adulti di qualsiasi specie animale, difficilmente restano insensibili di fronte ai piccoli di altre specie. O, almeno, così vuole e predispone la regola.

Ed è in questo senso che si muove il principio che sta alla base della pet therapy. Un gruppo interdisciplinare di ricercatori internazionali, infatti, avrebbe di fatto dimostrato che nelle terapie cliniche che promuovono come principio cardine il legame affettivo di un paziente con il proprio animale, viene apprezzata la produzione di un elemento chimico dall'intensità pari a quello prodotto da una madre durante l’allattamento del figlio.

Ma oltre a queste evidenze, c'è poi ancora un’altra non trascurabile osservazione da fare - e so per certo che non sarà fra quelle accolte con più benevolenza perché è una considerazione forse un tantino scomoda da accettare, ma tant'è... - vale a dire la questione complicata dei figli intesi come appendici biologiche.

Perché, per quanto fastidioso, e a tratti, forse, anche imbarazzante possa risultare l’argomento, non sono affatto pochi i genitori che, forti dell'epigrafica considerazione "il più grande amore al mondo è quello per il sangue del mio sangue" (o, a seconda, piume delle mie piume), non si rendono conto di compiere una ben poco amorevole equazione.

Ed è un’equazione malsana che riguarda soprattutto le madri, più difficilmente esentate, rispetto ai padri, dal considerare i propri fanciulli quali giovani prolungamenti delle proprie individualità, e quindi non di rado visti come lusinghieri riflessi, quando, addirittura, non effettive clonazioni o emanazioni perfezionate di se stesse.

E realmente non sono poche queste madri che vedono nella loro discendenza uno o più specchi narcisistici per le loro aspirazioni dismesse.

Tali creatrici castrano senza contenimento ogni libertà d’espressione appena nata nei loro figli prediletti, quando questa può farle vagamente presagire di potersi declinare verso strade non conformi alle loro (inconfessate?) previsioni.

Io non credo si possa parlare di “amore maggiore o inferiore" o, ancora, di "sentimento di serie A, B o fuori serie" né che si tratti di amore per un figlio, né verso un genitore o un fratello, né per un amante, un maestro, oppure un amico. Perché se si parla davvero di sentimenti, necessariamente non esistono né classifiche, né settori.

E poi, a dirla tutta - se è reale e sano - un sentimento d'amore inevitabilmente moltiplica, accresce e contagia e di certo non va ad oscurare minimamente i sentimenti e le espressioni emotive d’altro tipo.

Inoltre, proprio il fatto di considerare il sentimento verso un figlio come totalizzante e superiore a qualsiasi altro, in virtù del fatto che “il figlio è un pezzo - e non solo di cuore! - di chi l’ha generato” è già, di per sé, una motivazione non poco penalizzante, piuttosto che una testimonianza accrescitiva che ne convalidi l’amore.

E questo perché l’identificazione induce pericolosamente a due manifestazioni opposte; ma ugualmente poco amorevoli.

Se da una parte, infatti, l’identificazione narcisistica facilmente riduce il sentimento verso i pargoli ad una proiezione egoistica (involontaria o lucida che sia) che comunque ben poco c’entra con la capacità di amare un’altra persona al di fuori di se stessi; in alternativa, può indurre anche ad una sorta di (lucida o inconscia) repulsione, dal momento che non sono molti gli esseri umani davvero capaci di amare se stessi e certo non  sono molti di più quelli che neppure si piacciono…

Di conseguenza, il rivedersi - anche al di fuori dello specchio - attraverso nidiate di poco stimati "se stessi" in piccole copie, non può certo essere una grande soddisfazione per coloro che non si apprezzano…

Ma proseguiamo: accantoniamo chi riversa il proprio sentimento genitoriale in nome di una identificazione simbiotica e restringiamo ancora di più la panoramica considerando solo i restanti esemplari.

 

 

Anche se l’archetipo genitoriale – ma in particolar modo materno – si realizza passando attraverso il concetto di protezione, cura e nutrimento, tanto dal punto di vista fisico quanto emotivo, spirituale e psicologico, è pur vero che ogni individuo che si appresti ad essere una madre è, prima di ogni altra cosa, un esemplare unico e non più di tanto omologabile. E questo resta un fatto, anche se poi viene sottoposto ad una formattazione universale che lo predispone ad essere incondizionatamente una generosa nutrice e un'attenta dispensatrice di premure.

Per quanto aderente al ruolo atavico, infatti, ogni madre è comunque, molto prima di essere madre, una persona: più o meno libera, più o meno indipendente, più o meno sicura, individualista, insofferente piuttosto che tendenzialmente accogliente, protettiva o devota.

E non è affatto detto che ogni donna, pur amando, e tanto - il proprio figlio, il proprio compagno, il proprio anziano genitore o, ancor più filantropicamente, anche solo il prossimo suo, bisognoso e infermo - necessariamente ricerchi o ritrovi la propria completezza e soddisfazione nell’accudimento. E non è affatto detto che la consideri obbligatoriamente, e con somma beatitudine, un’esperienza di suprema gratificazione.

Ma questo non significa nemmeno che non sia disposta a farlo quando o se occorre, e che non possa essere comunque efficiente o solerte.

Significa soltanto che non c’è un solo modo per essere madri, perché non c’è un solo modo di essere persone, o donne; né esiste un ricettario universale che ci spieghi quali siano le regole per accudire o trasmettere amore per la vita. E questo perché, semplicemente, non esiste un solo modo per essere presenti o perseveranti, e non é prevista un'unica strada per insegnare ad essere forti, appassionati e liberi.

Amare i figli a discapito di se stessi rende quello stesso genitore che dovrebbe insegnare al proprio bambino la vita e la forza, un individuo impoverito ed appiattito nella sua esistenza rateizzata.

 

 

Una madre ed un padre non felici come possono inventare per i figli una felicità che non hanno, quando ogni lezione che s’impara a questo mondo non è mai data con le parole ma soltanto attraverso gli esempi?

E quali perle di saggezza può lasciare in eredità ad un figlio ormai svezzato, una donna che si sente inutile e mutilata, vittima della “sindrome del nido vuoto” perché deprivata dell'unico ruolo che si é concessa nella vita? Con ogni probabilità solo una collana fatta di ombre, sensi di colpa e incertezze.

E poi, ancora, perché mai dovremmo poter affermare con così tanta disinvoltura che è sempre e imprescindibilmente prioritario solo un tipo di sentimento?

Non ha neppure un senso, se ci pensiamo, il dover fare un confronto tra due specie di amori tanto differenti (si spera…)  e qualitativamente così distanti tra loro come quelli per un figlio o un genitore e quelli per un amante ed un compagno…

Inoltre, c'è anche un ingrediente che non si può dimenticare nel pacchetto regalo: un figlio non è solo un sacro piacere; ma anche una sacra responsabilità.

Verso un bambino c’è un elemento integrante al sentimento che, in un qualsiasi altro rapporto, di natura differente e paritaria, non è così preminente: vale a dire la responsabilità, congiunta direttamente al dovere. E che, purtroppo, non solo non può far sempre rima con piacere ma va considerata come prioritaria e centrale.

E dire il contrario, o negare a se stessi anche questa concessione, non solo non rende i genitori creature più stimabili, ma fa di loro semplicemente esseri umani più ipocriti.

Ed è per questo aspetto essenziale, che è poi lo stesso per il quale istintivamente ci sentiamo anche di privilegiare i bambini - ogni bambino - in caso di difficoltà o pericolo, che il sentimento verso i piccoli assume una connotazione avvantaggiata ed una posizione favorita in una fantomatica classifica d’amore.

Ma un figlio non nasce per essere della madre o del padre.

Il figlio non è un surrogato per la nostra solitudine o una panacea per la nostra vanità.

Un figlio si dà al mondo, letteralmente.

Nasce per essere amato, accolto e accudito, istruito e messo nelle condizioni di stare nel mondo. E tutto il resto non è neppure letteratura; ma letteratura distorta.

Perché quando la letteratura parla di amore con l’iniziale scritta in grassetto maiuscolo, non lo fa né lo ha mai fatto in riferimento all’amore genitoriale per il proprio pargolo.

“Ponimi come sigillo sul tuo braccio, come un sigillo sul tuo cuore, perché forte come la morte è l’amore” si legge nel Canto dei Cantici: l’amore per antonomasia che viene definito “anima gemella”, “spirito affine”, “affinità elettiva” non è il figlio.

La “corrispondenza d’amorosi sensi” non è intesa in termini di progenie…

L’amore che fa impazzire, quello che strappa i capelli non è mai stato cantato per un affetto filiale…

"D’ora in avanti tu chiamami “Amore”, ed io sarò per te non più Romeo - fa declamare Shakespeare al suo protagonista infervorato da quel tipo d’amore verso Giulietta - perché m’avrai così ribattezzato."

E nel Sonetto 39 si legge “Sei tu la parte migliore di me stesso, il limpido specchio dei miei occhi, il profondo del cuore, il nutrimento, la fortuna, l’oggetto di ogni mia speranza, il solo cielo della mia terra, il paradiso cui aspiro”...ma neppure questo era dedicato ad un figlio.

 

                

 

Per correttezza, però,

chiuderò con la stessa fonte che mi ha indotto a scrivere il post:

la saggezza popolare.

Perché anche dalla voce della piazza sembra evincersi che non è propriamente l’affetto genitoriale del padre verso il figlio quello che fa girare il mondo…

 

Si tramanda, infatti, che Bacco, tabacco e Venere riducano l’uomo in cenere; ma non mi sembra che nella traide venga menzionato un neonato.

Detto questo, parrebbe evidente che siano decisamente altre passioni travolgenti quelle capaci di consumare un uomo...

Sempre che non si vogliano, però, considerare come ipotesi di pathos anche i vagiti del neonato - di certo, anche questi, perfettamente in grado di distruggere sia l'uomo sia la donna - ma da tutti riconosciuti come un genere differente di passione, vale a dire quella clinicamente definita deprivazione del sonno e ricordata dai più come martirio d'insonnia…

 

 

 

 

 
 
 

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