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"POETA IMPUDENTE" 1 di Gian Paolo Serino

Post n°10 pubblicato il 01 Marzo 2008 da eirox
 

Tratto da KULT di febbraio 2008

Per spiegare l’amore che prova per la sua fidanzata, un ragazzo “strano” scrive una lettera ai genitori di lei che innesca una devastante reazione a catena. Un uomo chiuso in un ascensore precipita per tre giorni in un abisso senza fondo. In una giornata di caldo torrido, un’ossessione sessuale s’impadronisce di un uomo che invita due prostitute in una stanza d’albergo. Una coppia s’incontra su un ponte di Parigi, senza immaginare che diventerà protagonista di una delle foto più celebri della storia. Sono questi alcuni dei protagonisti dell’esordio narrativo di Cristiano Godano, leader voce e chitarra dei Marlene Kuntz, il gruppo che ha molto contribuito a mutare la scena musicale italiana degli ultimi anni. Con i racconti I vivi (in uscita da Rizzoli) l’impudente Godano, come lui stesso si definisce, affronta per la prima volta il palcoscenico della carta, mettendo in scena personaggi che rimangono anche a libro chiusa, grazie a una musicalità del racconto che nasce e si sviluppa dai temi affrontati anche in molte delle sue canzoni. Kult ha incontrato Cristiano Godano e con lui si è parlato di libri, musica, poesia con la sensazione di un artista che, nonostante il succes­so, ha mantenuto intatta la curiosità di guar­darsi intorno e raccontare emozioni e sensa­zioni di una generazione più studiata che compresa, più analizzata dai media che vissu­ta oltre i molti stereotipi che da anni ingab­biano ogni gioventù. Persa, perdura, bruciata o viva che sia.

Partiamo dal titolo I vivi: un titolo corag­gioso, con molti richiami letterari...

I morti di James Joyce è un racconto che mi piace moltissimo. Quando stavo preparando la scena finale dei due protagonisti dell’ulti­ma storia del mio libro, la neve che cadeva sulla pianura padana, mi ha ricordato quella che cadeva in Irlanda nella scena finale de I morti, anch’essa orchestrata in una stanza d’albergo. La protagonista del mio racconto, poi, viene descritta a un certo punto mentre canticchia un pezzo di Lucio Battisti, e la turbata protagonista di Joyce pensa a sua volta a una canzone (di importanza decisiva per il triste epilogo). In entrambi i casi i loro uomini ne sono coinvolti, vivendo sensazioni correlate ben precise. Queste somiglianze poco per volta hanno stuzzicato la mia impudenza fino al punto di voler ottenere un’analogia emotiva e strutturale con quel magnifico finale (ribaltandone, per così dire, il tema). Ne è venuta fuori una sorta di riproposizione in forma di citazione rispettosissima, assai umile e giocosa. E a questo punto mi sembrava approprialo il titolo I vivi, perché la vitalità delle due perso­ne da me descritte è il contraltare dell’immo­bilismo fisico e mentale stigmatizzato ne I morti dal grande irlandese. Che poi questo titolo sia anche diventato quello del libro... beh, la motivazione in questo caso è meno affascinante; mi piaceva e basta.

Come mai hai scelto la forma dei racconti?

Temo terribilmente la lunghezza di un romanzo. Temo di non saper cosa dire in cosi tante pagine. Un racconto presenta livelli di difficoltà del tutto analoghi a quelli di un romanzo, questo è un fatto, ma le loro caratteristiche sono più ravvicinabili a quelle che affronto mediamente in uno qualsiasi dei miei testi: sono abituato a gestirmi in spazi brevi, e il racconto è sicuramente più breve di un romanzo.

Il genere letterario è invece quasi indefinibi­le: un mix tra gotico postmoderno e ritratti d’inchiostro in perfetto equilibrio tra impressionismo (penso a certi paesaggi che descrivi) ed espressionismo (penso a certi paesaggi emotivi versanti al disagio).

La mia avventura nel mondo delle lettere è precisamente agli inizi e non ho sufficiente esperienza per potermi sentire a mio agio (o a disagio) con qualsivoglia definizione sul mio stile o sul genere letterario che propongo. Quel che dici lo accetto sicuramente: per ora non ho su me stesso opinioni forti e tanto meno certezze. Voglio però poter sotto­lineare che in ogni racconto ci sono molte occasioni per ridere e sorridere: io ho sorriso, qua e là, oppure ho riso di gusto, e spero che la maggior parte dei miei lettori farà altret­tanto.

Anche la copertina del libro mi ha colpito; piuttosto evocativa...

Sì, e secondo me rappresenta davvero bene un tratto caratteristico della mia ispirazione, che da sempre si proietta per aria. Emblematico è però il fatto che il volo di quel signore sia costretto entro la linea del cerchio in cui il suo corpo passa... E per me ciò è simbolicamente molto azzeccato. Dunque colgo l’occasione per sottolineare l’esatta intuizione di Michele Rossi, mio editor in Rizzoli, che me l’ha proposta fra altre.

Come nasce il tuo rapporto con la scrittura? Anche per te è «un male che non ha rime­dio»?

Posso pensare più che altro alla mia esperien­za d’autore di testi per canzoni: credo di poter dire che ho una spiccata attitudine musical-estetica, decisamente congenita, e scrivendo, il mio istinto va alla ricerca di un esito armonico. Considera che ho iniziato a scrivere perché c’era bisogno di testi per le nostre musiche... Poi, poco per volta, anno dopo anno, ho imparato a convivere con le reazioni che il mio pubblico mi ha rigirato:

«Cristiano, tu sei un poeta! Dovresti scrivere un libro!» E simili. E allora, dopo anni di encomiabile ritrosia e di tentativi di tenere a bada il mio ego, eccomi qua coi mio cimento letterario. Non appena ci avrò fatto l’abitudi­ne mi attrezzerò per rispondere a questa domanda!

 
 
 
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