Creato da guerrinob il 22/10/2008
Diario di villaggio

Area personale

 

Tag

 

Archivio messaggi

 
 << Settembre 2024 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
            1
2 3 4 5 6 7 8
9 10 11 12 13 14 15
16 17 18 19 20 21 22
23 24 25 26 27 28 29
30            
 
 

FACEBOOK

 
 
Citazioni nei Blog Amici: 5
 

 

« VerbaleSono tornato »

Anche Marco, il medico, ci offre il racconto del suo primo viaggio a Fanhè.

Post n°99 pubblicato il 07 Ottobre 2009 da guerrinob

L’aereo che mi porta in Guinea Bissau, è avvolto dal nero della notte, che raramente lascia vedere qualche pallida luce nel deserto del Sahara. E questo buio continua anche in prossimità dell’atterraggio, durante il quale mi è possibile scorgere solo qualche bagliore di luna riflessa dai bracci di mare che penetrano nella terra di Guinea, in prossimità di Bissau. La mancanza di luci, se non quelle dell’aereo che illuminano la pista a pochi metri di altezza, mi fa ricordare che sto per entrare nuovamente in  contatto con la povertà in tutte le sue espressioni.

All’arrivo in aeroporto, le formalità di ingresso si svolgono rapidamente e senza troppi controlli.

Pare che questa sia una consuetudine forse dettata dalla ubicazione di questa città, porto di arrivo dal Sud America, ed in particolare dalla Colombia, delle droghe destinate a provocare tante tragedie in Europa.

Ho sentito racconti incredibili a questo proposito, che  dimostrano l’assenza del governo nei suoi doveri di vigilanza, a favore della sua corruzione per ricavare denaro sporco, grazie al coinvolgimento di tanti, fino all’ultimo agente di polizia, che pur deve arrotondare uno stipendio (quando è pagato) di circa 15.000 Fr CEFA ( pari a 25 €) al mese.

Tutto ciò, grazie anche agli interessi europei, sembra destinato a durare per chissà quanto tempo ancora. Gli abitanti della Guinea Bissau sono meno di 2 milioni; esattamente non  si sa perché l’ultimo censimento risale a circa 30 anni fa e perché probabilmente non tutti i neonati dei villaggi sperduti come quello dove mi sono recato, vengono registrati all’anagrafe.

La produzione industriale è pressoché inesistente e le attività lavorative tassabili sono pochissime: quali sono dunque le risorse per questa nazione? Come è possibile su queste basi costruire un’organizzazione sociale in grado di sviluppare un’assistenza sanitaria, un sistema pensionistico, un sistema scolastico, delle infrastrutture basilari e per noi irrinunciabili?

Questo è il paese dove i bambini scoprono che l’ingresso nella ricerca della sopravvivenza della vita adulta, arriva molto presto, ed il salto del periodo adolescenziale per molti è la normalità.

La strada che lascia Bissau in direzione nord – est, è accettabile, a parte qualche buca nell’asfalto .

In Africa è curioso vedere le auto che procedono velocemente sui rettilinei zigzagando nel tentativo di evitare le buche più grosse, e soprattutto i pulmini che ondeggiano sfidando le leggi della fisica, con i loro carichi inverosimili di persone  e di animali e bagagli sul tetto, tanti da raddoppiare l’altezza del mezzo.

Dopo circa 60 Km si lascia la strada asfaltata diretta a Mansoa, per percorrere gli ultimi Km di sterrato, tracciato ancora ai tempi della dominazione portoghese, che attraversa la foresta in direzione nord , verso uno dei bracci di mare che penetrano nella terra ferma e che era stato utilizzato come porto.

A notte fonda arrivo alla tabanca (villaggio) di Fanhè, sotto un cielo stellato che mostra tutta la sua ricchezza di stelle, in mezzo alla savana, dove qua e la si vedono le morance: piccoli gruppi di capanne  affacciate attorno ad un cortile. In ogni moranca abitano i membri di una stessa famiglia che è aumentata con i matrimoni ed i bambini.

Questi camminano ancora a carponi, condividendo lo spazio con maialini magri e galline.

Le case sono costruite con mattoni di fango cotti al sole, divise in camere buie e coperte da un tetto di paglia: forse rappresenta qualcosa che supera l’essenzialità francescana.

La gente vive fuori dalle propria abitazioni che utilizza solo come rifugio per la notte, in caso di malattia o per maltempo.

In questo villaggio di Fanhè, pochi ani fa è nata una scommessa da parte di alcuni volontari bresciani, ai quali se ne sono aggregati altri del torinese, che hanno accettato la proposta di aiutare questa popolazione, senza il supporto di una missione: se vogliamo, un raro esempio di impegno laico, attento a rispettare l’identità di questa etnia Balanta e coinvolgendo il villaggio stesso nella realizzazione di ciò che loro desideravano maggiormente.

L’dea funziona bene, ed in tre anni è stata costruita una scuola che lavora a tempo pieno con due turni giornalieri, un ambulatorio rurale, pozzi , ed in ultimo un asilo.

Il contrasto con gli altri posti che ho visto in Africa è al mancanza della chiesa, ma qualcosa comincia a muoversi anche in questo senso. La popolazione è ancora animista, o per meglio dire secondo la loro definizione, fedele alla religione tradizionale. Davanti alle proprie abitazioni  è presente una piccola capanna costituita  solo da un tetto in paglia retto da piccoli tronche, per ospitare la divinità chiamata Iran, a protezione della famiglia.

Un primo approccio al cristianesimo è portato da Giulio, un catechista locale, sposato, molto gentile e cordiale, che parla un buon italiano, imparato grazie alla collaborazione con i padri francescani di Nhoma, distanti circa 20 Km:  si occupa della catechesi nel villaggio e tutti i venerdì pomeriggio arriva con la motoretta ad aspettare i ragazzi che escono da scuola.

Ho sentito che qualche giovane inizia ad avere qualche perplessità sulla poligamia, ancora molto diffusa. Le donne rivestono un ruolo di secondaria importanza nella società, anzi alcune sono schiavizzate nei lavori della boulangia (la campagna), nel procurare acqua trasportando con arte sulla testa grossi secchi da 25 – 30 litri, nell’allevare figli, senza entrare nelle riunioni consiliari che sono riservate ai maschi anziani.

La poligamia non rappresenta un motivo di umiliazione o di gelosia, anzi sono le prime mogli che a voltesi attivano alla ricerca di “colleghe “che le possano alleviare alcune incombenze. E’ un’espressione culturale molto distante dai nostri canoni ma che ha le proprie radici in una cultura plurisecolare dove la vita è una lotta per la sopravvivenza e per la continuazione della specie umana.

Gli uomini hanno una spiccato senso manageriale nei riguardi delle mogli e nella organizzazione di feste: il carnevale per esempio è molto sentito ed è una delle occasioni per bere il vino di palma o quello di cajù, che si procurano in bidoni da 25 litri.

Anche i funerali degli adulti sono motivo di festa, dopo la sepoltura che avviene attorno alla casa di abitazione del morto. I tamburi ed i tronchi suonano per tutta la notte, accompagnati da balli e bevute, per alcuni giorni dopo la sepoltura. Il choro (funerale) coinvolge tutta la comunità che sospende qualsiasi attività lavorativa per recarsi alla casa dei familiari.

La vita nell’aldilà è lasciarsi alle spalle le miserie di una vita iniziate in età troppo tenera per essere affrontate, e quindi perché non festeggiare.

La vita dei bambini, in stretto contatto con gli animali domestici ed in condizioni igieniche quantomeno scarse, fa si che è frequente vedere le loro gambine deturpate dalla scabbia ed i capelli cadere a ciocche per i funghi. Crescono senza giocattoli e, da piccolissimi, a volte anche senza vestiti, senza una registrazione anagrafica, senza acqua potabile, senza pediatra e, per contro, con la presenza di centri di cura per malnutriti di dubbia efficacia.

Le mamme li portano in ambulatorio con il cartoncino giallo dell’Unicef dove vengono registrate le vaccinazioni, e dove un grafico rappresenta quella che dovrebbe essere la normale curva di crescita. Tanti non hanno un peso registrato anche dopo mesi, perché i centri di salute sono lontani e spesso sono sotto peso. Mi è capitato di vedere una bimba malnutrita perché la mamma non aveva latte  e la alimentava con latte in polvere  (chissà in che modo recuperato) e farina di riso, solo 2 volte al giorno anziché 5; inoltre, da due giorni aveva rotto l’unica  tettarella del biberon !

Comunque questi aspetti tristi ed a volte drammatici della vita quotidiana, non spengono gli entusiasmi e la gioia tipica dei bambini che inconsciamente insegnano a noi di passaggio nel mondo occidentale, dove abbiamo avuto senza meriti la fortuna di nascere, che la restituzione delle nostre tecnologie, delle nostre competenze, del nostro tempo e di tutte le nostre ricchezze, è doverosa.

I piccolissimi mi fanno venire in mente la nascita di Gesù.Pochi giorni prima di partire dall’Italia, i volontari già presenti in Guinea, mi telefonano per chiedermi pomate contro le ustioni: una bambina di cinque anni era rovesciata dell’acqua bollente sul petto e sul mento.

Pochi giorni dopo l’ho incontrata: mi aspettavo peggio, anche se l’ustione era molto estesa, coperta da una camicetta il cui colore era difficile definire,

L’ustione pareva farle risaltare ancora di più i grandi occhi neri che mi guardavano con sospetto.

Lei non sa chi è un medico.

Comincio a medicarla ed a pulirla. La guardo in  viso perché non accenna ad un pianto o ad un lamento, e mi accorgo che scendono due lacrime, in un silenzio che mi assordava la mente per tutti le riflessioni  che si stavano accavallando. Due giorni dopo non vedendola arrivare in ambulatorio per la medicazione, chiedo a Daniel ed Olivera, i miei due infermieri, di andare a chiamarla, ma capisco che ci sono resistenze. Insisto. Finalmente arriva accompagnata da una ragazza: l’ustione non aveva più la medicazione ed era impiastrata di una cosa nera indefinibile.

Con l’aiuto degli infermieri che parlano un po’ di italiano, insisto per medicarla ma non c’è verso da parte della sua familiare. Non vado oltre, la lascio andare: volevano continuare le cure dal curandero (lo stregone) del villaggio. Dopo qualche giorno la rivedo e l’ustione non era poi tanto male. Nei giorni successivi quando mi incontrava mi chiamava per nome e mi sorrideva.

Dopo pochi giorni il bianco nuovo del villaggio era entrato a far parte del gruppo di amici.

Tutti mi vogliono dare la mano, che io stringo volentieri senza pensare troppo a cosa possono avere toccato un momento prima!

E a proposito di bambini, bisogna dire che c’è sempre il peggio anche quando si pensa di essere arrivati in fondo al barile: Vado a visitare l’ospedale di Comura, una bella realizzazione costruita a padiglioni, ora in ristrutturazione. Mi accoglie una suora italiana che mi presenta ad un giovane medico portoghese, di aspetto solare e con due occhi che sembrano penetrarti nel profondo. Con lui visito il reparto di medicina – malattie infettive, di cui è responsabile, mi illustra i casi clinici e le terapie, mi mostrale cartelle cliniche  e le radiografie dei acsi più interessanti. Gli chiedo se ha fatto un contratto per alcuni anni e mi risponde che starà fino a quando Dio vorrà perché lui è frate francescano, medico.

Per la prima volta nella mia vita vedo gli ammalati di lebbra.

I casi di AIDS la fanno da padrone, tanti sono complicati da TBC.

Ci fermiamo al letto di una ragazza che sta morendo, è uno scheletro divorato dall’AIDS, ormai arrivato allo stadio terminale che è quello in cui arrivano in ospedale la maggior parte degli ammalati.

Mi racconta il caso di un  paziente con una fistola esofago tracheale  (forse una TBC) che era ovviamente impossibilitato ad alimentarsi. Dato che in tutta la Guinea non esiste un gastroscopio, così come non esiste una TAC, il paziente viene affidato al chirurgo per confezionare una gastrostomia per la nutrizione. L’intervento è stato un pò movimentato perché eseguito in anestesia locale e con una sedazione da Valium. Nonostante tutto ora il paziente stava bene  e si nutriva attraverso una sonda montata nella gastrostomia, realizzata con un catetere vescicale, perché non c’era altro.

Dopo avere visitato al pediatria dove vengono ricoverati i bambini sieropositivi, mi invita nel suo convento perché era mezzogiorno passato e voleva offrirmi da mangiare.

La fame era poca e mi servo di un cucchiaio di riso bianco con un pezzetto di pesce, molto buono.

Eravamo solo noi due e vedo che lui non si serve; gli chiedo perché non mangiasse qualcosa e mi risponde: oggi solo pane ed acqua perché è mercoledi delle ceneri: avrei voluto sprofondare.

Prima di salutarmi mi riempie una tasca di arachidi coltivate da loro e mi chiede se sono cattolico. Speriamo di incontrarci ancora perché  questi sono esempi che ci aiutano a non dimenticare che esistono i poveri, gli afflitti, i bisognosi verso i quali abbiamo il dovere di restituire con le nostre capacità, una parte di quella fortuna che non ci ha fatto nascere in un paese povero.

Il piccolo centro sanitario di Fanhè vede pian piano aumentare i pazienti : con me ci sono Daniel ed Olivera, due bravi ragazzi che con la volontà di collaborare gratuitamente alla realizzazione di un progetto,  mettono a disposizione la loro disponibilità anche senza possedere una preparazione specifica. Il loro impegno è evidente ma occorre dare a loro qualche direttiva che possa aiutarli  anche dopo la nostra partenza. Osservo il loro approccio con la gente: parlano poco ed i pazienti altrettanto. Qui non esiste la possibilità di fare esami sia per l’assenza di attrezzatura che per i costi che gravano sulla sanità e che la gente non può affrontare.

Penso che l’unica soluzione sia quella di correggere la pochezza di dialogo tra loro ed i pazienti perché in una realtà come questa, per altro frequente in Africa, il sospetto diagnostico nasce da un’anamnesi. Spiego  loro  che per fare una diagnosi, quanto meno di sospetto, bisogna raccogliere la maggior quantità di informazioni dal paziente. Preparo per loro una schema semplice di domande da fere al paziente, con le possibili risposte che portano ad un sospetto diagnostico. Il paziente dovrà essere ricontrollato e se la terapia avrà risolto il problema, avremo diagnosticato giusto. Ci basiamo sull’uso di pochi farmaci, facilmente reperibili.

I pazienti danno un piccolo contributo per le visite e la terapia che ricevono e questo serve al centro sanitario per mantenere la fornitura farmaceutica.

Affido a loro anche il compito di produrre l’ipoclorito di sodio con il cloratore SERMIG. Spiego l’uso, per altro molto semplice e la diluizione del prodotto ottenuto. Si assumono questo incarico con cura perché si rendono conto che molto si può fare a livello preventivo soprattutto per arginare un problema come quello della potabilizzazione dell’acqua, causa di molte diarree. Inoltre capiscono l’importanza della prevenzione delle malattie nel lavaggio e disinfezione delle verdure, nella disinfezione dei biberon, dei ferri per le suture in ambulatorio, del lavaggio del lettino visita e della bilancia per bambini.

L’ipoclorito comincia ad essere distribuito alle famiglie che conservano l’acqua attinta da pozzi lontani, in contenitori di terracotta riposti nelle loro abitazioni. La distribuiscono dopo aver spiegato  a  cosa serve ed in quali diluizioni usarla. Per incentivarli a continuare la produzione anche in nostra assenza, consiglio di chiedere un contributo simbolico anche per l’ipoclorito e il denaro resterà a loro come piccola ed iniziale gratificazione.

L’ambulatorio è tenuto pulito ed ordinato, ed in questi giorni è stata fatta arrivare l’acqua potabile ed è stato montato un lavello inox.

L’infermiere Daniel mi chiede di andare a visitare sua moglie: è magrissima, seduta su di una sdraio dentro alla sua casa buia, con gli occhi incavati ed il respiro affannoso reso difficoltoso anche da una tosse insistente. Le mucose sono bianche ed è febbricitante. I polmoni gorgogliano pieni di catarro che espelle a fatica in una lattina arrugginita.

Cominciamo la terapia antibiotica. La risposta pare buona ma dopo qualche giorno il quadro si aggrava nuovamente  soprattutto a causa dell’anemia. Decido di portarla all’ospedale di Mansoa che mi sembra dignitoso per gli standard  africani. Parlo con un medico francese che è d’accordo a trasfondere sangue e mi propone la terapia che dovrà eseguire in ospedale. I farmaci devono essere acquistati in farmacia ; vado, compro tutto compresi i batuffoli di cotone, ed al mio ritorno in ospedale scopro che per le trasfusioni bisogna andare in capitale con la loro richiesta e la provetta per la determinazione del gruppo.

A questo punto decidiamo di andare in capitale a prendere il sangue  e di riportare la paziente a casa, dove sarà sottoposta alla sua terapia, senza dover sostenere le spese di degenza che sono troppo elevate per la famiglia.

In ospedale a Bissau ci danno una sola sacca di sangue al posto delle sei richieste  a fronte di un pagamento pari a trenta euro (lo stipendio di un mese). Ritornato in villaggio le infondo la trasfusione (trasportata in auto sotto ad un sole cocente): tutto va bene  e dopo qualche giorno si stava riprendendo. Le faccio anche il test dell’AIDS che la suora di Comura mi aveva regalato: per fortuna è negativo.

Prima di partire troverò il coraggio di andare a salutarla, e, con lei, un’altra parte di Africa che ti lascia un segno dentro per non dimenticare.

 Marco Gariazzo

 

 

 

 

 

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 
Vai alla Home Page del blog

Cerca in questo Blog

  Trova
 

Ultime visite al Blog

mandownelviprimobazarantonio.leccisoleonfuoco60giuseppe195ingensmofeuspykejubevmarcobertamonigeppolredcianchoelena.fischiettidante.porruveronica0891deltatrade.e
 

Ultimi commenti

RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963