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Era il giorno del suo ventunesimo compleanno, una terribile malinconia gli stringeva il cuore all’idea che la sua vita non gli appartenesse.
Paganini non lo intimoriva più con i suoi capricci, come non lo intimoriva ormai suo padre, vecchio e senza più la forza di imporre un’autorità logora e vinta dagli anni.
Si affacciò alla finestra; lampioni fiochi, marciapiedi lisci e l’immensa Prospettiva che sembrava perdersi all’infinito nella nebbia così strana per quel periodo dell’anno.
Prese in mano il violino: non gli rassomigliava. Aveva imparato ad amarlo, ma non rassomigliava a lui, alla sua forma; non aveva il suo corpo di ventenne ricurvo, non aveva la sua voce calda e profonda né le sue spirali di pensieri fumosi; era solo la strada dritta tracciata per lui da altri, da generazioni ignote e lontane. La simmetria quasi manichea di quello strumento non rispecchiava le sue disuguaglianze fatte di colonne d’aria e pistoni e condotte idrauliche in cui scorreva vita.
Volute di pensieri cominciarono allora a staccarsi dalla superficie liscia dell’anima e avevano ora la dolcezza e il profumo del legno stagionato, ora la forza fredda e dorata dell’ottone; catenelle di note che il giovane Sasha gettava in alto verso quel cielo lattiginoso e seguiva con gli occhi finché non le vedeva tuffarsi nella Neva e raggiungere l’immensità azzurra e fredda dell’oceano.
Scese in strada e percorse lentamente l’accademica austerità della Rimskogo – Korsakova. Si sentiva leggero; leggero come quel calabrone che tante volte aveva fatto ronzare e svolazzare tra le corde, tese come grevi sbarre, e l’archetto, meticoloso guardiano di quel volo.
Danzava sfilando davanti ai negozi chiusi e ai caffè colmi di intellettuali, giocando a nascondino tra gli alberi con le cupole d’oro di San Nicola, risalendo come un salmone la corrente del canale Griboedov fin sotto l’enorme mole chiara del conservatorio per salutarlo con un gesto elegante della mano come si saluta un vecchio amico:
- Addio, Nikolaj, addio – sussurrò sorridendo.
Poi volse lo sguardo ad est e nelle acque costrette, imprigionate, del canale egli rivide se stesso. Da sopra le loro bianche barbe i leoni del ponte Lviny lo guardavano immobili e alteri.
Il 25 settembre di quell’anno, Aleksandr Fyodorov Fyodorovic attraversò muto il sottile confine d’acqua tra ciò che si sa e ciò che si vuole. Alle sue spalle l’autunno di San Pietruburgo avanzava lento lungo le strade, sopra i tetti, nelle stanze quotidiane di una vita ormai vecchia.
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