La musica che si ascoltava in casa quando io ero bambino era quella dei cantautori "impegnati" di sinistra; era usuale sentir risuonare in quelle stanze le note e i versi de "La locomotiva" o le parole di "Socialdemocrazia" piuttosto che quella della "Canzone del maggio".
Quella era la musica che accompagnava lo scorrere lento di vite trascorse all'ombra di generazioni solo sopravvissute e mai vissute: non me ne sarei potuto sottrarre nemmeno se avessi voluto.
Ad un certo punto, però, tra tutta quella poesia che chiamava agli ideali di giustizia e uguaglianza, cominciai a distinguere il senso delle strofe dalle bocche che le pronunciavano.
Cominciai a percepire gli autori di quelle canzoni come superbi fabbricanti di parole, eccellenti acrobati della rivoluzione, ma nulla più.
Pur mantenendo intatta tutta la loro bellezza, parole fatte per essere "mezzo" diventavano "fine" o, peggio, fine a se stesse.
Uno dei pochissimi cantautori a non aver mai fatto parte di questa mia innocente "lista nera" fu, ed è tutt'oggi, Ivan Graziani.
Capisco che per molti egli potesse essere un cantautore "minore". Le sue canzoni quasi senza metro, senza rime; le melodie fuori dal comune, e poi quelle storie così piccole, quasi stupide, di fronte al "risveglio" delle masse e all'avanzare dell'enorme nuova coscienza popolare..: sì, lo capisco, che per molti potesse essere un cantautore minore, ma per me non fu e non è così.
Le sue canzoni sembravano raccontarmi quello che io ero, quello che provavo e vivevo di giorno in giorno.
E poi vita, morte, amore, giustizia, libertà: i massimi sistemi si specchiavano nelle sue storie piccole di provincia e sembravano quasi chinare il capo, cedendo la loro solennità alla semplicità di quegli stralci di vita quotidiana. Del resto che cos'è un deserto se non una moltitudine di granelli; e cos'altro l'eternità, se non il susseguirsi di piccoli istanti che non possono che rivolgersi all'indentro per trovare il loro infinito nell'infinitamente piccolo (?).
Così nelle sue canzoni la Storia diventava tante storie. Storie minuscole, a volte banali, altre tristi o allegre o severe, ma sempre "vere"; vere come vero ho sempre sentito lui.
Mi è accaduto di incontrarlo, un paio di volte, tanti anni fa. Un bar anonimo lungo una strada anonima, una delle tante che tagliano le valli strette dell'Appennino marchigiano: aprire la porta e trovarlo lì, uno tra tanti. Sulle sue labbra la stessa amichevole confidenza dei "miei"vecchi, quelli che riempiono i bar di paese nei dopopranzo d'agosto; quella confidenza che non si nega a nessuno, nemmeno agli sconosciuti capitati lì per caso.
Ancora oggi, a cinquant'anni, anzi, cinquantuno, mi capita di ricordare cose mai viste eppure vissute, vissute attraverso quelle favole in musica narrate dalla sua voce strana e inusuale; ancora oggi il saltellare nervoso di un corvo mi trasporta nei vicoli e su per le scale ritorte di Anghiari e vecchie ville abbandonate avvolte dalla vegetazione mi raccontano di belle signore bionde prigioniere negli specchi delle loro voglie e della loro età, mentre, la sera, ligi e timorati Jekyll si trasformano in tanti Hyde in attesa lungo autostrade telematiche e Radio Londra annuncia a tutti che la guerra è finita, è finita davvero, per i vivi e per i morti.
Mi piace andare su e giù per certi ricordi, adesso, però, devo lasciarvi. È tardi e la luna luccica sul dorso dei delfini al largo. Dal ponte di questo cargo vedo, lontano tra i flutti, il capitano Nemo apparire, ma la gente continua a dirmi che sono strano, più che strano, perché non c'è niente sul mare. Né delfini né capitani, e nemmeno preti neri che giocano a scivolarello o ville bianche sopite tra i rami dei ciliegi.
Non c'è niente, proprio niente, sul mare, neanche quella volpe bianca che fugge libera su tre zampe nella neve di aprile.
La gente dice che sono strano, ma io ho imparato a sorriderne; l'ho imparato da tanto e un po' mi dispiace per i loro occhi dalle cataratte imbiancate e per le loro vite ad alta quota. Mi dispiace perché non immaginano nemmeno come sia, una vita come la mia, lungo la quale non è un delitto avere fantasia, sognare un po', andare via.
Ciao, Gio' :-)
Grazie a te per l'apporto, Gio'.
Alla prossima.
Poi, crescendo, sono scivolato verso il blues e il rock, ma Graziani è rimasto sempre nel mio cuore. Anche perché se devo proprio dirlo, al di là delle solite canzoni che di lui la maggior parte della gente conosce, Graziani era un rocker d'eccezione, anzi, uno dei pochissimi italiani, a quel tempo, capaci di fare del buon rock d'avanguardia (un esempio ne è l'album "Ivangarage", poco apprezzato e ancor meno conosciuto).
Comunque, al di là di tutto, sì, a volte capita che il tempo porti certe fortunose e piacevoli rivelazioni... succede anche a me molto, molto spesso :-)
Buonanotte, amico mio.
Sa, spesso si fa l'errore di identificare il l'artista con la sua opera ed è la cosa più sbagliata, in linea di massima, ma a farlo per lui no ci si sbagliava di molto: l'ho sempre visto "vero".
P.S. Il ritmo della batteria, nel pezzo che lei ha proposto mi fa tornare in mente che uno dei due figli di Graziani, Tommy, è un ottimo batterista.
Va be', così pour parler.
Buonanotte madame, e grazie per il contributo :-)
Sa, madame Blue, anche quelle vite disadattate erano, in qualche modo, uno specchio del mondo che meglio conoscevo fin da bambino. E come quelle, anche tutte le altre storie piccole che Graziani usava raccontare in musica mi erano familiari. Talvolta di una familiarità intima. Anche quelle "fantastiche" che svegliavano la mia immaginazione di bambino.
Quello di cui, con lo sguardo di adulto mi accorgo, è che lui riusciva a rendere, anche al bambino che ero, il senso di concetti molto più grandi di me, e lo faceva nel modo più istintivo, disegnando le sue storie con la china della fantasia, traducendo tutto in una lingua universale, quella delle emozioni.
Grazie per il suo apporto, Madame, e buona serata.
Buonanotte.
Un saluto
Grazie del passaggioe e del contributo.
Abbi una buona notte