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Creato da: silence.heart1983 il 24/04/2008
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« Messaggio #3L'ALTRA MIA PASSIONE »

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Post n°4 pubblicato il 24 Aprile 2008 da silence.heart1983

LUSSURIA:come si sa o si dovrebbe sapere, non riguarda il lusso, ma il sesso. Il quale, come la gola, garantisce la sopravvivenza, questa volta del genere umano: non senza un perché si chiamano «genitali». Ma la sessualità umana è una realtà molto complessa, enigmatica e interessante. Intanto, se l’attrazione fisica fosse solo il trucco di madre natura per far figliare, con strane attivazioni di membra che al solo rammentarle fanno ridere (Erasmo), Quello lassù poteva farci riprodurre come i lombrichi: da uno se ne fa due. Tant’è che ora c’è chi s’ingegna in intrugli del genere. O fare andare in caldo ogni cinque anni, come il panda. D’altra parte, se scopo del sesso fosse esclusivamente il piacere, in una successione di desiderio, eccitazione, ricerca, sfogo, secondo una «concezione idraulica» del medesimo, sesso appunto a sciacquone (Fromm), perché così pochi momenti e centimetri per quest’altro godio, che invece, una volta assaggiato, tende all’infinito? Effetti dei pizzicori delle foglie di fico sui tristi progenitori? Ma poi perché il buon Dio ci avrebbe fatti «bambini» e «bambine», maschi e femmine, se si trattasse solo di dar lo sturo a un troppo pieno? In realtà, il sesso tende all’unione di «tutto un corpo in un corpo» (Lucrezio). È il mistero della biblica «una sola carne» (Gen 2,23-24; Mc 10,8; Ef 5,29-30): immedesimazione in una distinzione, anzi opposizione, e perciò reciprocità, di lui per lei e lei per lui, di lui con lei e lei con lui, di lui in lei e lei in lui. È unione di persone: il coito, se umano, comincia di solito con un bacio. In quell’unione che vuol essere totale, come se fosse un pozzo (Prov 5,15) soffocato da tanti detriti, - quelli sedimentati dalla lussuria all’insegna dell’«ogni lasciata è persa» o «basta che respiri» -, si può riscontrare un desiderio, anzi una volontà di perennità e vitalità, per un sesso così unitivo ed espressivo da essere umanamente e serenamente procreativo. Certo, neppure nell’esercizio concreto del sesso c’è una unione totale di persone, che sarà data solo nel mondo dei corpi risorti, del cui anelito la verginità è segno particolare e «testimonianza dell’invisibile» (Paolo VI). Eppure, la Chiesa contemporanea (da Pio XII a Benedetto XVI) e già patristica (Clemente di Alessandria, Metodio, Proba Faltona, il monaco Melezio), nella sua riflessione sull’eros, apprezza quell’atto, con espressivi e piacevoli annessi e connessi. E lo rispetta e stima di molto, a quelle condizioni di unità e fecondità coniugali. Tanto che verrebbe da dire: anche troppo, e troppa grazia in quel ben di Dio che richiede d’esser fatto e vissuto fin troppo bene! Come si fa? Tanto più in un mondo afrodisiaco (Bergson) nei suoi richiami, stimoli, seduzioni, obblighi e illusioni. Non solo. Fino a quarant’anni or sono, quando ancora una puerpera si sentiva in dovere di «rientrare in santo», l’antico procreazionismo rigido (Agostino) del «non lo fo per amor mio ma per dare figli a Dio» faceva chiaramente capire dov’erano la virtù e il vizio, castità e lussuria. Ora, l’apprezzamento cordiale del valore dell’eros e nel contempo la dottrina del suo significato inscindibilmente unitivo e strutturalmente procreativo suscitano non pochi problemi, per chi, s’intende, vuole avere un po’ di coscienza. Eppure, per non lasciare che la vita di affetti, sentimenti, sensi vada a finire in cenere umanamente infeconda, frutto deludente di lussuria illusoria, è da rendersi dove l’impudicizia si annida, come egoismo, disperazione e rivalsa. Ancora. Proprio lì, - innanzi tutto nel cervello e poi nel cuore, e anche … tra il bellico e i ginocchi -, per un eros vissuto umanamente, è da scegliere, senza demordere, la sfida morale di un arduo cammino verso la fresca «purità di cuore» evangelica (Mt 5,8). Insomma, consapevolezza vissuta della bontà del sesso e limpidezza che, sola, conosce gratitudine e beatitudine.

ACCIDIA: uesta parola è probabilmente poco familiare alla maggior parte della cultura moderna, non così l’esperienza che descrive e sintetizza: il desiderio, accompagnato da una certa tristezza, di fuggire dal compito che in quel preciso momento siamo chiamati a svolgere. Ricordo una simpatica mattonella che, riportando il decalogo del pigro, al primo articolo recitava: «non fare oggi ciò che potresti fare domani» e «se ti viene voglia di fare qualcosa, fermati! Vedrai che ti passa». Ecco una semplice, anche se parziale, immagine dell’accidia. Questo termine non proviene tanto dalla tradizione biblica quanto da quella monastica dei primi secoli del cristianesimo - tra i più importanti ricordo: Giovanni Cassiano ed Evagrio Pontico - per poi arricchirsi nelle successive riflessioni teologiche. Tuttavia anche se «accidia» non compare nella Scrittura non mancano riferimenti a questa difficoltà interiore; basti citare il Siracide: «Non abbandonarti alla tristezza, non tormentarti con i tuoi pensieri» (30,31) o anche s. Paolo che parla di una «tristezza secondo il mondo» che conduce alla morte (2Cor 7,10). L’accidia appare prima di tutto come uno stato d’animo negativo intessuto di scoraggiamento, di noia, di pesantezza, in questo manifestarsi però essa non è ancora peccato, ma solo tentazione. Peccato vero e proprio è cedere a questo sentimento e fuggire, fisicamente o con la mente, dall’attività intrapresa o che si dovrebbe intraprendere di lì a poco. L’accidia dice la difficoltà di fare oggetto del nostro pensiero e della nostra volontà un bene che non è ancora presente; è un segno del conflitto che può nascere in noi per dover scegliere tra cercare una soddisfazione materiale immediata, pur piccola, e impegnarsi per raggiungerne una più grande, spirituale, ma posta nel futuro. Sentimento per sua natura oscuro, confuso, sfuggente, l’accidia è capace di molteplici manifestazioni talvolta opposte nella loro apparenza, ma unite da una medesima radice: l’annebbiamento della gerarchia del valore delle diverse situazioni, per cui tutto sembra farsi grigio ed omogeneo. Da un lato, infatti, troviamo gli atteggiamenti caratterizzati dal rimandare scelte e azioni; dallo sminuire l’importanza dei compiti affidatici; dallo svalutare l’urgenza di affrontare le situazioni che ci si presentano; dal non prendere sul serio responsabilità e doveri; dalla leggerezza e superficialità nell’operare che non fa differenza tra il portare a compimento qualcosa o lasciarla a mezzo. Dall’altro lato - con un aspetto meno evidente da collegare all’accidia - stanno gli atteggiamenti opposti: l’attivismo che vuole riempire ogni momento del tempo con qualcosa per paura di doversi fermare a riflettere; la frenesia del consumare novità di ogni genere con la scusa che più esperienze si fanno - non importa quali - più la vita si arricchisce; il dilettantismo del passare da continuamente da un impegno all’altro per timore di coinvolgersi troppo con persone e situazioni; l’irrequietezza di cambiare sbandierando la pretesa di inseguire un mai precisato «meglio». In modo più sottile e ipocrita, perché si ammantano di dinamicità e apertura, anche questi ultimi in fondo dicono che non esiste nulla di realmente importante a parte se stessi e le proprie sensazioni, che nulla e nessuno è in se stesso degno di fedeltà, sacrificio e dedizione. Accanto a queste forme individuali, il card. Martini, appena prima di iniziare il Giubileo, in un discorso nella vigilia di s. Ambrogio centrava l’attenzione sulla manifestazione sociale di questo male oscuro. Esiste anche una «accidia pubblica o politica» fatta di esaltazione della moderazione come mediocrità e di chi se ne fa ad ogni livello unico portabandiera; di una piatta neutralità; di un’incapacità timida e impaurita, ma elevata a virtù, di valutare oggettivamente ed eticamente le situazioni; di incapacità di proporre qualcosa di diverso da una convivenza fiacca, opaca, frammentata, che genera una società senza forma e tuttavia, attraverso l’adulazione dei media, capace di addormentare le coscienze dei singoli e dei gruppi. Contro un nemico così sfuggente e multiforme, quasi fatto d’ombra, la tradizione spirituale cristiana individua le armi più efficaci nella resistenza e nella costanza amorosa - per dirla in una parola nella virtù della fortezza, dono dello Spirito Santo - applicate a tutti gli atti dell’esistenza: da quelli spirituali a quelli materiali. Diviene così fondamentale imparare a mantenersi vigili e coscienti del presente; imporsi metodo e disciplina nelle azioni; esercitare con costanza ed esigenza la veracità verso se stessi e gli altri; vivere la speranza attiva e paziente del costruire giorno per giorno. Infine, visto che l’accidia pretende di prendersi troppo sul serio e ingigantisce l’importanza della propria tristezza, ottimo antidoto è una buona dose di autoironia che con una risata sappia farci riportare le cose che ci coinvolgono alla loro giusta proporzione.

INVIDIA: «Per cosa sono da meno di lui? Per intelligenza? Per ricchezza interiore? Per sensibilità? Per forza? Per importanza? Perché devo subire la sua superiorità?» Così s’interroga Nicolaj Kavalerov, protagonista del romanzo Invidia (1928) di Jurij Olesa, scrittore sovietico, meditando rancore sul suo nemico personale Babicev, che rappresenta ai suoi occhi un concentrato di negatività assolute. Come tutti i vizi capitali l’invidia è antica come l’uomo; a differenza della superbia, della gola della lussuria, l’invidia è forse l’unico vizio che non procura piacere; evidentemente le sue radici nascoste affondano nel nucleo profondo di noi stessi dove si raccoglie la nostra identità che per costituirsi e crescere ha bisogno del riconoscimento; quando questo manca, l’identità si fa più incerta, sbiadisce, si atrofizza ed entra in scena l’invidia che permette a chi è incapace di valorizzare se stesso una salvaguardia di sé nella demolizione dell’altro; oltre ad essere un vizio è un meccanismo di difesa, disperato tentativo maldestro di recuperare la fiducia e la stima di se stessi impedendo la caduta del proprio valore svalutando l’altro; questa è la strategia dell’invidioso: svalutare le persone percepite come «migliori» di sé non solo in pensieri e parole, ma anche danneggiando il malcapitato invidiato considerato colpevole di farsi apprezzare e stimare dagli altri più del dovuto, più di quanto non lo sia l’invidiante. Non confondiamo invidia e gelosia: la prima è risentimento verso qualcosa che qualcuno ha, ma che non mi appartiene; la seconda è la paura che qualcuno mi porti via ciò che già ho; l’invidia è figlia della frustrazione e di un senso di impossibilità a realizzarsi che si riflette in un odio distruttivo verso l’altro; l’invidioso «è un carnefice di se stesso» (S. Pier Crisologo) e di chi gli è vicino. Nella società della competizione, del successo e della nuova ricchezza l’invidia cresce a dismisura, è proporzionale all’esibizione esagerata di pochi contro il disagio e la delusione di molti. Il sociologo Paolo De Nardis parla dell’invidia nel suo L’Invidia. Un rompicapo per le scienze sociali (2000) e avanza l’interrogativo se l’invidia non sia un peccato capitale della nostra società: così Helmut Schoeck nel suo L’invidia e la società (1974) dimostra che l’invidia è uno dei più importanti motori sociali sia nelle società comuniste, sia in quelle capitalistiche e c’è anche chi annota che l’invidia è stata considerata una pecca della democrazia già dal mondo greco, dalle Vespe di Aristofane fino alle acute analisi di Tocqueville. In una società in cui tutti sono uguali ci si chiede perché tizio è più ricco o più famoso di me. Anche per F. Nietzsche è tipico di tutti i movimenti egualitari - cristianesimo, socialismo, democrazia -, avere uno spirito gregario: il gregge si difende odiando e invidiando chi sta sopra e sostiene che l’inferno è un’invenzione dei cristiani che si trovano al fondo della classe sociale. Nelle società in cui la disuguaglianza è assunta come un dato naturale si è indotti ad accettare più facilmente la supremazia dell’altro e a tollerare il proprio limite. Mentre nelle società dove la disuguaglianza è ritenuta innaturale o prodotto dell’iniquità sociale, l’invidia veste i panni della virtù e si trasforma in istanza di giustizia. L’invidia è un sentimento che non sopporta il limite naturale in forza di una pressione sociale, perché è la società a decidere il valore degli individui, e nella società contemporanea il criterio di decisione è il successo. Il sentirsi limitati e impotenti ha un carattere costitutivamente relazionale nel senso che dipende dalle relazioni sociali attraverso cui passa il riconoscimento individuale; quando la società fa mancare il riconoscimento produce la metamorfosi dell’impotenza in invidia e aumenta al suo interno la circolazione di questo sentimento che impoverisce il mondo senza riuscire a valorizzare chi lo prova; è proprio questa la ragione per cui l’invidioso è costretto a nascondere il suo sentimento e a non lasciarlo mai trasparire perché altrimenti darebbe a vedere la sua impotenza, la sua inferiorità e la sua sofferenza. L’invidia in questa prospettiva oltre un vizio capitale è un indotto sociale, e, fatta salva l’istanza di giustizia che può promuovere, è un sentimento «inutile» perché non approda alla valorizzazione di sé, «doloroso» perché rabbuia e impoverisce il mondo e per giunta è un sentimento da tenere «nascosto» senza neppure il conforto che può venire dal parlarne con qualcuno; pochissimi, infatti, parlano chiaramente e volentieri dell’invidia che provano: parlarne apertamente inibisce perché è come mettersi a nudo, svelare la parte più meschina e vulnerabile di sé; parlare della persona che si invidia e spiegare il perché significa parlare della parte più profonda di se stessi, delle aspirazioni e dei fallimenti personali, delle difficoltà e dei limiti che si trovano in noi stessi. Nel libro della Sapienza si ricorda che «la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo» (Sap. 2,24); il testo sacro collega il limite dell’umanità ad un peccato d’invidia e Satana è l’invidioso per eccellenza. Percorrendo la Sacra Scrittura emerge un filo sapienzale, da Caino a Saul che mostra come l’invidia nasca dalla grandezza dell’altro non accolta e diventata elemento di confronto e rivela un senso di sconfitta. Chesterton dice che l’uomo che non è invidioso vede le rose più rosse degli altri, l’erba più verde e il sole più abbagliante, mentre l’invidioso le vive con disperazione. Uno sguardo purificato aiuta a cogliere il valore delle cose, la loro intima bellezza e non riduce tutto all’oggetto da catturare e possedere ad ogni costo.




 
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