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Post N° 575

Post n°575 pubblicato il 13 Novembre 2006 da sopalmar
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la piccola si nasconde, ora, in un luogo inaccessibile, nascosto giù in fondo, dove stanno le lacrime che non ha mai pianto. Ha sempre abitato lì, ma si era scordata di se stessa - di esistere ancora, altrove - così come si era scordata di tutto quello che nell’oblio le aveva fatto compagnia in quella stanza sempre in penombra. Il suo orso preferito – quello a cui aveva dato troppi nomi, ché ogni volta ne sceglieva uno che pareva perfetto, ma poi sempre finiva per dimenticarlo o sostituirlo con uno migliore – l’orso dalla pelliccia azzurra con la salopette cucita addosso, che le avevano regalato quando era in ospedale per l’ustione, amato e maltrattato – perché quando ami fai così, vero? accarezzi e poi prendi a calci ma solo per accarezzare di nuovo, accarezzare più forte – lui c’era sempre, sul letto, magari coperto dal plaid perché non prendesse freddo, proprio come ora, con il naso ricucito in modo maldestro e la lanugine dell’imbottitura che spunta da un fianco. L’orso da stringere sotto le coperte, quando fuori si allungano le ombre in mostri dagli occhi infossati nel buio, ed ogni scricchiolio del parquet fa battere il cuore a mille e trattenere il respiro per la paura che vengano a portarla via. La casa, la casa dove si trova la sua stanza, è abitata ma, se chiama, nessuno risponde mai. La sua voce proprio non si sente, neppure quando trattiene i singhiozzi soffocandoli tra il cuscino e il letto - rassicurante passare così inosservata, pensa, e progetta di scappare lontano dove non la possano più trovare, dove sicuramente la verranno a cercare. L’anta dell’armadio dei maglioni non si chiude mai del tutto, e se la fissa abbastanza a lungo le sembra di intravedere delle piccole dita di bambino che spuntano da dentro – sono bianchissime ma sotto le unghie la carne è già blu per il sangue ormai rappreso che imputridisce – e lei impietrita fa la guardia dal suo letto, finchè si accorge che anche l’icona di Cristo crocefisso appoggiata su un colto della libreria pare muoversi. Le braccia inchiodate ondeggiano nella luce che filtra da sotto la porta, e le vanno incontro come a volerla calmare, oro dipinto su legno ormai mangiato dai tarli. Il bambino morto che vive nell’armadio non le farà del male, almeno non stasera, e potrà fare a meno di chiamare a gran voce - ‘papà mi potresti portare un bicchiere d’acqua?’ - questa sera non darà fastidio a nessuno, e domani non ci saranno domande irritate sul suo essere strana. Dopo che avevi pianto molto, anche a te si arrossavano così le orecchie, quand’eri piccolo? proprio come succede quando ti asciughi i capelli con il phon, la porta del bagno chiusa, sennò il vapore se ne vola via, anche con un solo spiffero di corrente. Annuisci, e lei ti lascia fare, perché non vede l’ora di fidarsi. Ti lascia fare e tu le sfiori il centro della fronte come se la stessi cresimando, e la sciogli in un pianto d’ argento e olio di lavanda, che le macchia le mani di viola chiaro quando tenta di nascondere il viso ai tuoi occhi, non sapendo che le vedi attraverso le dita diventate all’improvviso trasparenti. E’ come sposarsi - lei tua sposa, tu suo sposo – riconoscersi e sposarsi. Darsi la vita e sposarsi. Le guance rigate di pianto viola e indosso il pigiama di flanella, una sposa bambina ti si rannicchia nel petto, si fa strada tra le due ali di costole che custodiscono il tuo cuore, scivolando indolore come morfina liquida. Chiede asilo. Trova il suo rifugio. Piange, ama, si fa tua. Ancella premurosa che custodisce il sangue nelle tue vene. Vive di battiti regalati - di battiti rubati - in quella stanza che da prigione si trasforma in regno. In alcova. In boudoir. Rimane piccola e si trasforma, gioca sui tacchi e civetta – è bambina, ma femmina - e tutti la guardano, tenendosi un po’ in disparte – il mostro che abita sotto al letto, il bimbo morto nell’armadio, il suo orsacchiotto e persino Cristo crocefisso -  la guardano mentre si abbandona sulle ginocchia, accovacciata in un angolo, al piacere e alla scoperta. La gonna si solleva docile ed il collo abbandonato all’indietro inarca tutta la schiena. Non c’è peccato nel leggere la pelle con le dita – nel farsela leggere – nessun peccato che non possa essere lavato via da una tazza di tè con i biscotti. La punizione – è sicura – verrà, come verrà il giudizio universale alla fine di tutti i giorni. Ma quella che teme, è ora, nel ricordo più bello, quello che rivive ogni giorno senza poterlo più aspettare. Nel suo cuore abbandonato sulle coperte ruvide, che nei mostri dell’immaginazione adesso trova conforto – un girotondo da notte di Ognissanti popolato di creature innocue e un po’ spaesate – lei ti ha riconosciuto. Amore che non si ripete, indossa il lutto come uno splendido abito di velluto di seta, e lo disegna sulle palpebre e le labbra con inchiostro indelebile.

 
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