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Messaggi del 11/08/2007

San Lorenzo

Post n°162 pubblicato il 11 Agosto 2007 da Kaos_101
 

Es la Sombra                                           E' l'Ombra

Ni es el sol                                              Non è il sole
El que reina                                            che regna
En la sombra                                          Sull'ombra

Es la sombra                                           E' l'ombra
La reina                                                   La regina
del sol                                                      del sole.

Juan Ramon Jimenez


10 Agosto, San Lorenzo, la notte delle stelle cadenti
Non spira un alito di vento in questa notte calda e profumata.
La radio trasmette un programma di musica inframmezzata da commenti, consigli e varia umanità
Stanotte cadono le stelle
Annuncia l’annunciatore con voce annunciante
I ricercatori dell’osservatorio astronomico di Asiago comunicano che la fascia oraria più indicata per goderso lo spettacolo sarà quella tra le 22.00 e le 01.00 di questa notte, con picco massimo tra le 23.00 e le 24.00
Guardo l’ora: sono le 21,50: sono qui seminudo, annoiato, senza saper bene cosa fare e senza nessuna voglia di andare a dormire.
Il caldo è afoso. La notte, come direbbe uno di quelli che sanno scrivere, copre il mondo col suo pesante, nero manto vellutato che ovatta i rumori e accentua il mio  senso di soffocamento e la mia insofferenza.
Quasi quasi vado sui colli a vederle.
Non ho nessuna voglia di vestirmi, ma ne ho ancor meno di rimanere qui a lessare in questo brodo vischioso che mi avvolge, così mi decido ad uscire.
Faccio una rapida doccia, infilo in un paio di pantaloni di cotone e una polo.
Stasera ho voglia di musica classica: cassetta nella radio dell’auto e via.
In mezz’ora sono alla base dei colli, analizzo mentalmente alcune soluzioni ed opto per quella che sembra più confacente alla bisogna.
La stretta strada, che si inerpica tra curve e controcurve, mi conduce in pochi minuti ad uno spiazzo non asfaltato da cui, con cautela, raggiungo il poggio erboso che sarà il mio punto di osservazione.
La sera è splendida, alla mia sinistra si scorge chiaramente il lungo nastro illuminato della Padova Bolgna e le luci di Este. Alla mia destra i coni vulcanici del Venda e del Monte della Madonna, davanti a me la pianura interrotta dalle ultime propaggini dei Colli Euganei, l’aria è molto più fresca e spira una leggera brezza.
Spengo motore e luci e mi metto comodo ad osservare il cielo.
Purtroppo l’inquinamento luminoso è superiore al previsto, ma non mi do particolarmente pena, in fondo, anche se non dovessi vedere nulla, il posto, di per sé, è valso il viaggio.
L’illuminazione della radio mi disturba e, dato che non voglio rinunciare alla musica, raccatto un plaid dal bagagliaio e mi stendo sull’erba ad osservare il cielo.
Comincio ad intravedere qualche scia luminosa.
In verità, le tanto annunciate stelle cadenti sembrano latitare mentre me ne sto qui sdraiato con le mani intrecciate dietro la nuca, l’odore del fieno nelle narici e la Sinfonia Antartica nelle orecchie.
Curiosa opera la Sinfonia Antartica. Composta in origine come colonna sonora per un film celebrativo sulla tragica spedizione di Scott in Antartide, è brillantemente sopravvissuta all’opera cinematografica per la quale è stata realizzata, entrando,  a pieno tutolo, nella "musica colta".
E’ una composizione complessa, per voce recitante, coro, orchestra e macchina del vento, il cui sibilo si fonde mirabilmente con il fraseggio degli archi, il prorompere algido dei fiati, l’uso, quasi tonale, delle voci umane.
E’ un brano che amo, così pervaso com’è da un senso di inquietudine e di incombente tragedia.
Sarà la musica, sarà la scarsa frequenza con cui il cielo elargisce lo spettacolo per cui sono venuto fin qui, sarà stata la peperonata mangiata a cena o forse quell’ermo colle da cui un infinito ad un altro infinito vado comparando, sta di fatto che l’inquietudine del brano comincia a serpeggiare dentro di me.
Tutto credo sia cominciato da una considerazione banale: oramai di posti davvero bui, qui dalle mie parti, non se ne trovano quasi più.
La luce è padrona della notte anche in zone relativamente disabitate come quella nella quale mi trovo. Un faro che illumina un campanile poco lontano, le luci delle case, gli effetti laser di una discoteca nelle vicinanze lacerano la notte violandone l’intimità.
Per contro, le poche pozze di buio profondo sembrano resistere a quella offensiva luminosa, assumendo un’aria di inquietante mistero, come se in esse sia acquattata qualche entità sconosciuta e per nulla benevola.
E’ possibile che questo pensiero mi abbia suggestionato, sta di fatto che comincio ad avere la sensazione di non essere solo in quel prato fino a poco prima profumato ed accogliente. Mi sembra di avvertire una presenza malevola che mi spia non vista. L’aria seppur fresca della notte non giustifica il leggero brivido che mi serpeggia lungo la schiena e quell’enorme, infinito, spazio che mi sovrasta, da placido cielo scrutato fino ad un attimo prima, si è trasformato in un’entità indefinita, ma assolutamente reale che non pare gradire affatto la mia presenza.
Le 0,24. Tutto sommato posso anche rientrare. Il meglio dello spettacolo si è oramai esaurito e ho voglia di tacitare quella vaga inquietudine.
Raccolgo il plaid, lo caccio in macchina, mi giro un paio di volte, furtivamente per paura di intravedere qualcosa che a rigor di logica non può esserci, ma la cui presenza, in quel momento, non sono poi così certo di poter escludere, metto in moto e scendo velocemente verso la città  sorridendo tra me e me di quella insensata paura che mi ha assalito.
Eppure, nonostante logica e ragione, un tarlo continua a scavare nel mio cervello, sicuramente sovreccitato.
Sono ormai alla periferia di Padova, ho fatto una strada secondaria che mi porta a percorrere un argine per poi inoltrarmi in una zona in cui la campagna contende ancora il passo alla prorompete urbanizzazione abitativa. Villette illuminate e campi oscuri mi fanno tornare a ragionare su buio e luce e a immaginare come fosse il mondo prima della comparsa della luce elettrica.
A quei tempi, evidentemente, la notte regnava indisturbata sulla totalità della terra tenuta appena appena a bada da poche fioche luci, per il resto il pozzo nero del buio presidiava il mondo. Penso ai terrori degli uomini di allora, alla paura del Maligno, che nella notte aveva la sua casa e nel buio il terreno propizio per tramare i suoi disegni.
Il mio pensiero si snoda a ritroso ripensa al terror panico, a quella paura dell’ignoto che è così ben impersonata dall’oscurità, un’oscurità che copre e protegge tutto ciò che non ci è dato sapere e che può arrecarci solo male e dolore.
Di colpo ho come una folgorazione. Lo so è un pensiero idiota, che però mi colpisce con forza, con la chiarezza di qualcosa non  confutabile, ma che semplicemente è: il Male esiste!
Non parlo il male generico, quello con cui ciascuno di noi si confrontar per tutta la propria esistenza, ma il Male come essenza personificata, come volontà attiva di nuocere; non l’estemporaneo accadere di eventi e dolorosi, ma il preciso disegno di una mente che nel buio odia la luce e chi se ne fa scudo.
Se ciò è vero, ne consegue che il Male, anticamente Padrone assoluto dell’immenso spazio approntato dalla notte, ora, per colpa dell’uomo, si trova senza regno, confinato com’è in territori esigui, nei pochi luoghi circoscritti dalla luce che tutto pervade.
E se ciò è vero il Male, che prima aveva il mondo nel quale diluirsi, è ora concentrato nel poco spazio che ancora controlla.
E se ciò è vero,  la forza che una tale concentrazione produce è inferiore solo al rancore con cui il Padrone della Notte odia le creature che hanno usurpato il suo regno.
L’idea mi spaventa. Mi guardo intorno preoccupato dalla radio escono le note del Mazzeppa di Liszt che non è esattamente rassicurante come colonna sonora alla mia inquietudine. Arrivo ad un bivio, giro a destra ed improvvisamente la vedo!
In fondo al rettilineo che attraversa una zona coltivata, c’è una grande casa colonica, posta perpendicolarmente alla strada quasi a volerne sbarrare il percorso.
La casa di per sé non ha nulla di particolare: è una costruzione piuttosto grande a due piani, l’intonaco, di un bianco sporco, è solcato da una ragnatela di crepe ed interrotto in più punti dall’affiorare dei mattoni sottostanti, là dove lo stesso è venuto meno.
Le finestre hanno le imposte verde scuro spalancate.
Quello che mi turba è il buio dietro quelle finestre: è un buio assoluto, una mancanza totale di luce che nemmeno la luna piena che illumina la scena riesce in qualche modo a mitigare.
E’ un buio denso, senza fondo, un buio che risucchia la luce, un buio che sembra avere una consistenza fisica, una consapevolezza di sé.
Mano a mano che mi avvicino alla casa la mia angoscia cresce, sento i peli delle braccia e delle gambe rizzarsi, percepisco il pizzicore dell’adrenalina che entra in circolo. Un brivido mi percorre la schiena.
Quelle finestre spalancate su quel buio sembrano occhi malevoli di una creatura crudele acquattata e pronta a colpire.
Avverto mille leggere punture in tutto il corpo, ma non posso fare altro che andare incontro a quella casa anche se vorrei girare l’auto e cambiare strada.
Mai in vita mia, né prima né dopo di allora, ho avvertito in maniera così netta e inequivocabile la presenza del Male. Il Male esiste, era lì quella notte, gli sono passato accanto, a meno di venti metri. Forse era distratto, forse non ha ritenuto valesse la pena di occuparsi di me, ma il Male che ho sentito emanare da quella casa era qualcosa di fisico di tangibile, quasi avesse un odore, una voce.
Quelle finestre, aperte su un buio che non aveva nulla di naturale, erano tante bocche spalancate in un urlo muto di disperazione senza fine, erano bocche senza denti, come quella di un vecchio bavoso,  pronte ad ingoiare qualsiasi cosa fosse loro passata a tiro e più  mi avvicinavo, più aumentava in me il terrore di essere fagocitato da quel buio e di non potermene più allontanare.
Non so quanto abbia impiegato a raggiungere il punto in cui la strada, sfiorata la casa, con una svolta a destra tornava ad allontanarsene, forse una trentina di secondi, forse meno, ma credo siano stati i trenta secondi più lunghi della mia vita.
Non meno lungo mi è sembrato il tempo nel quale, allontanandomi dalla casa, ho continuato a fissarla nello specchietto retrovisore per paura di esserne risucchiato.
Arrivato a casa, ancora scosso per l’accaduto, mi sono infilato sotto la doccia per tentare di lavare via quel senso di angoscia e cancellare quel freddo che ancora mi pervadeva.
Qualche giorno dopo, alla luce del sole, sono tornato in quel posto e, nonostante dalle finestre spalancate non trasparisse traccia di quel buio atroce, sono stato colto nuovamente dallo stesso brivido provato poche notti prima, brivido che avverto anche ora mentre, a distanza di anni, ripercorro, nel raccontarla, quell'insolita esperienza.

 
 
 
 

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