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Messaggi del 11/04/2008

Marta

Post n°223 pubblicato il 11 Aprile 2008 da Kaos_101
 

             Marta dei colori

Marta non conosceva il colore.

Daltonica sin dalla nascita viveva in un mondo in bianco e nero, stupefatta dalle mille tonalità del grigio.
Non si poteva definire una bambina vivace, Marta. Spesso passava ore seduta sotto una pianta a sfogliare un libro o distesa a pancia in giù a spiare le processioni delle formiche che tornavano incredibilmente cariche al loro nido. Talvolta si assopiva ascoltando i rumori che le provenivano dalla natura circostante e si risvegliava, calda di sole, con la consapevolezza di essersi addormentata nelle braccia accoglienti di una natura amica.
Marta non aveva bambole o pentolini con cui giocare e nemmeno bande di coetanei con i quali organizzare partite di calcio o interminabili faide; non aveva amiche con cui fare filò né amici con cui accapigliarsi.
Marta era speciale, come se quello che la natura le aveva sottratto nel colore glielo avesse restituito come capacità di aiutare le creature indifese spaventate e sofferenti. Un uccellino caduto dal nido, un cucciolo abbandonato, un animale ferito sapevano per istinto di potersi fidare di lei e lei, come per istinto, sapeva trovarli, rassicurarli e spesso porre rimedio alle loro pene.
Figlia unica di povera gente, considerava un privilegio la libertà che la vita in campagna le consentiva: i campi coltivati, il laghetto dietro la fattoria, il  bosco che chiudeva l’orizzonte erano per lei un immenso terreno di gioco da esplorare e di cui gioire.
Nata quando oramai i genitori avevano rinunciato alla speranza di una prole, Marta era cresciuta in un ambiente privo di coetanei. I suoi, oramai da troppo tempo avvezzi all’ottusa solitudine reciproca,  lavoravano duramente e sembravano circoscrivere la loro esistenza allo svolgimento delle faticose incombenze che la vita riservava loro: uscivano la mattina all’alba e rientravano a sera troppo stanchi per far altro che cenare e ritirarsi a dormire.
Certo, a Marta sarebbe piaciuto giocare con loro ma, fortunatamente, c’era nonno Michele a compensare almeno in parte quell’assenza.
Nonno Michele era il compagno preferito di giochi di Marta; era un omino piccolo e un po’ rinsecchito, con due vivissimi occhi grigi di quel grigio trasparente che se avesse potuto distinguerlo, Marta avrebbe definito un azzurro acquamarina.
Nonno Michele non sapeva né leggere né scrivere, ma conosceva una quantità di storie meravigliose, di aneddoti divertenti, di notizie utili sulla natura, le cose e gli uomini, che lasciavano sempre Marta estasiata.
Era lui che le aveva insegnato a distinguere gli uccelli e gli animali selvatici e domestici che li circondavano ed era ancora lui che le aveva fornito le nozioni di pronto soccorso così indispensabili per curare i suoi piccoli amici. Come quella volta che, subito dopo un violentissimo temporale, erano usciti a passeggiare nel bosco. Le foglie dei faggi e delle querce brillavano nella luce radente di un sole che squarciava le plumbee nubi rotolanti verso l’orizzonte, l’aria aveva un profumo di muschio di funghi e di legno bagnato, il gocciolio incessante era una musica delicata e rassicurante alle loro orecchie.
D’un tratto il nonno si fermò e, prendendo Marta per mano, le indicò, semi sepolta da foglie e ramoscelli divelti, una talpa.
L’animale, sicuramente travolto da qualche improvviso rigagnolo prodotto dall’acquazzone, giaceva inanimato e scomposto ai margini del sentiero.
Nonno Michele si inginocchiò e scrutandolo attentamente disse: “shhh, non è morto”; dopodiché estrasse dalla tasca posteriore dei vecchi pantaloni un insospettabile fazzoletto a quadri bianchi e rossi perfettamente pulito e stirato e, dispiegatolo sul terreno, vi adagiò sopra la bestiola immota.
Rialzatosi pose davanti agli occhi della bambina quel batuffolo di peluria fradicio e inanimato e, dopo averlo coperto col fazzoletto, iniziò a frizionarlo delicatamente.
A poco a poco, quasi come un risveglio da un lungo torpore, l’animale fu scosso da lievi  fremiti che via via  si trasformarono in un lungo brivido. Quando il nonno sollevò il lembo del fazzoletto, Marta vide la talpa, non ancora del tutto riavutasi, che annusava perplessa e preoccupata la mano che la sosteneva.
A chiunque abbia occhi appena allenati a guardare, e che non si fermi alla superficiale somiglianza con un topo, è evidente che le talpe sono animali gentili e graziosi.
La soffice e spessa pelliccia, la rotondità delle forme, l’andare titubante di chi non vede quasi nulla, suscitano una naturale tenerezza e, a maggior ragione, la suscitarono in quella bimba cosi sensibile e attenta.
“E’ viva!” esclamò la bambina distendendo in un radioso sorriso il volto incupito dall’apprensione e dalla curiosità. “Che bella! Nonno, ti prego, dammela! Posso tenerla con me?... Per piacere lasciamela accarezzare!”.

L’uomo si era rialzato e la bambina gli saltellava attorno gioiosa ridendo e battendo le mani.
“Gli animali non sono giocattoli creati per il nostro piacere”, disse nonno Michele col viso stranamente serio. “Ricordati Marta, per loro noi siamo mostri enormi e incomprensibili, già la nostra presenza e il nostro intervento, anche quand’è a fin di bene, li terrorizza”
Detto questo appoggiò la talpa, oramai ripresasi, in una pozza di sole ai margini del sentiero e riprese la passeggiata, tenendo per mano la bambina che continuava a girarsi per non perdere di vista quella goccia di piombo nella luce ambrata del tramonto.
Marta era una bambina speciale e,  quel giorno, senza ulteriori discorsi capì una verità fondamentale per la sua vita: se vuoi veramente aiutare qualcuno dagli quello che ti chiede e non quello di cui tu credi abbia bisogno. Questa semplice regola, un’abitudine a operare che non l’avrebbe più abbandonata, la colpì con la chiarezza di una folgorazione e la semplicità di una verità naturale e indimostrabile, facendole comprendere come la vera gioia fosse per lei la gioia degli altri e che la strada per ottenerla non attraversava i territori dell’autocompiacimento e dell’orgoglio.
Una bella mattina d’estate nonno Michele entrò nella sua camera e, spalancando le imposte, le intimò: “Su poltrona, in piedi! Oggi ti insegno i colori”.
Marta saltò a sedere sul letto stropicciandosi gli occhi e domandandosi che razza di avventura le avrebbe fatto vivere quella mattina l’amato nonno. Poi il significato superò  il torpore che ancora al pervadeva e la fece schizzare in piedi.
“Nonno lo sai che io non li posso vedere i colori!” disse lei, un po’ sorpresa dall’idea e rattristata dalla coscienza del suo limite.
“Che sciocchezza!”, replicò lui. “Una bimba che sa leggere e scrivere non può non vedere i colori”.
E sulla base di questa semplice e inconfutabile verità nonno Michele decise che Marta avrebbe imparato a distinguere i colori...

(continua...)

 
 
 
 

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