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Gianni Marchetti Una donna cosi Torino Poesia 2008

Post n°31 pubblicato il 02 Luglio 2008 da foudefois

Una donna così

 

A quella donna ho concesso il dono

Di amarla gratuitamente

Esserne cococodipendente

Spendere in saldi i soldi

Del conto corrente

Perdendo allegramente

Il conto delle assenze

 

A quella donna non ho chiesto ragione

Giustificazione

Una domanda una carta assorbente

Lei è stata  supplente

Di lato di sopra e di sotto

Al niente

 

Per una donna così fai tutto

Anche le rime

Anche le canzonette

 

 

Quella donna l’ho serigrafata

Dattilografata con dita di ferro

E cartocarbonata mille volte

In copie sempre più nitide

In mani sempre più sporche

In carte appallottolate

In dozzine di matite temperate

In lentissime ore di straordinario

 

Quella donna lì io l’ho lavata anche sotto

Stirata in ogni sua piega

Laccata in ogni  sua messa in piega

Stesa ad asciugare nuda

In un posto riparato da invidie

E pieno di sole saggiamente filtrato

E spalmata da maschio prudente

 

Le ho comprato in fiera uno stendibiancheria

Mai usato

Che abbiamo poi  ripiegato e mai spiegato

L’ho colorata in arancione quando virava al marrone

 

L’ho mostrata a persone

Che hanno lasciato cadere la cosa

Che non mi hanno dato ragione

Inarcando le sopracciglia e

Rimettendosi a posto il pacco

 

L’ho restituita al mittente

L’ho prestata a gente che non  voleva

Più ridarmela indietro

Ho riscosso il mio credito con calci e pugni potenti

L’ho presa in ostaggio nella mia mancanza di coraggio

L’ho riscattata svendendo in nero uno dei due coglioni a un ricco straniero

L’ho prostituita alla mia  voglia di strafare

Le ho fatto del male alla vigilia di Natale

 

 

Ho cercato di infilarla nelle pagine di una

Rubrica senza numeri telefonici

L’ho chiamata al numero nuovo delle sue cellule

E in quel periodo c’era la segreteria telefonica

L’ho abbronzata allo scotto della rinuncia

L’ho rotta

L’ho ricucita

L’ho sbiadita

L’ho abbozzata

L’ho rifinita

Le ho fatto far finta di tutto

Abbiamo giocato a imporci

Protesi inutili

Ma spassose

 

Mi ha fatto prestare dei soldi

Per farmi rifare i denti

Le ho rifatto il mondo con lei dentro che dormiva

Le ho fatto credere che soffriva perché era sensibile

L’ho fatta sentire passiva

Ma niente serviva

Non l’ho mai pagata

Non l’ho piegata

Non l’ho spiegata a se stessa

Non l’ho ripiegata

Non me ne farò una ragione

 

A quella donna  ho voluto dare un posto

Un corso

Le ho voluto dare  un vano

In cui inginocchiarsi a pregare

O a succhiare

Le ho dato una speranza di cui

Non ha mai avuto bisogno

Una cittadinanza nel mio deserto

Le ho dato una stanza tutta per sé

A quella donna ho tirato fuori il latte

Ho soffiato il naso

Ho pulito il culo

Ho riempito il vuoto

 

Ho detto di sì al Grande Viaggio di notte per Mare

Ho fatto carte false

Portando il suo odor come un blasone

Ho rifiutato di fare la distinta coppietta

Ho fatto finta di essere il suo protettore

Mentre lo ero davvero

Ci siamo sputtanati puttanizzati  abbiamo fatto amicizia

Con l’ex troia del porno shop

Che suona la sveglia ai vecchietti addormentati nella cabina del

peep-show

 

Quella donna mi ha chiesto tutto e io gliene ho dato il doppio

Quella donna mi ha chiesto di esserci

E io ci sono stato settanta volte sette

Mi ha chiesto di farla

E io ci ho provato continuamente

Finché non mi è venuta bene

Anzi benone

Mi ha chiesto di amarla e io ci sono cascato

Mi ha chiesto coraggio e io mi sono rialzato

 

Mi chiesto di piangere con lei

Di perdere tutto

Di andare a  braccetto al nostro funerale

Di nasconderci dietro a un cipresso

E fare sesso orale

Ed è stato

Non male…

 

Quella donna mi chiesto di annusarla

Mi ha chiesto di bucarla

Di legarla

Ad un palo d’acciaio sotto il temporale

Di portarla dove poteva perdersi

O farsi violentare da un malintenzionato

 

Mi ha chiesto di fare il bucato

Di spremere agrumi

Di scioglierla e di coagularla

Di raddoppiarle la flebo

Di attaccarci le malattie

E ci siamo sputati in bocca

 

Di morire con lei

 

 

Per la prima volta

Su una cosa importante

Le ho mentito

Le ho detto

Ancora

Di sì

Di andare avanti lei

Che avevo bisogno ancora

Di un verso

Ancora di uno minuto

In cui avrei finito

Una donna così

Di pensarla

Di schizzarla

 

Di cancellarla

 

 
 
 

ESCE IL LIBRO DI POESIE DI GIANNI

Post n°29 pubblicato il 17 Febbraio 2008 da foudefois
 
Tag: gianni

FOIS PEOPLE, NUNTIO VOBIS GAUDIUM MAGNUM, ESCE IL MIO PRIMO LIBRO DI POESIE PER TORINO POESIA.  SI INTITOLA "UNA DONNA COSI' - Poesie circolari e rettilinee. E qualche blues.". PER CHI VOLESSE SAPERNE DI PIU' : www.torinopoesia.org cliccare su edizioni e poi su LE VENE (che sarebbe la collana in cui compare il mio libro).  Mi sembra che il blog languisca ( o langua?)non poco. Mi piacerebbe organizzare una presentazione a Bologna. Qualcuno può darmi una mano? (CON CALMA) Un abbraccio a tutti!

Jean Defois

 
 
 

Un piccolo dono agli amici di Bologna.

Post n°28 pubblicato il 26 Settembre 2007 da foudefois
 
Tag: gianni

 SERENA

Era il papà. No.

Era la mamma.

Serena si accucciolò a più non posso, nell’angolo estremo del letto, quello sinistro, dove il muro baciava l'altro muro e lei aveva appiccicato una cicca che per tirarla via era venuta via la vernice. Doveva prenderle quella volta lì. Mamma incaricò papà, ma papà era troppo buono. La graziò. Lei lo ringraziò. E l’avrebbe ringraziato per tutta la vita.

Serena aveva sperato che fosse papà. Perchè le piacevano di più le favole raccontate da lui. Perché lui le inventava o credeva di inventarle. Poi alla fine erano sempre la stessa favola. Da metà in poi prendevano una piega che ormai Serena sapeva a memoria dove portava. Erano storie di animali in difficoltà per un carattere bisbetico, una deficienza congenita, un topo che si era incastrato nell’esofago, un dente che si era conficcato in un tronco appena segato. Poi arrivava lui, l’eroe, Oliviero Colombo Sincero e sistemava tutto. Serena ascoltava rapita la prima parte della favola raccontata da papà, che somigliava alle altre storie raccontate da papà. Assomigliavano a papà. Poi lui cominciava a sbadigliare e a confondere i personaggi per il sonno. O forse per il buio. O forse perché mamma lo aspettava di là. Serena si accorgeva quando mamma spegneva la luce e papà cominciava a confondere i personaggi e a sbadigliare. Allora saltava via dall’angolo della cicca appiccicata e correva attraverso la porta lungo il corridoio buio fino alla cucina, fino al frigo che aveva appena imparato ad aprire, lo apriva e prendeva la bottiglietta di birra. Poi tirava il cassetto e rovistava fino a quando non gli veniva in mano il cavatappi marchiato Menabrea. La birra del papà. Una birra che non c’è più.

Tutto al buio apriva la birra. Tuta eccitata correva in camera e la porgeva a quell’ombra che seduta di fianco al suo letto, tirate due golate, riprendeva la fiaba dal punto dello sbadiglio e la portava fino a dove Oliviero arrivava in soccorso al topo inghiottito dall’ ippopotamo, all’ippopotamo impantanato nella palude col coccodrillo che stava arrivando o all’aquila che stava precipitando da tremila metri per un colpo di sonno.

Poi si rificcava nel letto già quasi addormentata, papà beveva d’un fiato la birretta. Finiva in fretta la fiaba. Oliviero allontanava con uno stratagemma il coccodrillo dall’ippopotamo impantanato, svegliava l’aquila prima dell’impatto col suolo, faceva un rutto e poi la baciava sulla guancia e lei si addormentava. Papà sapeva di birra. Serena non sapeva ancora che la birra fosse amara.

Poi papà andò via per un po’ e mamma le raccontò che era andato a salvare un suo militare che era salito su un traliccio dell’alta tensione e stava per restare fulminato.

Mamma aveva insistito perché la loro bambina si chiamasse Serena. Papà aveva dato il suo consenso senza opporsi, non si capisce perché la mamma continuava a ripetere che “lei aveva insistito, aveva fermamente voluto, aveva combattuto perché la sua bambina si chiamasse Serena”. Serena non aveva mai capito perché, contro chi, la mamma avesse dovuto combattere per chiamarla con quel nome come se uno che lo chiamano Felice debba per forza avere una vita tutta felice. Tutta felice come una Pasqua. Papà faceva ridere quando faceva quei ruttoni. Ma non voleva che si ridesse. Anzi voleva che si facesse finta di niente. Serena l’aveva capito subito e faceva finta di niente. Si tappava il naso per non ridere, tanto al buio papà no la vedeva che si contorceva e rideva con le labbra, tappandosi il naso. Quando però papà aveva finito la storia di Oliviero e si chinava per baciarla lei non rideva più. Anzi, si sentiva seria come la principessa sul pisello. Quella principessa che non rideva mai. Quelle principesse che comparivano nelle fiabe della mamma. Che sapeva soltanto le fiabe del libro delle fiabe, quelle fiabe coi rospi,  i lupi e le volpi, quelle fiabe che finivano sempre bene,  con la pancia del lupo pieno di mattoni e pinocchio che finalmente diventava un bambino in carne e ossa. Serena si era quasi innamorata di Pinocchio. Avrebbe voluto tenerselo con lei nel lettino e accarezzargli il naso tutta la notte, dopo che papà era tornato di là con la mamma. Dopo che la mamma l’aveva chiamato due volte. Dopo che le aveva dato il bacio e dopo che Oliviero aveva tolto il topo incastrato nell’esofago e dopo che la birra era finita e la notte incominciava per davvero con quelle favole strane dove  non c’era più scampo per nessuno delle volte e le torri crollavano e Serena cadeva a testa in giù nel vuoto o si ritrovava nuda sul balcone piena di vergogna e urlava perché le aprissero la porta a vetri del balcone e la facessero andare a prendere la birra per papà. Nel frigo. O quando sognava di svegliarsi nel frigo.  Quando si svegliava nel freddo umido. Che l’aveva fatta nel letto. E mamma si arrabbiava. Papà non s’arrabbiava più. Papà era via. Era andato a salvare il commilitone fulminato sul palo della luce in Medio Oriente.

Mamma stirava le divise di papà, ma non accendeva più la radio.

Mamma ritirava in una valigia di cartone verde le camicie di papà ma non cantava più.

Mamma non raccontava più le favole.

Papà non aveva ancora finito di tirare giù dal traliccio il ragazzo in divisa che aveva toccato i fili della corrente.

In frigo erano rimaste sei birrette marroni. Gelate.

Bisognava spegnere la luce per non consumare. Ma Serena poteva tenerla accesa un po’ di più prima di addormentarsi e poteva mangiare le cicche e aveva provato ad appiccicarne una sul muro e la mamma l’aveva vista e la cicca era diventata dura e la mamma non si era arrabbiata, la mamma non si arrabbiava più, la mamma faceva la mamma e faceva anche il papà. Andava a pagare le bollette, discuteva col signore che era venuto ad aggiustare lo scarico del lavandino. E aveva fatto lo stupido uscendo: “un giorno te lo spiegherò cosa vuol dire fare lo stupido con una signora, disse la mamma alla serena. Una volta la mamma fece anche un rutto. Risero a crepapelle tutt’e due.

Allora Serena ne approfittò, che la mamma rideva e  le chiese di raccontarle lei le favole, intanto che tiravano giù il papà dal palo della luce.

“Ma il ragazzo l’hanno tirato giù?”, chiese Serena.

“Sì”, rispose mamma.

“Il papà gli ha salvato la vita, a quel ragazzo. Solo lui ha avuto il coraggio di salire lassù e staccare il ragazzo dai fili”

“Come Oliviero”

“Oliviero?”, chiese la mamma a Serena che masticava una cicca che erano tre cicche impastate insieme ed erano durissime da masticare.

“Non mandarle giù”, disse la mamma.

Serena non aveva più bocca per rispondere.

“Sputala”, disse la mamma.

Serena scosse la testa.

“Sputala!” ordinò la mamma.

Serena continuò a masticare riempiendosi la bocca di saliva.

“Sputala o te la faccio sputare a suon di sberle!”, urlò la mamma.

Serena tirò fuori la lingua con appoggiata su la cicca gigante. Poi ritirò la lingua in bocca come il camaleonte quando mangia l’insetto, come le aveva raccontato il papà quella volta che non c’era più nemmeno una birra in frigo e lei era tornata in camera con un chinotto.

“Sputala Serena o come è vero Dio ti schiaccio sotto i tacco come è vero Dio ti ci appiccico io al muro e non ci sono santi che ti vengono a staccare, com’è vero Dio ti faccio a pezzi e di faccio venire a prendere dall’idraulico”

Serena sputò la cicca perché l’idraulico non ce lo voleva più in casa. Tra poco sarebbe tornato papà e quel l’idraulico papà l’avrebbe fatto a pezzi, com’è vero Dio, quell’idraulico lì  l’avrebbe appiccicato al muro, quell’idraulico lì che aveva fatto lo stupido con una signora. Chissenefrega della cicca.

“Però adesso mi racconti una fiaba, se no me la rimetto in bocca….”

“Va bene”

“Posso appiccicarla al muro, nell’angolo del lettino?”

“Va bene”

Vabenevabenevabenevabene. Quando si dice, così pensò Serena, …vabbè. Vabbè. Vabenevabenevabene. Bon.

La mamma si sedette sulla sedia impagliata della nonna.  Con le mani sulle ginocchia, gli occhi un po’ sbarrati. Senza orecchini e col fazzoletto ricamato stretto in una mano. Aveva un maglioncino nero e la gonna nera con una macchia di unto all’altezza della coscia sinistra. Niente rossetto. La stufa era spenta. Il frigo borbottava. Forse la mamma voleva piangere.

“Serena…ti voglio bene. Ma andiamo a letto, ti prego”

“Mi racconti la fiaba di Oliviero?”

“Non la so. Papà, la sapeva”

“Un’altra”

“Un’altra , sì. Non vuoi niente da mangiare?”

“Ho mangiato la cicca”

“Cicca non è mangiare”

“Perché hai combattuto per chiamarmi Serena?”

“Perché non sapevo quello che sarebbe capitato”

Serena non insistette sul nome. Ma sulla fiaba sì.

Mamma si sedette di fianco al letto dove Serena si era accucciolata dopo essere rimasta in mutandine e canottiera. Quella con le fragole.

Anche la mamma andò di là a mettersi la camicia da notte e tornò nella stanza di sua figlia. Col fazzoletto stretto nell’altra mano. La mano cattiva. Quella che non si bisogna usare mai, né per scrivere, né per impugnare la forchetta. Mai.

La mamma cominciò la fiaba.

“C’era una volta una volpe”

”La volpe è furba”, interruppe Serena.

“Sì”

“Questa volpe furbissima, aveva un intuito straordinario. Non c’era neanche bisogno di dirle le cose”, continuò la mamma.

“Le capiva”, disse la bambina.

“Sì”

La mamma era avvolta nel buio. La sottoveste era nera.

“Dove stava, di casa, la volpe?”

“In quel posto là dove…”

“Dove c’è l’uva…?”

“No, quella è un’altra fiaba. Una fiaba che io non conosco”

“Allora dove?”

 “Dove si aspetta…”

“Cosa?”, chiese Serena.

“Dove si aspetta e basta”

Forse la mamma piangeva.

“Il lupo?”, chiese Serena.

La mamma si passò il fazzolettino ricamato del corredo dalla mano brutta a quella bella, poi se lo strofinò su un occhio. Il frigorifero borbottava in cucina. Tutte le luci erano spente. Forse la mamma non sapeva come continuare la fiaba

“Il lupo si faceva aspettare.”

“Cercava di salvare un tasso che era rimasto  impigliato in un cespuglio di spine”, continuò Serena.

“La sai già?”, chiese la mamma..

“Forse…prova ad andare avanti”

“La volpe aspettava, e intanto si lisciava il pelo rossiccio e si spruzzava un po’ di deodorante sotto le ascelle”

“Perchè le volpi hanno un odore forte…”

“Un odore forte, sì.”

“Ai lupi piace”

“Ai lupi piace da matti”

“E’ difficile da raccontare ‘sta favola qui. Un giorno la capirai meglio, senz’altro…”

“Come la storia dell’idraulico”

“Sì ma l’idraulico faceva lo stupido. Il lupo…”

“Il lupo è il lupo.”

“Il lupo è il lupo…”, confermò la mamma.

“Perché hai dovuto lottare per chiamarmi Serena?”

“Boh…Ho fatto male?”, chiese la mamma sbadigliando.

“Hai fatto bene”.

Poi la mamma si appoggiò la mano cattiva sulla pancia. Ma non proprio. Un po’ più in basso. E fece il gesto della volpe che si lisciava il pelo rossiccio, aspettando il lupo.

Serena stava per addormentarsi. Aveva già incominciato ad immaginare di accarezzare il naso di Pinocchio. Poi la mamma si zittì di colpo.

Allora lei si ridestò dal dormiveglia. Balzò dal letto e corse in cucina, per prendere la birra. Come faceva con papà..Aprì la porta del frigo, ma non trovò neanche più una birra.

Tornò in camera sua.

La sedia era vuota.

Staccò la cicca dall’angolo e se la rimise in bocca. 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 

DECOMPRESSIONE

Post n°27 pubblicato il 12 Agosto 2007 da foudefois
 
Foto di foudefois

Qualcosa cade, qualcosa si muove, qualcosa rimane fermo, la musica non finisce mai, le letture nemmeno e la scrittura nemmeno a pensarci. Partirò nuovamente per il sud, intanto auguro una buona decompressione a tutti. Tornerò a settembre. Vi voglio bene.

 
 
 

MILANOTIAMO

Post n°26 pubblicato il 23 Luglio 2007 da foudefois
 

Esco, la calza smagliata, i tacchi a spillo sull’asfalto, il trucco sfatto, all’alba attraverso il ponte sui navigli.

Sotto, l’acqua scorre placida. Silenzio. Nessuno sulla Ripa. Un gatto sull’Alzaia, mi guarda e se ne va.

Solo. Come me.
Notte d’amore, notte di passione.
Ci rivedremo o no?
Il tuo sapore sulla mia pelle. Tracce di saliva, attimi di vita.
Ieri notte. Tua moglie, il mio compagno lontani. Per una volta. Per lavoro.
E io e te. Finalmente soli. Per tutta la notte. La nostra notte.
Amore mio dolcissimo. Ceniamo insieme. Mi vesto bene, autoreggenti, parrucchiere, trucco, reggiseno della Perla. Per te che lo slaccerai, lo strapperai forse baciandomi i capezzoli?
Ma è già successo? O ancora deve accadere?
Non so più. Non mi interessa.
La cena, non mi hai portata in un ristorante defilato, hai scelto quel bel posto giapponese, nello spazio Armani.
Non riesco a mangiare, ti guardo negli occhi come tu guardi me.
Usciamo. Passeggiamo un po’. Abbracciati. Arriviamo a piazza della Scala, ora è bellissima, la Galleria, cerchiamo un taxi davanti al Duomo illuminato.
Taxi. Mi baci. Ti bacio. La tua lingua si intreccia alla mia lingua. La tua mano sul ginocchio mi accarezza.
Via Torino, le colonne di San Lorenzo. Quanta gente fuori, nella piazza, i motorini parcheggiati disordinatamente: stasera non c’è la polizia.
Corso di Porta Ticinese, è una serata calda, coppie di ragazzini che passeggiano con una birra in mano.
Scendiamo accanto alla darsena, i negozietti con le serrande abbassate, fiori per terra fuori dal chiosco chiuso.
Poi il portone, la corsa per le scale, la tua casa di ringhiera.
Mi rincorri, ti rincorro, ti cadono le chiavi, apri la porta.
Mi baci, infili la mano tra le mie gambe, accendi il camino.
Il colore del fuoco, le tue braccia attorno ai miei fianchi, il calore dentro di me.
Le giacche buttate lì per terra, come corpi morti.
Il mio collo, lo baci dappertutto.
Togli la giacca, ti slaccio i bottoni ad uno ad uno, baciandoti la pelle nuda, ti mordo ma non lascio segni, accarezzo la tua nuca.
Sfili il mio vestito nero, mi sento bellissima, così, davanti al fuoco, con le tue mani dappertutto.
Mi guardi. Ti guardo.
Slacci il reggiseno, sfili le mutandine, mi lasci solo con le calze autoreggenti.
Per poco, però. Strappi via anche quelle, me le smagli.
In un attimo sei nudo. Dentro di me.
Fuori la città è sveglia, il rumore, i locali notturni, gente che beve fino a notte fonda.
E noi dentro le tue quattro mura, soli, neanche la musica.
Sento il tuo respiro come un suono, incostante, denso, affannoso, il peso del tuo corpo su di me per terra.
Poi mi baci e mi ribaci. Mi stringi tra le braccia e mi accompagni in camera.
Stiamo al caldo, abbracciati, sto appoggiata a te, non so se riesco a prender sonno. Sogno.
Sogno di te e di me. Di una passeggiata fuori, di una stanza che non sia un albergo, di una casa nostra.
E’ l’alba, esco da casa tua.
Ci tornerò? Chissà.
La nebbia avvolge le mie sensazioni.
Ti amo o no?
Che cosa importa?
Quello che importa è la notte, la nostra notte, che è stata o che sarà.
E la mia Milano. Mi avvolge, mi circonda, all’alba è bellissima.
Io sono qui. La mia città è qui, attorno a me con il suo abbraccio e il profumo di pane da una saracinesca abbassata.
Inizia un altro giorno.
Il battito del cuore, del MIO cuore, è in pace.
La città, la mia città, il mio amore.

 
 
 
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Un blog di: foudefois
Data di creazione: 03/07/2007
 

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