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« primo bacioIl cielo »

L'architetto

Post n°20 pubblicato il 19 Luglio 2007 da foudefois
 
Tag: lorenzo

I. Architettura è la scienza appresa dai luoghi e dal loro disporsi ordinati ed immobili ad accogliere la nostra opera, e compito dell’architetto è tornare a contemplare quei luoghi, guardarli insieme dall’alto, di lato, da un colle vicino, stabilire per essi una finalità e mettere mano ai loro cambiamenti. Nei deserti di Siria – nei ricordi d’infanzia – i nostri padri scolpirono via dai graniti colonne e stanze, finchè le rocce non divennero templi: allo stesso modo il mio ponte a Drubeta io volli che fosse quasi figlio dell’Istro, e tornato a Roma mi applicai ad adagiare il versatile laterizio sulle imperfezioni del terreno, e così mi piacque.

II. Testimoniare ancora più cose – tuttavia – e mostrarle più chiaramente, e definirle con maggior precisione non mi è possibile in questo momento, e non si creda dunque che queste carte stiano come l’eredità di un vincitore e intendano prolungare nel tempo parole sagge: a volte il lavoro dell’uomo si rivela essere stato nient’altro che un’ombra. Mi sento stanco sul finire dell’estate, l’undicesima dall’elezione del nostro principe e la terza dal suo trionfo, mi sento stanco e questa è forse l’unica cosa vera e degna d’esser detta: mai prima dell’ultima stagione che già trascorre e si perde, mai prima d’ora neppure immaginai che intorno a un’arte ci si potesse ingannare e confondere a tal punto.

III. Dieci giorni fa completammo le volte forate, stese al livello della piana soprastante, ma solo ieri si finì di levare i resti del cantiere, e adesso in tutto il padiglione – per quanto numerosi siano ancora i suoi splendori, i suoi vani, gli anfratti e i passaggi – non troveresti più niente se non cataste di oggetti inutili, più nessuno se non topi o architetti delusi. La lanterna in una mano, appoggio l’altra sui muri contenitivi del giardino ad occidente: sono dritti, slanciati e potenti come devono essere, li posso dire belli, levigati e leggiadri come li pensai all’inizio, e mi sovviene la certezza che, pur destinati a restare visibili soltanto dagli inferi, la loro maestria vale più di un’intera biblioteca. Mi incammino verso il portico da cui ancora rimane un’uscita che dà sulla valle – conosco il percorso a memoria, e infatti evito di guardare all’intorno ciò dentro cui per troppi mesi, fino alla noia, sono stato costretto a vivere. Domani saremo pronti per gettare la terra a nascondere questo delirio.

IV. Eppure ho tanto viaggiato, e forse più di chiunque altro della mia età ho osservato città, fiumi, montagne, regioni, ho goduto di quanto vedevo e, nel vedere, imparavo. E mi sono dato con impegno alla lettura e agli studi, e ho tratto quanto ho potuto da poeti, storici e tecnici, svolgendo e rivolgendo di continuo i loro libri: a cavallo in esplorazione di qualche confine, attendato nei freddi notturni prima delle battaglie, o all’impiedi sopra vittoriose macerie. Eppure ora conosco bene i materiali e i loro usi, dove intaccare la pietra a seconda del bisogno, come unire tra loro le forme del legno, so mescolare le tinture, usare i trapani, puntare i contrappesi, valutare le distanze, e posso con orgoglio mettere il mio nome su quel che ho disegnato. Ma come c’è sempre stato qualcosa a rendere le mie soddisfazioni più spesso fanciullesche che razionali, e a far sì ch’esse costituissero la differenza tra me e i generali che servivo, così oggi senza motivo mi risiede nel petto lo sconforto, e l’animo tutto, ormai simile a questo luogo, è vuoto e disposto ad essere seppellito.

V. Che sarà del mio lavoro? Le guerre – si sa – esigono anche marmi e stucchi come vittime, ma lo stesso paiono fare anche le pacificazioni, se è vero – come ormai credo – che per costruire bisogna prima distruggere. L’orgoglio per aver dedicato la mia opera al principe, la consapevolezza ch’egli è un principe buono e che ancora a lungo ripagherò della sua protezione, e tutte le disposizioni favorevoli che mi posso figurare si spengono – è già qualche mese – ogni volta che, vagando per quartieri poco frequentati, mi imbatto in gramigne sopra balaustre inutili, o in forti radici che strapiombano i muri dalle fondamenta, o in ambulacri scoperchiati, in fontane asciutte, in lastricati sconnessi, in case senza più padroni, in templi senza più dèi. L’architettura è un’arte e, come tale, si può ridurre facilmente a un elenco di elenchi. Esco nell’umida desolazione della valle e lascio per sempre il rifugio dei topi che un tempo fu il più splendido tra i palazzi: forse in futuro vi sarà qualcosa di ammirevole persino nella palude che qui sotto i miei piedi assorbe e smorza la luce della sera.

***

[Quando Traiano commissionò al proprio architetto - militare, in origine - l'edificazione di un nuovo e grandioso complesso termale, Apollodoro di Damasco optò per una collocazione di esso sui colli Oppio ed Esquilino, e decise di operare innanzitutto sulle pendici meridionali di quest'ultimo, all'epoca occupate dai ruderi maledetti di un'ala della domus neroniana detta "aurea". Quel padiglione della domus fu così livellato a raso del sommo collinare e, colmato di terra, venne a costituire parte delle fondamenta per il nuovo progetto. Le Terme di Traiano, delle quali non è sopravvissuto granché, furono completate verosimilmente nel 109; l'azione (?) che propongo è dell'anno precedente.]

 
 
 
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Data di creazione: 03/07/2007
 

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