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Le leggi dell'economia alla prova del caso italiano

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Per chi fosse ancora interessato a riflettere su argomenti diversi dagli scontrini o dalle polizze vita (permettete la volontà di scherzare che ispira anche l'immagine che accompagna questo post)... possiamo segnalare un interessante post pubblicato alcuni mesi fa sul sito di Gennaro Zezza (http://gennaro.zezza.it/?p=1957) significativamente intitolato "Produttività e occupazione".

Gennaro Zezza, economista di cui ci siamo occupati nei mesi scorsi segnalando alcuni link a sue interviste pubblicate online, ha lavorato in questi anni principalmente sulla Grecia. Ma nel post che è sopra riportato, egli ci parla di Italia. Lo spunto per il post, come si può leggere dal testo, Zezza lo trae dal libro di Assa sulla finanziarizzazione del PIL, basato sulla tesi che i servizi finanziari non dovrebbero entrare nel calcolo del PIL giacché questa componente dell'economia non rappresenta un valore aggiunto, bensì un costo. La tesi di Assa sembra francamente molto spinta. Ciò che può dirsi è che, comunque, trattasi di un settore, quello dei servizi, quantomeno a scarso valore aggiunto.

Correttamente, Zezza, però, ci dice che depurare il calcolo del PIL da questo tipi di servizi aiuta a comprendere meglio la dinamica produzione/occupazione.

Vediamo, per sommi capi, cosa dice Zezza:

1) dopo il 2007 la crescita dell'economia è stata trainata principalmente dal settore finanziario;

2) dopo il 2007, la caduta più brusca si è avuta nel settore non finanziario;

3) con la crisi, si è avuta una sostituzione di unità di lavoro a tempo pieno con unità di lavoro a tempo parziale;

4) la crescita dell'occupazione (a tempo parziale) non ha determinato una crescita del valore aggiunto, sicché si è avuta una perdita di produttività;

5) se si va a guardare il problema in rapporto alla Germania, si nota che l'Italia, sia pure su un sentiero più basso, mantiene un buon rapporto unità di lavoro/prodotto nel settore manifatturiero; diversamente, la componente cala nel settore dei servizi, settore che è più ampio in Italia che in Germania.

Aldilà della conclusione sul jobs act, che pure era intuitiva, viene spontanea un'osservazione. Cioè che sarebbe interessante ampliare il ragionamento, andando a guardare la serie storica dei dati su occupazione e produzione in Italia dopo il 1999, specialmente fino al 2007.

Se ne ricaverebbe: 1) una conferma del ragionamento di Zezza, anche dal punto di vista della storia economica nazionale; 2) alcuni interrogativi; 3) e alcune linee guida per i decisori politici (che a tutt'oggi sembrano impegnati soltanto con gli scontrini e le polizze vita).

Come si vede dai grafici e dai dati riportati su http://www.indexmundi.com/g/g.aspx?c=it&v=74&l=it, il tasso di disoccupazione era pari nel 1999 all'11,5% e nel 2007 era sceso al 6,2%. Parallelamente, può notarsi, sempre in base ai dati riportati su http://www.indexmundi.com/g/g.aspx?c=it&v=66&l=it, che gli anni dal 1999 al 2007 hanno registrato una crescita del PIL. Conseguentemente, si osserva, mettendo a confronto grafici e tabelle, che produzione e disoccupazione, sia prima che dopo il 2007, seguono lo stesso andamento. Ne segue una prima conferma della relazione tra produzione e disoccupazione, espressa fondamentalmente dalla legge di Okun per cui una crescita della produzione determina una riduzione della disoccupazione. Vari approfondimenti hanno poi portato a precisazioni di questa dinamica, secondo i sistemi economici, per cui ad esempio una crescita superiore al tasso potenziale determina una riduzione della disoccupazione più che proporzionale.

Il problema del caso italiano è che andando a leggere i dati si vede una diminuzione della disoccupazione sostanzialmente della metà in soli 8 anni, a fronte di una crescita del PIL che raramente si attesta sopra il 2%.  Tra l'altro, chi ricorda gli anni del Governo Berlusconi (2001-2006) non potrà far a meno di rammentare che furono caratterizzati da un basso tasso di crescita (per tre anni, almeno, la crescita fu pari quasi a zero).

Ne segue, anche solo intuitivamente, che il tasso di crescita potenziale dell'economia italiana dev'essere alquanto basso se in così pochi anni si è riusciti a dimezzare il tasso di disoccupazione a fronte di tassi di crescita del PIL francamente non esaltanti.

Proviamo ora a guardare, senza bisogno di entrare in troppi dettagli, grafici e documenti, la questione dalla prospettiva della legge di Kaldor-Verdoorn, in base alla quale a un aumento della produzione corrisponde un aumento della produttività e viceversa.  In quest'ottica, vedendo i dati sopra esposti dal lato opposto della "linea", notiamo che a un incremento dell'occupazione di notevoli dimensioni è corrisposto un basso incremento della produzione. Per questa via, ne deriva che il ragionamento di Zezza (sia pure solo abbozzato), che parte dal 2007, può essere esteso anche alla situazione macroeconomica ante 2007, segno, questo, che l'economia italiana, aldilà della crisi economica internazionale post-2007, soffre di un problema strutturale di lungo periodo. Ossia di una bassa crescita della produttività.

Possiamo affermare che questi dati smentiscono la validità della legge di Kaldor-Verdoorn, perlomeno nel caso italiano? La risposta pare di no. Soprattutto perché a un basso tasso di crescita della produzione corrisponde, in effetti, un basso tasso di crescita della produttività. In secundis, perché il problema sembra piuttosto risiedere, alla luce dei dati riportati da Zezza, nella composizione del sistema economico italiano. Il tasso di produttività per addetto in Italia è più alto nel settore manifatturiero. Del resto, se prendiamo il termine produzione nel suo significato "classico" vediamo che produzione corrisponde a produzione manifatturiera, ambito in cui la relazione espressa dalla legge di Kaldor-Verdoorn è massima (http://www.economiaepolitica.it/politiche-economiche/la-legge-kaldor-verdoorn-e-attuale/).

Il problema dell'economia italiana sta, dunque, da tempo e ben prima del 2007, in un accentuato spostamento del sistema economico nazionale dal manifatturiero ai servizi. 

Giunti a questo punto, sempre ammesso che il lettore non abbia trovato di meglio da leggere circa scontrini e polizze vita, potremmo porre alcune domande e, nella risposta a queste, trarre alcune conclusioni:

1)  quando è avvenuto che il sistema ha subìto questo spostamento dal manifatturiero ai servizi?

2) quali sono le conseguenze di questo spostamento?

Sulla scorta dei dati offerti, si potrebbe sostenere che lo spostamento in parola è avvenuto intorno all'inizio degli anni 2000, in coincidenza ad esempio con l'entrata in vigore della normativa sulla precarizzazione dei rapporti di lavoro. In verità, l'analisi è limitata non tenendo conto delle serie storiche antecedenti al 1999. Con ogni probabilità, il fenomeno è molto più di lungo periodo e proviene quantomeno dalla seconda metà degli anni '70 del XX secolo. Si tratta, in altre parole, di una tendenza dell'economia italiana, dopo la fase di industrializzazione del Paese e la crescita post seconda guerra mondiale, a reagire alle crisi economiche internazionali (con ciò intendendosi anche le reazioni del sistema economico nazionale agli shock causati dal processo di integrazione economica in Europa).

Quali le conseguenze? La conseguenza principale è stata la creazione di un sistema economico sostanzialmente duale. Da un lato un sistema manifatturiero, che richiederebbe un proprio sistema organizzativo. Dall'altro un sistema dei servizi, che richiederebbe, per contro, un proprio (e diverso) sistema organizzativo. Un sistema di tal fatta è in pratica ingovernabile poiché, in funzione del principio di uguaglianza, un lavoratore è un lavoratore, che lo sia nel manifatturiero o nei servizi. Ciò significa stendere su un sistema economico fortemente asimmetrico regole uniformi, così contribuendo ad aumentare gli squilibri anziché risolverli.

Questo discorso non ne fa venire alla mente un altro? Beh, non certamente scontrini e polizze vita (anche se c'entrano pure queste, ma il discorso ci porterebbe ancor più lontano) ma la polemica tra lavoratori garantiti e non garantiti. Vista in questa luce, però, questa "polemica", volendo costruita ad arte (per il fine a cui mira e non per le sue basi reali), affonda le sue radici in problemi storici dell'economia italiana. E, oltretutto, per come la situazione è stata descritta prima, pare irrisolvibile e dannosa per il sistema economico oltre che per il sistema giuridico nazionale. Se applicassimo le regole proprie del sistema dei servizi a tutto il sistema economico, ciò vorrebbe dire spingerlo verso una completa terziarizzazione, ovvero verso un collasso sistemico.

ll secondo problema è che, in questo contesto, l'economia italiana è e sarà sottoposta ad oscillazioni cicliche, come quelle sperimentate negli ultimi 20 anni, dal punto di vista della disoccupazione. Ma appare legittimo ritenere che quest'oscillazione colpirà segnatamente i lavoratori dei servizi (piuttosto che i lavoratori degli altri comparti) e non certo per un problema di regole, bensì per un problema di strutturazione del sistema economico. E la loro disoccupazione non potrà essere riassorbita, senza interventi strutturali, dagli altri comparti economici, a partire dal manifatturiero, stante la situazione descritta finora (il che ci riporta al discorso fatto in occasione del commento a proposito della sentenza della Cassazione sul licenziamento per giustificato motivo oggettivo intorno alla scarsa dinamicità in entrata, sul piano occupazionale, del sistema economico italiano).

Il che pone il decisore politico, che si accorga di un simile problema (sperando che abbia distolto la vista da scontrini e polizze vita...), di fronte a un problema politico di non poco rilievo: come evitare la situazione attuale e persino un collasso sistemico se l'espansione del comparto dei servizi, e quindi delle componenti a basso valore aggiunto, dovesse proseguire? La risposta è semplice (nel senso che non vi è la necessità di elencare analiticamente tutti i passaggi della risposta più appropriata sotto il profilo della politica economica). Si tratta di riorientare l'economia nazionale verso i settori, come la manifattura, a maggior valore aggiunto. Per far ciò, occorre infine riacquistare alcune leve di politica economica che oggi non sono più disponibili.

 
 
 
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