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L'addio di Vittorio Bertola all'art. 18 e... alla democrazia

Post n°133 pubblicato il 12 Febbraio 2017 da single_sound
 

Negli ultimi mesi è assurto agli onori della cronache Vittorio Bertola, fondatore del M5S di Torino, a causa dei dissapori avuti con il Movimento a Torino, da cui ormai si è allontanato non partecipando più attivamente come in passato (Bertola è stato Consigliere Comunale per il M5S dal 2011 al 2016).

Ora, a prescindere dai motivi personali di Bertola (pur legittimi, perché se si sta in politica è piuttosto normale anche ambire ad avere un incarico), è interessante osservare il suo modo di ragionare (non dissimile da quello di tanti), prendendo due post apparsi recentemente sul suo sito:

https://bertola.eu/nearatree/2017/02/il-ventennio-grillista/

https://bertola.eu/nearatree/2017/01/addio-articolo-18-parliamo-del-futuro/

Basta leggere i due post per accorgersi del tipico modo di ragionare "a quadratini" di queste persone. Cioè, senza accorgersi che fra il degrado descritto nel primo post e l'addio descritto nel secondo esiste invece un nesso diretto e preciso. Si tratta, in altre parole, di un degrado complessivo che avviene su tutti i piani e i livelli della società. Quel degrado non va bene né in un movimento politico né in una impresa.

Bertola ci racconta, non del tutto esplicitamente, come nacque il M5S. In pratica, i disillusi della sinistra (o del centrosinistra) si staccarono da quell'area per dar vita a una nuova forma politica. Qui sta ciò che ci dice Bertola. Poi Bertola stesso parla di un cambiamento, che però non spiega (se non parzialmente, imputandolo alla voglia di potere delle persone che frequentano il Movimento) come mai sia avvenuto. Ebbene, è presto detto. Bertola, come tanti altri (che legittimamente si era accorto di ciò che non andava nel centrosinistra del tempo), non si accorse (strano, eh?) che, elettoralmente parlando, il M5S guidato da Casaleggio puntava ad allargarsi e che ciò poteva accadere unicamente incamerando il voto in uscita del centrodestra berlusconiano che era stato investito dalla crisi del 2007-2008 che si era rivelato incapace di gestire.

La somma di questi due elettorati ha fatto il M5S. Naturalmente, l'ingresso degli elettori del centrodestra e, per di più, dei bocconiani (voluti da Casaleggio, come egli stesso disse in una intervista al Corriere della Sera) ha reso il Movimento quello che è oggi, aldilà del cambiamento indotto dalla partecipazione al potere.

E però quanto appena detto non basta. Perché Bertola si lamenta del fatto che il M5S sia potenzialmente antidemocratico e del fatto che, ormai, come qualunque altro partito, la sua politica sia slegata dai fatti.

Quando però leggiamo il secondo post di Bertola, quello relativo all'art. 18, ebbene troviamo lì proprio la politica slegata dai fatti. Bertola, in relazione all'art. 18, ci parla del problema delle imprese che non possono ristrutturarsi a causa di questa disposizione (che peraltro in buona sostanza non esiste più, almeno per come era stata originariamente pensata). Viene da chiedersi dove vive Bertola. Chi - su queste pagine online - ha letto, con pazienza, il post a commento della sentenza della Cassazione sul giustificato motivo oggettivo di licenziamento ha potuto vedere che in Italia si può licenziare per ragioni economiche fin dal 1966... e chi ha letto il post sulle leggi economiche applicate al caso italiano ha visto come in pochi anni la disoccupazione in Italia sia raddoppiata (anche se qui il dato andrebbe letto in maniera più complessa, perché la fine di un contratto a termine non equivale a un licenziamento, ma è ovvio che in entrambi i casi vi è la perdita del lavoro). Non vi è stato alcun art. 18 a impedire i licenziamenti, al contrario di quanto il parto di fantasia di Bertola vuol far intendere.

Ora, il fatto che Bertola (che si presume esser stato nella sinistra prima di approdare al M5S) si pronunci contro l'art. 18 in definitiva non stupisce, sia per la sua formazione sia perché la sinistra che si staccò dalla sinistra (passateci l'espressione) un decennio fa probabilmente non lo fece sull'art. 18 (del resto, lo dice lo stesso Bertola che una buona parte di quelle persone veniva dai girotondi antiberlusconiani, a cui forse dell'art. 18 non importava poi un gran tanto), questione che il centrosinistra a suo tempo cercò di non affrontare di petto, puntando piuttosto a depotenziarne gli effetti attraverso l'introduzione di normative sulla precarizzazione come la legge Treu.

L'art. 18 non era una norma sui licenziamenti collettivi, bensì una norma sui licenziamenti individuali. E serviva a tutelare i lavoratori dai licenziamenti discriminatori. La questione dei cambiamenti del sistema economico non c'entra nulla con l'art. 18. La questione, in altri termini, con riguardo all'art. 18, è filosofico-politica e di potere all'interno delle aziende e non è di funzionalità economica. Mettiamola così: è accettabile che all'interno di una impresa il datore di lavoro sia libero di licenziare qualcuno perché quel qualcuno ha i capelli viola, è del Torino (squadra di Bertola) o ancora è di un sindacato che non piace all'imprenditore?

Questa è la domanda. A questa domanda si possono dare due risposte: sì o no.

Il sì esprime, in definitiva, una idea semplice. L'imprenditore assume il rischio di impresa e, quindi, va lasciato libero di gestire l'impresa come vuole. Verrebbe subito da aggiungere che, dunque, va lasciato libero di portare al macello anche i suoi dipendenti che non compartecipano al rischio di impresa...

L'idea espressa dal no è che non vi possano essere discriminazioni nel mondo lavoro e che non sia accettabile che, in quel mondo, fattori extraeconomici e solamente personali (e perciò non collegati al rischio di impresa) incidano sulla vita professionale del lavoratore.

E' inutile forse dire che chi scrive propende, per evidenti motivi, per il no. Ma non è tanto questo il punto. Il punto è che l'idea espressa dal sì, mascherata dal rischio di impresa, altro non è che l'espressione di una cultura autoritaria. E se quella cultura autoritaria sta in una azienda, dove molti passano la maggior parte della propria giornata, non è possibile che essa tracimi anche in altri ambiti? E perché non può tracimare anche nei partiti, considerato che anche i partiti sono una sorta di impresa visto che conquistare voti è una attività simile a guadagnarsi una fetta di mercato (attenzione, la somiglianza fra imprese e partiti non è un fenomeno odierno, essendo stata notata molto tempo fa da uno che si chiamava Max Weber...)?

Precisiamo: questo discorso non è un discorso contro il "capo". Il problema è intendersi su chi è il capo, quali idee e quale percorso rappresenta. Se vuole una folla plaudente intorno a sé o piuttosto preferisce circondarsi di persone in grado di portare avanti un progetto.

Peraltro, tutti i giorni ci viene detto che in Germania (dove Bertola ogni tanto va a lavorare) sono migliori, lavorano meglio e sono più ricchi. Dunque, dovremmo tendere verso quel modello. Ma ci si dimentica sempre di dire che in Germania, dove qualche problema col culto del capo lo hanno avuto, esistono dei limiti al potere del capo nelle aziende, a partire dal modello di cogestione, che pure avremmo anche noi in Costituzione se non fosse che la disposizione costituzionale sulla cogestione, guarda caso, non è mai stata applicata.

In Germania, poi, i partiti possono essere sciolti se rappresentano una minaccia alla democrazia (è di pochi giorni fa la sentenza della Corte Costituzionale tedesca che ha respinto la richiesta di scioglimento dell'NPD).

Ecco, il primo post di Bertola è in sostanziale contraddizione col secondo. Non esistono zone franche nella società. Se vogliamo la democrazia, questa deve esistere (sia pure con gli adattamenti del caso) in ogni ambito della nostra società, nei partiti così come nelle imprese.

 

 
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