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Post n°149 pubblicato il 12 Agosto 2017 da single_sound
Tag: Carlo Rosselli, comunismo, Croce, Einaudi, Gobetti, Gramsci, liberalismo, liberismo, socialismo Questo post doveva esser scritto alcuni mesi fa, in occasione dell'anniversario della morte di Antonio Gramsci. Ma poi le cose e i problemi si sono accavallati ed è stato rimandato a tempi migliori. Proviamo a farlo oggi, con un po' di calma. Alcuni pensieri rivolti ad Antonio Gramsci sono venuti dalla lettura delle prime pagine del libro di Marco Bresciani: Quale antifascismo? In realtà, il libro non riguarda Gramsci, ma la storia di Giustizia e Libertà. Però, non si può scrivere una storia di Giustizia e Libertà senza passare per Gramsci e alcune categorie come appunto l'antifascismo. Del resto, lo si è visto anche al Cimitero Acattolico lo scorso 27 aprile, quando i ragazzi comunisti davanti alla tomba di Gramsci hanno polemizzato con Orfini dicendo che Gramsci era comunista e chiedendogli se lui fosse comunista. Messa in questi termini, avevano ragione i ragazzi. Ma messa in una prospettiva diversa, quella cioè dell'antifascismo, il problema diventa quantomeno un po' più complesso, tralasciando ora Orfini e il PD (questione che non merita di esser discussa). A pag. 16 del volume di Bresciani viene citato il Profilo ideologico del 900 di Norberto Bobbio, in cui il filosofo aveva ricordato che Gobetti, con la Rivoluzione Liberale, aveva espresso l'esigenza di un rinnovamento profondo che avrebbe poi ispirato la Resistenza. La Resistenza aveva consentito la nascita del Partito d'Azione, al cui interno poteva distinguersi una corrente di ispirazione socialista liberale facente capo a Carlo Rosselli e una corrente di ispirazione comunista liberale risalente a Gobetti. Secondo Bobbio, gli elementi costitutivi del comunismo liberale, ossia il desiderio della libertà e la certezza del comunismo, erano solo apparentemente contraddittori, rappresentando piuttosto la sintesi di domani. Omettiamo i passaggi successivi, che pure sono interessanti e fermiamoci per alcuni istanti qui. Ora, ogni operazione politica e culturale volta a prendere il pensiero di una persona e combinarlo con l'altrui pensiero, in presenza di compatibilità, è perfettamente legittimo. Dunque, non vi è nulla di strano nel ricercare la sintesi tra esigenze che almeno a prima vista sembrano diverse. Ciò che tuttavia è forse bene fare, nel tentare simili operazioni, è partire da una premessa, ovvero ricordare chi fosse esattamente il personaggio di cui si parla. Se ciò vale per Gobetti, altrettanto in verità può dirsi per Gramsci. A pag. 20, nota 28, Bresciani cita, tra i vari, il testo di Cofrancesco, intitolato Sul gramsciazionismo e dintorni. Va detto, per inciso, che il titolo del testo di Cofrancesco è francamente orribile, mentre l'espressione comunismo liberale (di cui abbiamo già parlato a proposito del commento al saggio di Canfora) è forse quella che esprime meglio il problema, pur aprendo una miriade di problemi ulteriori. L'espressione gramsciazionismo ci fa tornare alla mente la questione del passaggio di Gramsci al Partito d'Azione e la sua abiura del comunismo. Si tratta però di eventi che non sono mai stati provati. Resterebbe da chiedersi poi se il pensiero di Gramsci sia più affine al socialismo liberale di Rosselli o al comunismo liberale di Gobetti. Ma non è tanto questo il punto da affrontare. Il punto da affrontare è che, per partire verso la direzione indicata, per così dire, da Bobbio, occorre rammentare chi fosse esattamente Gobetti e chi fosse esattamente Gramsci. Attribuire a entrambi definzioni che non gli corrispondono può essere utile ai vari Cofrancesco per le loro operazioni politico-culturali-editoriali, ma non a chi voglia cimentarsi seriamente nello studio e nell'azione politica. Chi era Gobetti? Era un liberale. Chi era Gramsci? Era un comunista. Certamente, è possibile pensare, a posteriori, che vi fossero elementi di comunismo in Gobetti e di liberalismo in Gramsci. Ma tanto vale a cambiare la definizione che essi davano di se stessi senza con ciò fargli torto? No, ciò non vale a cambiare le definizioni perché quegli elementi di contaminazione hanno una spiegazione precisa che ha poi portato i due a incrociarsi e a dialogare. Da lì avrebbe potuto nascere una sintesi che, in realtà, in Italia appare impossibile, salvo forse in alcune elite intellettuali. Sintesi che sul piano politico pratico appare impossibile proprio perché i problemi che i due si sono posti, di fondo, sono rimasti irrisolti. Quali erano i problemi che entrambi si sono posti, ognuno dalla sua prospettiva? Gobetti, evidentemente, si pose il problema, come diceva Bobbio, di un rinnovamento profondo della società italiana. La definizione, messa così, è un po' limitata. Nel senso che egli si era posto anche il problema di quali potessero essere le forze che avrebbero potuto innescare un simile cambiamento profondo. E queste forze Gobetti le vedeva nella classe operaia, non nella borghesia, che aveva (ed ha ormai) perso la sua forza progressiva. In questo senso, non va dimenticato l'inganno di cui ancora oggi scontiamo le conseguenze, senza ormai rifletterci più di tanto, riguardante il processo di unificazione nazionale. Ci si riferisce, qui, non all'opera di Cavour e Garibaldi, bensì al vero e proprio processo di unificazione giuridico-amministrativa che ebbe luogo dopo il 1861. Il periodo che va dal 1861 al 1915 fu definito quello dell'Italia liberale. Ma era davvero un'Italia liberale quella in cui non tutti avevano il diritto di voto, potevano essere eletti, le proteste sociali venivano soppresse irrimediabilmente nel sangue? Ed era davvero un'Italia liberale quella in cui, come ci ha ricordato Scoca, venivano approvate pure leggi di impronta liberale, come quella sulla soppressione del contenzioso amministrativo, per poi essere affondate regolarmente (forse ancor oggi) da un ceto di burocrati ottusi e da una magistratura, ancora oggi in parte, reazionaria? Del resto, vien da dire subito che non fu un caso che i liberali italiani si siano impiccati e suicidati, dapprima con l'ingresso in guerra dell'Italia nel 1915 e poi con l'appoggio al fascismo, uscendo così definitivamente dalla scena della politica italiana. Meritatamente peraltro, se non fosse che purtroppo le conseguenze di tutto ciò le paghiamo tutt'oggi, l'Italia non potendo certo definirsi un paese liberale, aldilà della nostra Costituzione, nella sua cultura politica. La cultura c.d. liberale dell'epoca era d'altronde assai conservatrice, per non dire addirittura reazionaria. Le forze che sostenevano il "liberalismo" italiano erano dunque inadatte a reggere una politica democratica e progressiva. Gramsci, da comunista, si pose il problema di "stendere" un sistema, quello appunto comunista (lasciamo ora da parte la discussione sul fatto che quello dell'epoca in URSS fosse comunismo e cosa significa l'espressione comunista), su una mole di realtà composite quali quelle nazionali. In questo contesto, a lui, da italiano, toccava confrontarsi con la cultura nazionale, coi suoi sacerdoti, e col problema di far avanzare la società italiana verso un'ipotesi di società socialista. Quali erano le forze che potevano spingere verso una simile direzione? Politicamente, in primis, gli operai. In secundis, esisteva all'epoca in Italia una parte di ceto intellettuale che era progressista e col quale era possibile cercare una interlocuzione in quella prospettiva. Gobetti ne era un esempio. Questo incrocio tra le persone, gli obiettivi e le idee ci pone una serie di problemi, alcuni dei quali sono stati tralasciati nel cammino che ci ha condotto sin qui. Essi sono troppo vasti per essere affrontati nell'ambito di un post così circoscritto. Proviamo piuttosto ad affrontare alcuni punti un po' più specifici. Gobetti individuava nelle classi operaie, in specie del nord, l'elemento di forza per spingere verso un radicale cambiamento del Paese (rispetto all'Italia del periodo c.d. liberale). Ma quanto c'era di cultura liberale in quelle classi e quanto esse avrebbero retto una prova politica che le avrebbe portate su un sentiero che, almeno all'apparenza, non era propriamente loro nell'immediato? Gramsci individuava in alcune delle elite culturali del Paese gli elementi a cui affiancarsi per far uscire il nostro Paese dall'arretratezza e lanciarlo verso un'esperienza di tipo socialista. Era ciò possibile sul piano della cultura economica? Non va dimenticata la formazione economica di Gobetti, che a Torino aveva studiato con Einaudi, di stampo liberista. Qui prima di chiudere vanno fatte alcune osservazioni. La prima riguarda i rapporti tra il comunismo e il liberalismo. La definizione di Bobbio ricerca una sintesi tra le due esperienze ideali. Croce invece non ammetteva il comunismo, pur concedendo che il liberalismo fosse una dottrina non economica e che dunque esso fosse conciliabile, in linea teorica, col comunismo. Il problema che ci si para dinnanzi è se il comunismo, aldilà della correttezza dei suoi fondamenti teorici (in Marx, beninteso, trattandosi dell'autore che ha cercato di dare un fondamento scientifico al comunismo) sia una mera dottrina economica e non, piuttosto, una dottrina politica generale. Se si accetta l'idea che il comunismo sia una dottrina economica, allora essa è pefettamente integrabile, almeno in teoria, col liberalismo inteso come metodo. Anzi, verrebbe da dire come esso sia la sua naturale correzione. In quest'ottica, verrebbe da chiedersi, allora, come mai liberalismo e comunismo siano stati in antitesi così violenta tra loro quando uno nasce sul terreno dell'altro proponendosi di correggerlo. In questo ambito, siamo di fronte a un problema politico pratico di rilievo non banale (oltre che a un conflitto tra interessi di classe). Non è infatti possibile, allo stato, convincere una massa di persone ad agire nell'ottica ora descritta. Senz'altro il momento di correzione può essere anche di tipo conflittuale, perlomeno in origine. Solo che a quelle masse di persone fu promesso un radicale cambio di società, per cui il comunismo non veniva messo in conflitto col liberalismo per correggerlo, ma veniva messo in conflitto col liberalismo per sostituirlo. Ciò che presuppone che il comunismo non sia una mera teoria economica ma che sia una dottrina politica più generale. Ma che si traduce in cosa in quanto alternativa al liberalismo? Viste le cose in questo modo, è di tutta evidenza che la base sociale a cui faceva riferimento Gobetti non avrebbe che potuto entrare in difficoltà dovendo sorreggere obiettivi liberali/di liberazione che non poteva sentir propri (la parola liberale facendogli venire, anche a giusto titolo, l'orticaria, considerando l'esperienza storica del c.d. liberalismo italiano). Ciò pone(va) un problema enorme ai comunisti, come Gramsci, perché li spinge(va) a trovare una soluzione a un problema difficilissimo da affrontare, sia sul piano teorico che sul piano pratico dell'azione politica. Per altro verso, un problema ulteriore, che oltretutto sperimentiamo oggi, era il liberismo delle elite culturali cui Gramsci intendeva riferirsi. Sotto il profilo storico, non va dimenticato che il liberismo dell'epoca, che caratterizzava quelle elite culturali, nasceva sul piano pratico dall'esigenza di liberare l'Italia dai parassitismi prodotti dal protezionismo. A questo riguardo, si ricordi il manifesto indirizzato da Matteotti ai lavoratori che abbiamo citato nel post di alcuni mesi fa dedicato a quest'ultimo. La prova del liberismo economico è stata nondimeno scarsa. Rammentiamo che nella discussione tra Croce ed Einaudi su liberismo e liberalismo il secondo sosteneva, se possiamo dire così, che il liberismo altro non fosse che la teoria economica del liberalismo, ragion per cui un sistema politico liberale presuppone una politica economica liberista. Se ciò può esser vero in linea teorica, resta nondimeno vero che alla prova dei fatti il liberismo è stato il sostrato economico della politica economica del fascismo istituzionale e di governo (ovverosia di un regime comunque illiberale) negli anni '30 del secolo scorso, politica che può essere simbolizzata nella battaglia per quota 90. Quale politica economica, quindi, fare sulla base di queste premesse che l'esperienza storica ci consegna? Giunti sin qui, resta da chiedersi se tutta questa discussione rappresenta un mero esercizio di facoltà mentali o se invece si tratta di questioni vive e attuali quantomeno per quel che concerne il nostro paese. Verrebbe da dire che già il fatto di aver posto questi problemi significa che essi sono tutti tuttora presenti nella storia del nostro paese, nel senso che essi agiscono sulla nostra realtà giornaliera. Non v'è dubbio che la storia del nostro Paese ci consegna alcuni momenti di progresso e di liberazione, in vari sensi. La definitiva liberazione dagli austriaci al termine della prima guerra mondiale (anche se qui dovremmo intenderci sul senso di quella guerra), la Resistenza, la Costituente e infine le lotte sociali per migliorare questo paese sul finire degli anni '60 e l'inizio degli anni '70. Questo processo si è però fermato agli anni '70 e da quel momento in poi l'Italia ha fatto solo passi indietro. Non è affatto un caso ciò a cui stiamo assistendo oggi, non è affatto un caso cioè che il nostro, dopo 10 anni di crisi, sia un paese incupito, intollerante, in cui si ascoltano sirene autoritarie, impoverito. La risposta ai problemi di oggi, che vengono per vero dal passato, sta nel tentativo di riprendere l'idea di quell'incrocio tra Gramsci e Gobetti e di sperimentarlo nella sua possibilità reale di fronte alle temperie che il tempo in cui viviamo ci impone. |
Post n°145 pubblicato il 03 Giugno 2017 da single_sound
Lo scontro televisivo di ieri tra D'Alema e Damilano sulla crisi del 1998 del I Governo Prodi (http://video.repubblica.it/politica/d-alema-insulta-damilano-lei-e-uno-stupido-poi-le-scuse-attacco-rude/277514/278111?ref=RHPPBT-BS-I0-C4-P8-S1.4-T1) non ci dice quasi niente di ciò che andrebbe detto e spiegato a proposito di quella vicenda. Potrebbe sembrare un tema che oggi potremmo dare per morto e sepolto. E invece non è così, come vedremo di seguito. Ora senza entrare in troppi dettagli relativi a quel periodo (come gli incontri riservati tra alcuni esponenti di Rifondazione e qualche personaggio del Governo, i cui contenuti in termini di proposte negoziali non sono mai stati rivelati), per far chiarezza intorno a quella crisi politica per cercare di comprenderla prima di assegnare le reponsabilità bisogna partire da alcuni presupposti che si elencano di seguito: 1) la legge elettorale allora vigente era il mattarellum, cioè il 75% dei seggi assegnati col metodo maggioritario first past the post (senza doppio turno) e il 25% dei seggi assegnati col metodo proporzionale; 2) il centrosinistra si presentò alle elezioni del 1996 col nome Ulivo, guidato da Prodi, ma a tale coalizione non partecipava affatto Rifondazione Comunista; 3) per impedire alla destra di vincere e far convergere i voti sui candidati di sinistra e centrosinistra, oltre a garantire a Rifondazione una sicura rappresentanza parlamentare, Ulivo e Rifondazione siglarono un patto di c.d. desistenza, vale a dire Rifondazione presentava alcuni candidati in collegi uninominali sicuri senza che contemporaneamente fosse presente un candidato dell'Ulivo così da garantirne l'elezione, mentre negli altri collegi Rifondazione non si presentava così da garantire la confluenza dei suoi voti verso i candidati dell'Ulivo; 4) il patto di desistenza non comportava la redazione di un programma congiunto tra Rifondazione e Ulivo; 5) i risultati delle elezioni impedirono all'Ulivo di avere una maggioranza autonoma e Rifondazione, per far partire il Governo, fu costretta ad appoggiarlo dall'esterno. A complicare il quadro stava ulteriormente il fatto che non si discusse minimamente dell'ingresso dell'Italia nella moneta unica nella campagna elettorale del 1996. La decisione fu presa da Prodi e Ciampi nell'estate del 1996 dopo i colloqui con Aznar, allora Presidente del Consiglio spagnolo, il quale rappresentò a Prodi la volontà della Spagna di entrare subito nella moneta unica. Ciò spinse Prodi e Ciampi ad accelerare l'ingresso che, andando a memoria, poiché l'Italia non soddisfaceva allora i parametri per l'ingresso nella moneta unica, non sarebbe stato discusso prima del 1998. Questo era il quadro. Se non lo si ricorda, si può fare come Damilano e dare tutta la colpa a D'Alema. Certo, si può pensare che D'Alema manovrò per succedere a Prodi. Ma attenzione furono Prodi e Bertinotti a volere la crisi. Prodi la provocò chiedendo la fiducia della Camera e Bertinotti non si sottrasse (anche a costo di spaccare Rifondazione). Qual era il motivo del contendere? Ebbene, nessuno lo ricorda mai, pur trattandosi di un tema di attualità, ma la questione era rappresentata dalle politiche che oggi definiremmo di austerità. Chi aveva più di 20 anni all'epoca ancora ricorda l'istituzione dell'eurotassa per entrare in Europa, tassa per la cui introduzione il Governo dell'Ulivo non aveva alcun mandato elettorale. Dopo la decisione europea della primavera 1998 circa l'ingresso dell'Italia nella moneta unica, Rifondazione chiese nell'estate dello stesso anno un allentamento significativo delle politiche di austerità. La risposta da parte del Governo e principalmente da parte di Prodi (perché Ciampi, in quanto ministro tecnico, non entrava in queste discussioni) fu assolutamente negativa. E ciò perché, aldilà del punto di merito sollevato da Rifondazione, non si poteva mettere in discussione l'impianto delle regole europee il giorno dopo essere entrati nella moneta unica. Da questo punto di vista, Prodi e Ciampi avevano pure ragione. Il problema era per l'appunto che Rifondazione non faceva parte del Governo e non esisteva un programma di governo comune a Rifondazione e Ulivo. Per di più, la scelta di entrare nell'euro fu voluta dal Governo e subita da Rifondazione, senza che in Italia vi fosse stata (durante le elezioni e dopo) alcuna discussione in merito. Ora, è vero che a quel tempo vi era una diversa fiducia verso il progetto europeo, ma in termini di analisi, relativamente alle politiche di austerità, la posizione di Rifondazione era quella corretta. In altri termini, Prodi e Ciampi, precipitando l'ingresso dell'Italia nella moneta unica, scavarono la fossa dell'Ulivo. Quale fu l'errore, se così si può dire, di Bertinotti? A quel tempo fu di non capire che una crisi di Governo avrebbe riaperto le chance del centrodestra di tornare a vincere le elezioni, come avvenne nel 2001 sulla base di una campagna tutta fondata sulle divisioni della sinistra e sull'instabilità di governo che sarebbe risultata da una vittoria della sinistra alle elezioni. Questi sono i fatti. E andrebbe rimarcato con ancor maggior forza come alcune decisioni che hanno segnato la storia del nostro Paese siano avvenute al di fuori dei canoni di una democrazia funzionante. Il divorzio Banca d'Italia-Tesoro tramite un mero scambio di lettere, senza informare Governo e Parlamento. L'ingresso nella moneta unica senza che fosse sottoposto a previo vaglio elettorale, quando alle elezioni del 1996 nessuno ne parlò. Ma se questi sono i fatti, che senso ha continuare a fare come Damilano, cioè perpetuare teorie del complotto che non aiutano minimanente a spiegare la dinamica politica dell'epoca e in fondo di oggi? |
Inviato da: Marion20
il 08/09/2023 alle 01:18
Inviato da: marabertow
il 12/05/2023 alle 22:20
Inviato da: cassetta2
il 21/05/2019 alle 14:01
Inviato da: Igor
il 13/11/2016 alle 17:24
Inviato da: minarossi82
il 11/11/2016 alle 20:08