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La Resistenza come spirito della Nazione

Post n°150 pubblicato il 08 Settembre 2017 da single_sound
 
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La lettura del libro "Il Piave" di Fortunato Minniti (la cui copertina è ritratta nella foto di accompagnamento di questo post), edito nuovamente quest'anno in occasione dell'anniversario degli eventi di Caporetto che portarono allo sfondamento del fronte e al ripiegamento delle truppe italiane lungo l'argine destro del Piave durante la prima guerra mondiale, suscita alcuni interrogativi intorno al tema di fondo del volume, ossia sulla resistenza. Il libro si muove infatti lungo la tesi secondo cui quella guerra o almeno quella parte di guerra fu una guerra di resistenza, anche se poi essa si inserisce nel quadro di una guerra dichiarata all'Austria nel 1915 (e quindi di una guerra aggressiva, benché essa dopo il tracollo di Caporetto si sia trasformata in guerra difensiva del territorio nazionale e di riconquista di una sua parte stante che l'esercito nemico aveva occupato la Venezia Giulia e il Veneto) e conclusa con lo sfondamento di Vittorio Veneto.

Se quella fu una guerra di resistenza, viene da chiedersi allora se l'Italia non sia il Paese della Resistenza, considerata la guerra di Resistenza del 1943-45 oltre alla resistenza italiana sul Piave.

L'analisi è complessa in quanto il quesito riguarda sia il passato sia il presente sia quanto del passato sia tuttora vivo nel presente.

Proviamo per intanto a mettere a confronto i due fenomeni: la guerra dopo il 1917 e la guerra dopo il 1943. Quali sono gli elementi di differenza e gli elementi in comune?

Nel 1917 vi fu sostanzialmente un collasso del nostro esercito, che non resse l'urto della potenza avversaria, tanto da dover ripiegare indietro di molti chilometri dall'Isonzo al Piave. Nel 1943, non si può dire esattamente che le nostre Forze Armate collassarono. Esse si trovarono piuttosto impreparate agli eventi, ma non mancarono episodi, del resto ben noti, in cui esse si mostrarono in grado di reagire alla potenza nemica pur essendo destinate a soccombere.

Nel 1917 non vi un collasso dell'Ammnistrazione italiana, che anzi fu un grado di reagire e sapendosi organizzare diede un contributo alla vittoria finale. Nel 1943, al contrario, l'Amministrazione italiana in pratica collassò, ma ciò fu dovuto anche al fatto che essa fu investita in pieno, almeno per quanto riguarda l'Amministrazione centrale, dal conflitto, stante il fatto che le truppe nemiche erano ormai da tempo entrate in profondità nel territorio nazionale col consenso del Governo fascista, sicché era del tutto evidente che l'Amministrazione centrale ne sarebbe stata investita in pieno. Ciò non giustifica, beninteso, il fuggi fuggi ignominioso che si ebbe l'8 settembre del 1943 rivelatore del carattere intrinsecamente debole del nostro apparato amministrativo, che riesce forse a dare il meglio di sé, come nel 1917, se messo sotto sforzo ma a distanza di sicurezza dalla "linea del pericolo".

Nel 1917, dal punto di vista militare, lo scontro si giocò unicamente lungo la linea delineata dall'andamento del fiume Piave, linea che fu scelta dal Comando del Regio Esercito e non dall'avversario, mentre nel 1943-45 lo scontro militare si giocò su più linee che mano mano retrocedevano verso il nord, tutte scelte dal Comando dell'esercito nemico. In entrambi i casi, però, l'iniziativa era in mano agli italiani. Nel 1917, appunto, furono gli italiani a scegliere la linea su cui attestarsi per poi ripassare all'offensiva. Nel 1943, pur non scegliendo la linea del fronte, gli italiani dopo i primi momenti di sbandamento poterono passare all'attacco con la Liberazione di Napoli e poi Roma e ancora le città del Nord alla fine del conflitto.

In quest'ultimo caso, con ogni evidenza, il conflitto fu vinto grazie al sostegno degli alleati. D'altronde, il dissolvimento dell'Amministrazione e lo sbandamento delle Forze Armate non giovava alla causa. Ciò costrinse, diversamente dal 1917, a una riorganizzazione delle Forze Armate su base popolare e di partito, ma non può certamente dirsi che le brigate partigiane, per quanto organizzate per operazioni di guerriglia piuttosto che di guerra classica, non costituissero, insieme a ciò che rimaneva del Regio Esercito, le Forze Armate del Paese, dipendenti dal suo governo effettivo, ovvero il Comitato di Liberazione Nazionale e il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia.

Non fu un caso, comunque, che il conflitto venne vinto col supporto degli alleati. Certamente, esso fu maggiormente determinante nel 1943-45 che nel 1917-18. Nondimeno, ciò che si può notare è che in entrambi i casi gli alleati con cui gli italiani "vinsero" furono gli inglesi, i francesi e gli americani e non i popoli germanici che, al fondo, rappresentarono per gli italiani il nemico in entrambi i conflitti. in verità, anche il termine alleati andrebbe messo tra virgolette, dato che nel 1915-1918 l'Italia entrò in guerra d'intesa con Francia e Gran Bretagna, ma senza un vero trattato di alleanza, così come dopo il 1943 non poteva esistere un trattato di alleanza tra quei paesi e l'Italia (essendo stato concluso un armistizio che condusse poi al trattato di pace del 1947).

Qui, oltretutto, si può notare una linea di frattura fra le elite politiche, amministrative e culturali e il popolo. Difatti, mentre le prime hanno sempre manifestato una preferenza per la Germania per ragioni storiche, politiche e culturali, il popolo ha sempre dato il meglio di sé quando al suo fianco aveva i popoli "occidentali" e non i popoli germanici.

Quest'osservazione ci porta a un problema non da poco, cioè se il popolo abbia partecipato alla Resistenza, sia nella prima che nella seconda guerra mondiale. Il problema è capire cosa si intende per partecipazione alla Resistenza. Il fatto che nella prima guerra mondiale le operazioni militari si svolgessero su un fronte con eserciti regolari non impedisce né il coinvolgimento morale del popolo né il suo supporto diretto, attraverso il lavoro e il sacrificio delle privazioni materiali, allo sforzo bellico. Nella seconda guerra mondiale, checché se ne dica, è fuor di discussione l'apporto popolare alla Resistenza. La guerriglia non può funzionare se non è sostenuta a livello popolare.

In questa prospettiva, giova citare per esteso un passo di Bobbio sullo spirito della Resistenza tratto da "Eravamo diventati uomini":

"Sento attorno a me le solite obiezioni. Esiste ancora lo spirito della Resistenza? E se esiste, non è esso alimentato da pochi e sparuti fedeli che sono una piccolissima minoranza di pazzi in una nazione di savi? E infine, fossero pur molti i fedeli, non è la situazione di oggi tanto mutata da quella in cui la Resistenza operò, che è assurdo e inutile, pretendere di tramandarne lo spirito? Rispondiamo.

Primo: lo spirito della Resistenza non è morto. E’ morto in coloro che non l’hanno mai avuto e a cui del resto non lo abbiamo mai attribuito. Che non sia morto è dimostrato dal fatto che non vi è grave evento della nostra vita nazionale in cui non si sia fatto sentire ora per elevare una protesta, ora per esprimere un ammonimento, ora per indicare la giusta strada della libertà e della giustizia.

Secondo: che i devoti dello spirito della Resistenza fossero una minoranza, lo abbiamo sempre saputo e non ce ne siamo né spaventati né meravigliati. In ogni nazione i savi, cioè i benpensanti, sono sempre la maggioranza; i pazzi, cioè gli ardimentosi, sono sempre la minoranza. Come al teatro: quattro attori in scena e mille spettatori in platea, i quali non recitano né la parte principale né quella secondaria; si accontentano di assistere allo spettacolo per vedere come va a finire e applaudono il vincitore.

Terzo: sì, la situazione è cambiata, non c’è più la guerra, lo straniero in casa, il terrore nazista. Ma quando invochiamo lo spirito della Resistenza, non esaltiamo soltanto il valore militare, le virtù del soldato che si esplica nella guerra combattuta, ma anche il valore civile, le virtù del cittadino di cui una nazione per mantenersi libera e giusta ha bisogno tutti i giorni, quella virtù civile che è fatta di coraggio, di prodezza, di spirito intrepido, ma anche, e più, di fierezza, di fermezza nel carattere, di perseveranza nei propositi, di inflessibilità. Ciò che ha caratterizzato il partigiano è stata la sua figura di cittadino e insieme di soldato, una virtù militare sorretta e protetta da una virtù civile. Non vi è nazione che possa reggere senza la virtù civile dei propri cittadini. Ebbene l’ultima rivelazione di questa virtù è stata la lotta partigiana. Lì la nazione deve attingere i suoi esempi, lì deve specchiarsi, lì troverà e lì soltanto, le ragioni della sua dignità, la consapevolezza della propria unità, la sicurezza del proprio destino".

Queste parole di Bobbio meritano quantomeno un paio di osservazioni. Innanzitutto, Bobbio fa riferimento "ai devoti dello spirito della Resistenza", ma non fa riferimento alla partecipazione popolare alla Resistenza. Spetta alla minoranza tramandare, attraverso l'azione quotidiana, lo spirito della Resistenza quando il nemico non è in casa e la maggioranza è abulica. Ciò però non vuol dire affatto che la Resistenza non fu un movimento popolare. Basti ricordare, del resto, il dolore provato da Calamandrei, che tra l'altro aveva partecipato alla prima guerra mondiale, per il fatto di non poter prendere parte, insieme al figlio, alle operazioni militari dopo il 1943 a causa dell'età avanzata.

Il sentimento di dolore di Calamandrei ci ricorda, molto semplicemente, che non un intero popolo può esser coinvolto nelle operazioni militari, ma solo le sue classi più giovani. L'apporto delle altre classi si gioca su piani diversi, ma convergenti, da quelli direttamente militari.

Bobbio, inoltre, ci parla di uno spirito della Resistenza che si è affacciato in ogni grave evento della vita nazionale. E che si è affacciato, verrebbe da dire, anche nel 1917 nel momento in cui era messa a repentaglio la libertà della nostra Nazione dal dominio straniero.

Rispetto alle parole di Bobbio, lo spirito della Resistenza può forse esser descritto aggiungendo alle sue parole quelle del Tenente Adolfo Ferrero, caduto nella battaglia dell'Ortigara, contenute nella lettera indirizzata alla famiglia prima di morire e nella consapevolezza della morte imminente:

"18.06.1917 ore 24,00
Cari genitori
Scrivo questo foglio nella speranza che non vi sia bisogno di farvelo pervenire.
Non ne posso fare a meno: il pericolo è grave, imminente. Avrei un rimorso se non dedicassi a voi questi istanti di libertà, per darvi un ultimo saluto. Voi sapete che io odio la retorica, ...no, no, non è retorica quello che stò facendo. Sento in me la vita che reclama la sua parte di sole, sento le mie ore contate, presagisco una morte gloriosa, ma orrenda... Fra cinque ore qui sarà l’inferno. Tremerà la terra, s’oscurerà il cielo, una densa caligine coprirà ogni cosa, e rombi, e tuoni e boati risuoneranno fra questi monti, cupi come le esplosioni che in quest’istante medesimo odo in lontananza. Il cielo si è fatto nuvoloso: piove... Vorrei dirvi tante cose…tante…ma voi ve l’immaginate. Vi amo. Vi amo tutti tutti.
Darei un tesoro per potervi rivedere, ...ma non posso... Il mio cieco destino non vuole.
Penso, in queste ultime ore di calma apparente, a te Papà, a te Mamma, che occupate il primo postonel mio cuore, a te Beppe, fanciullo innocente, a te o Adelina.. addio.. che debbo dire?
Mi manca la parola, un cozzare di idee, una ridda di lieti, tristi fantasie, un presentimento atroce mi tolgono l’espressione... No, no, non è paura. Io non ho paura! Mi sento ora commosso pensando a voi, a quanto lasciò, ma so dimostrarmi dinanzi, ai miei soldati, calmo e sorridente. Del resto anche essi hanno un morale elevatissimo.
Quando riceverete questo scritto fattovi recapitare da un’anima buona, non piangete e siate forti, come avrò saputo esserlo io. Un figlio morto per la Patria non è mai morto.
Il mio nome resti scolpito indelebilmente nell’animo dei miei fratelli, il mio abito militare, e la mia fidata pistola (se vi verrà recapitata) gelosamente conservati stiano a testimonianza della mia fine gloriosa. E se per ventura mi sarò guadagnata una medaglia, resti quella a Giuseppe...
O genitori, parlate, frà qualche anno, quando saranno in grado di capirvi, ai miei fratelli, di me, morto a vent’anni per la Patria. Parlate loro di me, sforzatevi a risvegliare in loro ricordo di me... M’è doloroso il pensiero di venire dimenticato da essi... Fra dieci, venti anni forse non sapranno nemmeno più di avermi avuto fratello...
A voi poi mi rivolgo. Perdono, vi chiedo, se v’ò fatto soffrire, se v’ò dati dispiaceri. Credetelo, non fu per malizia, se la mia inesperta giovinezza vi à fatti sopportare degli affanni, vi prego volermene perdonare.
Spoglio di questa vita terrena, andrò a godere di quel bene che credo essermi meritato.
A voi Babbo e Mamma un bacio, un bacio solo che vi dica tutto il mio affetto. A Beppe a, Nina un altro. Avrei un monito: ricordatevi di vostro fratello. Sacra è la religione dei morti. Siate buoni. Il mio spirito sarà con voi sempre.
A voi lascio ogni mia sostanza. E’ poca cosa. Voglio però che sia da voi gelosamente conservata.
A Mamma, a Papà lascio... il mio affetto immenso. E’ il ricordo più stimolabile che posso loro lasciare.
Alla mia zia Eugenia il crocefisso d’argento, al mio zio Giulio la mia Madonnina d’oro. La porterà certamente. La mia divisa a Beppe, come le mie armi e le mie robe. Il portafoglio (l 100) lo lascio all’attendente.
Vi Bacio
Un bacio ardente di affetto dal vostro aff.mo Adolfo
Saluti a zia Amalia e Adele e ai parenti tutti".

Queste parole esprimono al meglio lo spirito di sacrificio dei figli del nostro Popolo nel momento supremo della morte. E certamente Adolfo Ferrero non è stato dimenticato dai suoi fratellini e da quei suoi fratellini che, ancora oggi, cercano di tramandare lo spirito della Resistenza, facendolo vivere anche al prezzo del proprio personale sacrificio.

Lo spirito della Resistenza è morto? La risposta è semplicemente no, perché lo spirito non muore e riesce a camminare appunto sulle gambe di quella minoranza di pazzi, ardimentosi e inflessibili che fa tuttora lo sforzo di incarnarlo, sebbene il panorama attuale sia desolante, degradato e la maggioranza sia abulica nell'attesa degli eventi.

Il capitalismo materialista può tentare di annichilire la nostra Nazione quanto vuole, come ormai fa perlomeno dagli anni '60 del secolo scorso, ma se la minoranza che incarna lo spirito della Resistenza continuerà a resistere, essa avrà l'occasione per risvegliare la Nazione alla Resistenza in quella che sarà l'ora suprema.

Non c'è però illusione da farsi su quella che sarà in concreto l'ora suprema. Il maestro orientale dell'arte della guerra, Sun Tzu, ci ricorda, a giusto titolo, che "è sul campo di battaglia che si decide la vita o la morte delle nazioni". Sarà, nuovamente, sul campo di battaglia che si deciderà della vita della nostra Nazione e sarà quello il momento in cui lo spirito della Resistenza tornerà a essere patrimonio vivente dell'intero nostro popolo.

 
 
 

Gramsci, Gobetti e il comunismo liberale

Post n°149 pubblicato il 12 Agosto 2017 da single_sound
 
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Questo post doveva esser scritto alcuni mesi fa, in occasione dell'anniversario della morte di Antonio Gramsci. Ma poi le cose e i problemi si sono accavallati ed è stato rimandato a tempi migliori. Proviamo a farlo oggi, con un po' di calma.

Alcuni pensieri rivolti ad Antonio Gramsci sono venuti dalla lettura delle prime pagine del libro di Marco Bresciani: Quale antifascismo? In realtà, il libro non riguarda Gramsci, ma la storia di Giustizia e Libertà. Però, non si può scrivere una storia di Giustizia e Libertà senza passare per Gramsci e alcune categorie come appunto l'antifascismo. Del resto, lo si è visto anche al Cimitero Acattolico lo scorso 27 aprile, quando i ragazzi comunisti davanti alla tomba di Gramsci hanno polemizzato con Orfini dicendo che Gramsci era comunista e chiedendogli se lui fosse comunista. Messa in questi termini, avevano ragione i ragazzi. Ma messa in una prospettiva diversa, quella cioè dell'antifascismo, il problema diventa quantomeno un po' più complesso, tralasciando ora Orfini e il PD (questione che non merita di esser discussa).

A pag. 16 del volume di Bresciani viene citato il Profilo ideologico del 900 di Norberto Bobbio, in cui il filosofo aveva ricordato che Gobetti, con la Rivoluzione Liberale, aveva espresso l'esigenza di un rinnovamento profondo che avrebbe poi ispirato la Resistenza. La Resistenza aveva consentito la nascita del Partito d'Azione, al cui interno poteva distinguersi una corrente di ispirazione socialista liberale facente capo a Carlo Rosselli e una corrente di ispirazione comunista liberale risalente a Gobetti.

Secondo Bobbio, gli elementi costitutivi del comunismo liberale, ossia il desiderio della libertà e la certezza del comunismo, erano solo apparentemente contraddittori, rappresentando piuttosto la sintesi di domani. Omettiamo i passaggi successivi, che pure sono interessanti e fermiamoci per alcuni istanti qui.

Ora, ogni operazione politica e culturale volta a prendere il pensiero di una persona e combinarlo con l'altrui pensiero, in presenza di compatibilità, è perfettamente legittimo. Dunque, non vi è nulla di strano nel ricercare la sintesi tra esigenze che almeno a prima vista sembrano diverse.

Ciò che tuttavia è forse bene fare, nel tentare simili operazioni, è partire da una premessa, ovvero ricordare chi fosse esattamente il personaggio di cui si parla. Se ciò vale per Gobetti, altrettanto in verità può dirsi per Gramsci. A pag. 20, nota 28, Bresciani cita, tra i vari, il testo di Cofrancesco, intitolato Sul gramsciazionismo e dintorni.

Va detto, per inciso, che il titolo del testo di Cofrancesco è francamente orribile, mentre l'espressione comunismo liberale (di cui abbiamo già parlato a proposito del commento al saggio di Canfora) è forse quella che esprime meglio il problema, pur aprendo una miriade di problemi ulteriori. L'espressione gramsciazionismo ci fa tornare alla mente la questione del passaggio di Gramsci al Partito d'Azione e la sua abiura del comunismo. Si tratta però di eventi che non sono mai stati provati. Resterebbe da chiedersi poi se il pensiero di Gramsci sia più affine al socialismo liberale di Rosselli o al comunismo liberale di Gobetti.

Ma non è tanto questo il punto da affrontare. Il punto da affrontare è che, per partire verso la direzione indicata, per così dire, da Bobbio, occorre rammentare chi fosse esattamente Gobetti e chi fosse esattamente Gramsci. Attribuire a entrambi definzioni che non gli corrispondono può essere utile ai vari Cofrancesco per le loro operazioni politico-culturali-editoriali, ma non a chi voglia cimentarsi seriamente nello studio e nell'azione politica.

Chi era Gobetti? Era un liberale.

Chi era Gramsci? Era un comunista.

Certamente, è possibile pensare, a posteriori, che vi fossero elementi di comunismo in Gobetti e di liberalismo in Gramsci. Ma tanto vale a cambiare la definizione che essi davano di se stessi senza con ciò fargli torto? No, ciò non vale a cambiare le definizioni perché quegli elementi di contaminazione hanno una spiegazione precisa che ha poi portato i due a incrociarsi e a dialogare. Da lì avrebbe potuto nascere una sintesi che, in realtà, in Italia appare impossibile, salvo forse in alcune elite intellettuali. Sintesi che sul piano politico pratico appare impossibile proprio perché i problemi che i due si sono posti, di fondo, sono rimasti irrisolti.

Quali erano i problemi che entrambi si sono posti, ognuno dalla sua prospettiva? Gobetti, evidentemente, si pose il problema, come diceva Bobbio, di un rinnovamento profondo della società italiana. La definizione, messa così, è un po' limitata. Nel senso che egli si era posto anche il problema di quali potessero essere le forze che avrebbero potuto innescare un simile cambiamento profondo. E queste forze Gobetti le vedeva nella classe operaia, non nella borghesia, che aveva (ed ha ormai) perso la sua forza progressiva.

In questo senso, non va dimenticato l'inganno di cui ancora oggi scontiamo le conseguenze, senza ormai rifletterci più di tanto, riguardante il processo di unificazione nazionale. Ci si riferisce, qui, non all'opera di Cavour e Garibaldi, bensì al vero e proprio processo di unificazione giuridico-amministrativa che ebbe luogo dopo il 1861. Il periodo che va dal 1861 al 1915 fu definito quello dell'Italia liberale. Ma era davvero un'Italia liberale quella in cui non tutti avevano il diritto di voto, potevano essere eletti, le proteste sociali venivano soppresse irrimediabilmente nel sangue? Ed era davvero un'Italia liberale quella in cui, come ci ha ricordato Scoca, venivano approvate pure leggi di impronta liberale, come quella sulla soppressione del contenzioso amministrativo, per poi essere affondate regolarmente (forse ancor oggi) da un ceto di burocrati ottusi e da una magistratura, ancora oggi in parte, reazionaria?

Del resto, vien da dire subito che non fu un caso che i liberali italiani si siano impiccati e suicidati, dapprima con l'ingresso in guerra dell'Italia nel 1915 e poi con l'appoggio al fascismo, uscendo così definitivamente dalla scena della politica italiana. Meritatamente peraltro, se non fosse che purtroppo le conseguenze di tutto ciò le paghiamo tutt'oggi, l'Italia non potendo certo definirsi un paese liberale, aldilà della nostra Costituzione, nella sua cultura politica.

La cultura c.d. liberale dell'epoca era d'altronde assai conservatrice, per non dire addirittura reazionaria. Le forze che sostenevano il "liberalismo" italiano erano dunque inadatte a reggere una politica democratica e progressiva.

Gramsci, da comunista, si pose il problema di "stendere" un sistema, quello appunto comunista (lasciamo ora da parte la discussione sul fatto che quello dell'epoca in URSS fosse comunismo e cosa significa l'espressione comunista), su una mole di realtà composite quali quelle nazionali. In questo contesto, a lui, da italiano, toccava confrontarsi con la cultura nazionale, coi suoi sacerdoti, e col problema di far avanzare la società italiana verso un'ipotesi di società socialista.

Quali erano le forze che potevano spingere verso una simile direzione? Politicamente, in primis, gli operai. In secundis, esisteva all'epoca in Italia una parte di ceto intellettuale che era progressista e col quale era possibile cercare una interlocuzione in quella prospettiva. Gobetti ne era un esempio.

Questo incrocio tra le persone, gli obiettivi e le idee ci pone una serie di problemi, alcuni dei quali sono stati tralasciati nel cammino che ci ha condotto sin qui.  Essi sono troppo vasti per essere affrontati nell'ambito di un post così circoscritto. Proviamo piuttosto ad affrontare alcuni punti un po' più specifici.

Gobetti individuava nelle classi operaie, in specie del nord, l'elemento di forza per spingere verso un radicale cambiamento del Paese (rispetto all'Italia del periodo c.d. liberale). Ma quanto c'era di cultura liberale in quelle classi e quanto esse avrebbero retto una prova politica che le avrebbe portate su un sentiero che, almeno all'apparenza, non era propriamente loro nell'immediato?

Gramsci individuava in alcune delle elite culturali del Paese gli elementi a cui affiancarsi per far uscire il nostro Paese dall'arretratezza e lanciarlo verso un'esperienza di tipo socialista. Era ciò possibile sul piano della cultura economica? Non va dimenticata la formazione economica di Gobetti, che a Torino aveva studiato con Einaudi, di stampo liberista.

Qui prima di chiudere vanno fatte alcune osservazioni. La prima riguarda i rapporti tra il comunismo e il liberalismo. La definizione di Bobbio ricerca una sintesi tra le due esperienze ideali. Croce invece non ammetteva il comunismo, pur concedendo che il liberalismo fosse una dottrina non economica e che dunque esso fosse conciliabile, in linea teorica, col comunismo.

Il problema che ci si para dinnanzi è se il comunismo, aldilà della correttezza dei suoi fondamenti teorici (in Marx, beninteso, trattandosi dell'autore che ha cercato di dare un fondamento scientifico al comunismo) sia una mera dottrina economica e non, piuttosto, una dottrina politica generale. Se si accetta l'idea che il comunismo sia una dottrina economica, allora essa è pefettamente integrabile, almeno in teoria, col liberalismo inteso come metodo. Anzi, verrebbe da dire come esso sia la sua naturale correzione. In quest'ottica, verrebbe da chiedersi, allora, come mai liberalismo e comunismo siano stati in antitesi così violenta tra loro quando uno nasce sul terreno dell'altro proponendosi di correggerlo.

In questo ambito, siamo di fronte a un problema politico pratico di rilievo non banale (oltre che a un conflitto tra interessi di classe). Non è infatti possibile, allo stato, convincere una massa di persone ad agire nell'ottica ora descritta. Senz'altro il momento di correzione può essere anche di tipo conflittuale, perlomeno in origine. Solo che a quelle masse di persone fu promesso un radicale cambio di società, per cui il comunismo non veniva messo in conflitto col liberalismo per correggerlo, ma veniva messo in conflitto col liberalismo per sostituirlo. Ciò che presuppone che il comunismo non sia una mera teoria economica ma che sia una dottrina politica più generale. Ma che si traduce in cosa in quanto alternativa al liberalismo?

Viste le cose in questo modo, è di tutta evidenza che la base sociale a cui faceva riferimento Gobetti non avrebbe che potuto entrare in difficoltà dovendo sorreggere obiettivi liberali/di liberazione che non poteva sentir propri (la parola liberale facendogli venire, anche a giusto titolo, l'orticaria, considerando l'esperienza storica del c.d. liberalismo italiano).

Ciò pone(va) un problema enorme ai comunisti, come Gramsci, perché li spinge(va) a trovare una soluzione a un problema difficilissimo da affrontare, sia sul piano teorico che sul piano pratico dell'azione politica.

Per altro verso, un problema ulteriore, che oltretutto sperimentiamo oggi, era il liberismo delle elite culturali cui Gramsci intendeva riferirsi. Sotto il profilo storico, non va dimenticato che il liberismo dell'epoca, che caratterizzava quelle elite culturali, nasceva sul piano pratico dall'esigenza di liberare l'Italia dai parassitismi prodotti dal protezionismo. A questo riguardo, si ricordi il manifesto indirizzato da Matteotti ai lavoratori che abbiamo citato nel post di alcuni mesi fa dedicato a quest'ultimo.

La prova del liberismo economico è stata nondimeno scarsa. Rammentiamo che nella discussione tra Croce ed Einaudi su liberismo e liberalismo il secondo sosteneva, se possiamo dire così, che il liberismo altro non fosse che la teoria economica del liberalismo, ragion per cui un sistema politico liberale presuppone una politica economica liberista. Se ciò può esser vero in linea teorica, resta nondimeno vero che alla prova dei fatti il liberismo è stato il sostrato economico della politica economica del fascismo istituzionale e di governo (ovverosia di un regime comunque illiberale) negli anni '30 del secolo scorso, politica che può essere simbolizzata nella battaglia per quota 90.

Quale politica economica, quindi, fare sulla base di queste premesse che l'esperienza storica ci consegna?

Giunti sin qui, resta da chiedersi se tutta questa discussione rappresenta un mero esercizio di facoltà mentali o se invece si tratta di questioni vive e attuali quantomeno per quel che concerne il nostro paese. Verrebbe da dire che già il fatto di aver posto questi problemi significa che essi sono tutti tuttora presenti nella storia del nostro paese, nel senso che essi agiscono sulla nostra realtà giornaliera.

Non v'è dubbio che la storia del nostro Paese ci consegna alcuni momenti di progresso e di liberazione, in vari sensi. La definitiva liberazione dagli austriaci al termine della prima guerra mondiale (anche se qui dovremmo intenderci sul senso di quella guerra), la Resistenza, la Costituente e infine le lotte sociali per migliorare questo paese sul finire degli anni '60 e l'inizio degli anni '70.

Questo processo si è però fermato agli anni '70 e da quel momento in poi l'Italia ha fatto solo passi indietro. Non è affatto un caso ciò a cui stiamo assistendo oggi, non è affatto un caso cioè che il nostro, dopo 10 anni di crisi, sia un paese incupito, intollerante, in cui si ascoltano sirene autoritarie, impoverito.

La risposta ai problemi di oggi, che vengono per vero dal passato, sta nel tentativo di riprendere l'idea di quell'incrocio tra Gramsci e Gobetti e di sperimentarlo nella sua possibilità reale di fronte alle temperie che il tempo in cui viviamo ci impone.

 
 
 

Il caso Renzi

Post n°148 pubblicato il 23 Luglio 2017 da single_sound
 
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La pubblicazione del libro di Matteo Renzi ha sollevato parecchie discussioni. Francamente, non ce n'è una che valga veramente la pena di essere approfondita. Chi ha memoria, difatti, ricorda che in fondo ha ragione Renzi quando dice che anche la minoranza interna gli chiese di rilevare Letta. Chi rammenta le dimissioni di Fassina da Vice Ministro dell'Economia, ricorderà che esse ebbero luogo proprio dopo le primarie del 2013 per invitare il PD a ricomporre il governo sulla base dei risultati delle primarie.

Il che la dice lunga pure sulle capacità della minoranza del PD e di ciò che ne rimane...

Ma il punto da affrontare non è questo. Il punto è un altro. Che sia letto o no, il libro di Renzi ha provocato una mole di discussioni. Ma se ce le fossimo risparmiate, sarebbe stato di gran lunga meglio.

Dove sta il problema? Il problema risiede segnatamente nel fatto che quando Renzi parla (anche se non è il solo a far così) non parla mai dicendo la verità. Di ogni questione egli taglia un pezzo, quello che gli conviene. Quello che non gli conviene lo scarica addosso agli altri. Siamo dunque in presenza di mezze verità spacciate per l'intera verità. Ciò comporta, in definitiva, che la mezza verità, presentata come interamente vera, sia a quel punto una falsità.

Ora, nessuno mette in discussione il diritto alla libertà di espressione del pensiero di Renzi, né tantomeno può essere messo in discussione il diritto di Renzi a una rivincita politica.

Però, detta sinceramente, così non può andare avanti. Perché questo modo di procedere, per di più senza volere il contraddittorio (se ci fate caso, infatti, i politici realmente non si confrontano mai limitandosi a ripetere i propri slogan ogni volta; il ragionamento in sostanza non ci sta), mina la libertà di espressione del pensiero. In altre parole, prima o poi, verrà un giorno in cui qualcuno si alzerà e dirà basta. Se non è possibile comportarsi diversamente, allora è meglio far tacere le persone che farle esprimere. Questa è la conseguenza di simili comportamenti. Si chiama regime autoritario. E si spera che ci siano ancora persone che non lo vogliono.

Bisogna ricordarsi che il diritto alla libertà di espressione del proprio pensiero è per l'appunto un diritto espresso in una regola. Non può essere circondato da regole formali supplementari che ci dicono pure come comportarci quando ci esprimiamo. Sta a noi seguire regole di condotta, che sono essenzialmente non giuridiche e che ci impongono di trattare le questioni non solo secondo convenienza e nella loro complessità e compiutezza.

Se non si agisce così, e Renzi in ciò ha una grave responsabilità per via del suo comportamento iterativo, il rischio è appunto di mettere in pericolo la libertà di espressione del pensiero, perché certi argomenti e come sono esposti in verità non si possono, appunto, più ascoltare.

 
 
 

I problemi di un'area monetaria ottimale

Post n°146 pubblicato il 23 Luglio 2017 da single_sound
 
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E' trascorso un po' di tempo dall'ultimo post. Sono successe varie cose, ma non vale la pena tornarci sopra (eccezion fatta che per Renzi, cui magari dedicheremo un post a parte). Meglio continuare per ora a dedicarci a problemi non meramente immediati e ad approfondire la realtà.

Un tema interessante da trattare e che, del resto, è da anni all'attenzione è quello delle aree monetarie ottimali, punto su cui si è concentrato molto il Prof. Bagnai (e non solo) nel corso della sua attività divulgativa. Ora, non è possibile affrontare il problema con la stessa competenza e, contemporaneamente, non è possibile per ogni questione da affrontare fare citazioni. Premettiamo dunque che l'impianto di questo post è ricavato, anche andando a memoria, dal manuale di economia monetaria di Paul De Grauwe.

La teoria dell'area monetaria ottimale è stata sviluppata, per primo, da Mundell (ritratto nella foto che accompagna questo post) nel suo articolo intitolato, appunto, A Theory of Optimum Currency Areas (qui di seguito: http://www.columbia.edu/~ram15/ie/ie-12.html).

Cos'è un'area monetaria ottimale? E' una regione, comprendente più paesi, che sulla base di determinate condizioni potrebbe adottare un regime di cambio fisso anziché di cambio flessibile. Le condizioni per aversi un'area monetaria ottimale sono le seguenti:

1) mobilità dei lavoratori all'interno dell'area;

2) flessibilità del salario (cioè, capacità dei salari di assorbire gli shock; in altri termini di contrarsi ove necessario);

3) trasferimenti fiscali tra una zona e l'altra dell'area;

4) le zone dell'area devono avere lo stesso ciclo economico, perché una gestione della politica monetaria all'interno dell'area sarebbe altrimenti inefficace e rischierebbe di amplificare piuttosto che contenere gli shock (se i cicli non fossero coordinati si avrebbea allora uno shock asimmetrico).

Questa teoria pone una serie di problemi che sarebbe il caso di affrontare. Facciamolo con alcuni esempi immediati.

Per esempio: l'Italia, supponendo che ci sia ancora la lira, potrebbe considerarsi un'area monetaria ottimale? La risposta è sì. Ma partiamo anzitutto dalla premessa che il processo di unificazione della penisola è stato anche un processo di unificazione monetaria tra le sue regioni, che ha portato vari problemi (dallo scandalo della Banca Romana alla gestione, da parte del Governo Letta, dell'aumento di capitale di Banca d'Italia; tutti questi problemi sono stati il portato dell'unificazione monetaria nazionale). Vediamo poi perché l'Italia potrebbe considerarsi un'area monetaria ottimale. Essenzialmente per due ragioni. La prima è che storicamente in Italia si è assistito al trasferimento di lavoratori dal sud al nord del Paese (qualcuno avrebbe parlato di invasione... anche se storicamente la prima e peraltro armata venne fatta, per creare l'Italia, da nord verso sud, ma come diceva Gramsci: la storia insegna ma non ha scolari). Ciò ha consentito al nord di avere manodopera per il suo sviluppo, mentre il sud veniva compensato con trasferimenti fiscali decisi dal Governo centrale (vedi alla voce Cassa del Mezzogiorno).

Attenzione, però, è solo in presenza di trasferimenti fiscali, là dove oltretutto ci sono spostamenti di popolazione di questo tipo con tutti i problemi che tali fenomeni comportano, che è possibile mantenere, più o meno, coordinati i cicli economici delle regioni componenti l'area. Diversamente i differenziali di crescita, in assenza di compensazione, esploderebbero, con la conseguenza che i cicli economici si differenzierebbero e diverebbero ingestibili con una politica centralizzata. Ci torneremo in conclusione.

Dalla formulazione della teoria delle aree monetarie ottimali a oggi, gli economisti americani hanno sostenuto che l'Europa non era e non è un'area monetaria ottimale (bisognerebbe ricordarsi sempre quali erano le risposte degli europei a queste critiche, ossia che gli americani volevano impedire la formazione della moneta unica perché temevano che soppiantasse il dollaro... chiamiamolo nazionalismo in assenza di nazione... questa risposta degli europei andrebbe messa come epitaffio del nostro modo di ragionare). Perché lo sostevano? Principalmente per le seguenti ragioni:

1) perché in Europa, a causa delle differenze linguistiche, non esistono movimenti di lavoratori in grado di compensare gli shock economici;

2) perché in Europa non esiste la flessibilità salariale, in considerazione del fatto che normalmente vige il divieto legale di rimodulare il salario al ribasso;

3) perché non esistono meccanismi di trasferimento fiscale dalle regioni ricche a quelle più povere;

4) perché i cicli economici non sono sempre coordinati per cui uno shock rischia di colpire l'area asimmetricamente.

A ciò si aggiungano le critiche successive allo Statuto della BCE che persegue in primis l'obiettivo della stabilità dei prezzi e solo poi la crescita economica, in aggiunta al divieto di coprire i debiti pubblici dei paesi della zona euro.

Ora, premesso che la BCE, nei fatti, come ricordava Riccardo Bellofiore, ha fatto ciò che il suo Statuto all'apparenza gli impedirebbe (non entriamo ora nelle distinzioni legali sull'operato della BCE nel mercato secondario anziché primario), il problema dell'Europa come area monetaria ottimale pone, in relazione alla teoria, problemi da affrontare non indifferenti.

Qui meritano di essere affrontati almeno due aspetti. Il primo concerne la flessibilità salariale. In realtà, a fronte di un divieto legale di rimodulazione al ribasso del salario, l'Europa è un'area dove gli aggiustamenti salariali sono possibili. Due sono le strade, prendendo a prestito come esempio l'Italia:

1) blocco ex lege dei salari dei dipendenti pubblici;

2) innalzamento della disoccupazione mediante i licenziamenti collettivi.

Nel primo caso, è di tutta evidenza che un blocco salariale prolungato per anni, se non riduce nomilamente il salario, lo riduce in termini reali. Una recessione infatti avrà sì un effetto sull'inflazione, ma dopo un certo periodo di tempo in ragione dei c.d. effetti dinamici. Nel periodo che porta alla deflazione, il salario bloccato del lavoratore pubblico sarà eroso in termini reali dall'inflazione, il cui tasso di crescita si andrà progressivamente riducendo fino ad arrivare, come siamo arrivati, alla crescita negativa dei prezzi.

Nel secondo caso, in un ordinamento, come quello italiano, che consente giocoforza i licenziamenti collettivi, un lavoratore che sia licenziato in una procedura collettiva può trovarsi a passare da un lavoro all'altro, magari dopo una fase di Cassa Integrazione, e quindi da una remunerazione più alta a una più bassa. Non è questo comunque un meccanismo di aggiustamento salariale?

In disparte la questione dell'acquisto di titoli di debito pubblici da parte della BCE (che potrebbe aver alleviato, ma non risolto il problema), in assenza di meccanismi di trasferimento fiscale e senza flussi di popolazione verso le aree  a maggior reddito in grado di far assorbire lo shock, l'unico meccanismo che consente all'Europa di andare avanti come area monetaria ottimale è proprio quello della modulazione al ribasso dei salari, meccanismo che in effetti esiste ed è praticato.

Ciò pone un problema non irrilevante. Se il meccanismo di flessibilità salariale, come abbiamo visto, esiste ma è l'unico sostanzialmente a funzionare per reggere l'area, questa è ottimale o no? E quanto può durare così?

Il problema non è di poco conto e investe l'area "no euro" che anni fa predicava che l'unione monetaria non poteva classificarsi come un'area monetaria ottimale, sicché essa sarebbe scomparsa più presto che tardi.

Per incidens, si noti la contraddizione in chi afferma che l'unione monetaria non è ottimale ma poi si lamenta che gli aggiustamenti vengono scaricati tutti sul lavoro. Ma allora esiste, appunto, un meccanismo di aggiustamento, pessimo od ottimo che sia.

Il problema su cui possiamo interrogarci semmai è se quel meccanismo è di per sé in grado di reggere l'area e per quanto tempo. Tale problema solleva una domanda generale: ma questo è un problema economico o è piuttosto un problema politico-sociologico? Mettiamola così: è assolutamente un problema economico, ma è anche un problema politico e sociologico. Pensare comunque di risolvere tutto con gli strumenti dell'economia non basta. Anche perché per risolvere questo problema "economico" occorrono strumenti politici e sociologici. La teoria economica a quel punto lì si ferma.

Avviandoci alla conclusione, viene da domandarsi se non sia possibile possibile ipotizzare di pescare tra i meccanismi elencati sopra per rendere l'unione monetaria maggiormente sostenibile.

Alla luce del ragionamento svolto, si può dire che l'unico possibile, indipendentemente ora dalla sua praticabilità politica (che non esiste), è quello dei trasferimenti fiscali da una regione all'altra. Qui possiamo riprendere le considerazioni svolte relativamente all'Italia. Sono stati i trasferimenti fiscali dalle regioni prospere a quelle depresse a far sì che l'Italia potesse considerarsi un'area monetaria ottimale, altrimenti i differenziali di crescita sarebbero esplosi rendendo con ciò impossibile il perseguimento di politiche centralizzate (ciò che, con ogni evidenza, avrebbe comportato il dissolvimento dell'area e quindi del Paese).

In relazione a quest'aspetto notiamo un altro problema della teoria dell'area monetaria ottimale. Ovvero che il problema non risiede tanto nel coordinamento dei cicli economici ma nei potenziali di crescita dei singoli paesi giacché sono questi poi a determinare le divaricazioni di ciclo.

Prendiamo come esempio la recessione del 2009. Questa ha impattato simmetricamente su tutti i paesi dell'area monetaria. In teoria, il ciclo in principio era coordinato, poiché tutti i paesi dell'area sono stati investiti dalla stessa recessione, ma poi si è divaricato. Perché? Per quello che si diceva prima, cioè perché le economie dell'area hanno potenziali di crescita diversi e le divaricazioni sono amplificate da politiche economiche, fiscali e monetarie, che non tengono conto delle asimmetrie dell'area.

Ora, nessun economista ci spiega da cosa derivano queste asimmetrie economiche. Sono forse un mistero inspiegabile? No, assolutamente, le asimmetrie economiche si spiegano cambiando nome al termine che si impiega. Le asimmetrie economiche non sono altro che il portato delle asincronicità tra Stati e regioni europee. In questo senso, il ricorso alla teoria storiografica degli Stati asincronici ci permette di cogliere il punto reale nella sua complessità, che non è solo economico ma storico-politico.

In Europa i due fenomeni principali che hanno determinato le asincronicità e asimmetrie che oggi sperimentiamo sono due: la formazione degli Stati nazionali e la nascita del capitalismo.

Alcuni Stati si sono formati prima, altri dopo. Il capitalismo, grazie alla riforma protestante, ha attecchito meglio e prima in alcune regioni europee (dove peraltro alcuni Stati nazionali si sono costituiti dopo rispetto ad altri) piuttosto che in altre (Italia e Germania sono due Stati asincronici rispetto a Francia e Gran Bretagna, ma in Germania il capitalismo ha attecchito meglio che in Italia).

E' da questo groviglio di asimmetrie e asincronicità che tocca ripartire per affrontare i problemi di oggi.

Si può dunque concludere, sperando di non essere troppo lapidari, che non solo la teoria delle aree monetarie ottimali deve essere ancora ulteriormente approfondita tramite l'analisi dell'esperienza attuale, ma che essa non è autosufficiente dovendo essere integrata da strumenti di analisi presi da altre discipline.

 
 
 

La crisi del 1998

Post n°145 pubblicato il 03 Giugno 2017 da single_sound
 
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Lo scontro televisivo di ieri tra D'Alema e Damilano sulla crisi del 1998 del I Governo Prodi (http://video.repubblica.it/politica/d-alema-insulta-damilano-lei-e-uno-stupido-poi-le-scuse-attacco-rude/277514/278111?ref=RHPPBT-BS-I0-C4-P8-S1.4-T1) non ci dice quasi niente di ciò che andrebbe detto e spiegato a proposito di quella vicenda. Potrebbe sembrare un tema che oggi potremmo dare per morto e sepolto. E invece non è così, come vedremo di seguito.

Ora senza entrare in troppi dettagli relativi a quel periodo (come gli incontri riservati tra alcuni esponenti di Rifondazione e qualche personaggio del Governo, i cui contenuti in termini di proposte negoziali non sono mai stati rivelati), per far chiarezza intorno a quella crisi politica per cercare di comprenderla prima di assegnare le reponsabilità bisogna partire da alcuni presupposti che si elencano di seguito:

1) la legge elettorale allora vigente era il mattarellum, cioè il 75% dei seggi assegnati col metodo maggioritario first past the post (senza  doppio turno) e il 25% dei seggi assegnati col metodo proporzionale;

2) il centrosinistra si presentò alle elezioni del 1996 col nome Ulivo, guidato da Prodi, ma a tale coalizione non partecipava affatto Rifondazione Comunista;

3) per impedire alla destra di vincere e far convergere i voti sui candidati di sinistra e centrosinistra, oltre a garantire a Rifondazione una sicura rappresentanza parlamentare, Ulivo e Rifondazione siglarono un patto di c.d. desistenza, vale a dire Rifondazione presentava alcuni candidati in collegi uninominali sicuri senza che contemporaneamente fosse presente un candidato dell'Ulivo così da garantirne l'elezione, mentre negli altri collegi Rifondazione non si presentava così da garantire la confluenza dei suoi voti verso i candidati dell'Ulivo;

4) il patto di desistenza non comportava la redazione di un programma congiunto tra Rifondazione e Ulivo;

5) i risultati delle elezioni impedirono all'Ulivo di avere una maggioranza autonoma e Rifondazione, per far partire il Governo, fu costretta ad appoggiarlo dall'esterno.

A complicare il quadro stava ulteriormente il fatto che non si discusse minimamente dell'ingresso dell'Italia nella moneta unica nella campagna elettorale del 1996. La decisione fu presa da Prodi e Ciampi nell'estate del 1996 dopo i colloqui con Aznar, allora Presidente del Consiglio spagnolo, il quale rappresentò a Prodi la volontà della Spagna di entrare subito nella moneta unica. Ciò spinse Prodi e Ciampi ad accelerare l'ingresso che, andando a memoria, poiché l'Italia non soddisfaceva allora i parametri per l'ingresso nella moneta unica, non sarebbe stato discusso prima del 1998.

Questo era il quadro. Se non lo si ricorda, si può fare come Damilano e dare tutta la colpa a D'Alema. Certo, si può pensare che D'Alema manovrò per succedere a Prodi. Ma attenzione furono Prodi e Bertinotti a volere la crisi. Prodi la provocò chiedendo la fiducia della Camera e Bertinotti non si sottrasse (anche a costo di spaccare Rifondazione).

Qual era il motivo del contendere? Ebbene, nessuno lo ricorda mai, pur trattandosi di un tema di attualità, ma la questione era rappresentata dalle politiche che oggi definiremmo di austerità.

Chi aveva più di 20 anni all'epoca ancora ricorda l'istituzione dell'eurotassa per entrare in Europa, tassa per la cui introduzione il Governo dell'Ulivo non aveva alcun mandato elettorale.

Dopo la decisione europea della primavera 1998 circa l'ingresso dell'Italia nella moneta unica, Rifondazione chiese nell'estate dello stesso anno un allentamento significativo delle politiche di austerità.

La risposta da parte del Governo e principalmente da parte di Prodi (perché Ciampi, in quanto ministro tecnico, non entrava in queste discussioni) fu assolutamente negativa.

E ciò perché, aldilà del punto di merito sollevato da Rifondazione, non si poteva mettere in discussione l'impianto delle regole europee il giorno dopo essere entrati nella moneta unica. Da questo punto di vista, Prodi e Ciampi avevano pure ragione.

Il problema era per l'appunto che Rifondazione non faceva parte del Governo e non esisteva un programma di governo comune a Rifondazione e Ulivo. Per di più, la scelta di entrare nell'euro fu voluta dal Governo e subita da Rifondazione, senza che in Italia vi fosse stata (durante le elezioni e dopo) alcuna discussione in merito.

Ora, è vero che a quel tempo vi era una diversa fiducia verso il progetto europeo, ma in termini di analisi, relativamente alle politiche di austerità, la posizione di Rifondazione era quella corretta. In altri termini, Prodi e Ciampi, precipitando l'ingresso dell'Italia nella moneta unica, scavarono la fossa dell'Ulivo.

Quale fu l'errore, se così si può dire, di Bertinotti? A quel tempo fu di non capire che una crisi di Governo avrebbe riaperto le chance del centrodestra di tornare a vincere le elezioni, come avvenne nel 2001 sulla base di una campagna tutta fondata sulle divisioni della sinistra e sull'instabilità di governo che sarebbe risultata da una vittoria della sinistra alle elezioni.

Questi sono i fatti. E andrebbe rimarcato con ancor maggior forza come alcune decisioni che hanno segnato la storia del nostro Paese siano avvenute al di fuori dei canoni di una democrazia funzionante. Il divorzio Banca d'Italia-Tesoro tramite un mero scambio di lettere, senza informare Governo e Parlamento. L'ingresso nella moneta unica senza che fosse sottoposto a previo vaglio elettorale, quando alle elezioni del 1996 nessuno ne parlò.

Ma se questi sono i fatti, che senso ha continuare a fare come Damilano, cioè perpetuare teorie del complotto che non aiutano minimanente a spiegare la dinamica politica dell'epoca e in fondo di oggi?

 
 
 
 
 

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