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La storia di Filippo: il racconto di Sara

Post n°20 pubblicato il 19 Dicembre 2009 da legambientelomellina

Sono appena rientrata dal giardino, ho controllato se Anna sta bene.

Si, sta benone, ha mangiato anche i pezzettini di anguria. I vermi invece li ha spazzolati subito stamattina, sei grosse succulente camole, per la precisione.

Se fosse una persona la invidierei… le direi ma come fai a restare in forma, con quel che mangi!

 

Anna è un pulcino di gallinella d’acqua; l’ho trovata domenica, che per l’appunto era il 26 luglio, Santi Gioacchino e Anna… di chiamarla Gioacchina neanche a parlarne, per cui ho optato per Anna.

A dire il vero sarebbe più corretto dire che lei ha trovato noi (Fausto, Monica e me, di ritorno da un week end in Val Curone ad osservare le stelle); correva all’impazzata sulla via, spaventata a morte dalle auto. Lì vicino scorre un fossetto piccolo e poco pulito, forse veniva da quelle parti. Abbiamo prontamente fermato il traffico (gli altri automobilisti non ci hanno amato molto) e ci siamo dati all’inseguimento; c’è voluta molta maestria per riuscire a prenderla, perché la piccola corre veloce sulle lunghe zampette, che la fanno assomigliare ad un incorcio tra Calimero e una specie lillipuziana di gru.

Di altre gallinelle nel fossetto neanche l’ombra; niente genitori o fratellini, o almeno parenti di secondo grado… vista la sua tendenza a gettarsi sotto le auto, ho pensato bene di portarmela a casa, almeno per un paio di settimane se ne starà nel recinto che le ho preparato nell’ex orto, ben soleggiato al mattino ma in ombra nelle ore più calde, erba sia alta che bassa, piscinetta, cibo in abbondanza, insomma tutti i comforts.

Sono qui nel mio ufficio al piano terra di casa, ma mentre lavoro mi capita di interrompermi, esco e vado a controllare se sta bene, ma di soppiatto, senza farmi vedere; quando mi avvicino scappa a nascondersi tra le foglie, il che è un bene, significa che non si è abituata alla presenza dell’uomo.

Tra qualche giorno la porterò in un luogo più tranquillo e la lascerò libera… l’oasi Bosco del Vignolo a Garlasco magari, oppure l’Agogna Morta tra Borgo Lavezzaro e Nicorvo, una zona umida bellissima in cui troverà certamente un gran numero di suoi simili con cui iniziare la sua nuova vita.

 

La piccola Anna mi riporta inevitabilmente alla memoria suo “fratello maggiore” Filippo.

Me lo portò il 3 maggio di qualche anno fa l’impresario edile signor Casabona (“Luigi, mi chiamo Luigi” mi diceva, è un tipo pratico e quel “signor Casabona” gli andava stretto).

In quel periodo Luigi stava ristrutturando una vecchia cascina. Esce dall’edificio e trova Filippo sul parabrezza del suo camion. Era caduto dal secondo piano, quando gli operai avevano demolito il tetto e, probabilmente indeciso tra lo shock e il terrore, si era addormentato.

Luigi mi dice: <<Architetto, so che lei è di Legambiente, ho trovato quest’uccello, può portarlo a qualcuno che sa cosa fare?>>

E io: <<Si si certo! Lo porto senz’altro alla LIPU!>>

… poi apro la scatola, lo guardo e scatta la scintilla dell’amore.

Un minuscolo piumino con grandi occhi neri, zampette artigliate, un piccolo becco adunco; un pulcino di gufo.

Un gufo, piovuto letteralmente dal cielo, un animale che adoro, affascinante, misterioso, inafferrabile… e io ora ne ho qui uno… ma siamo sicuri che lo voglio portare alla LIPU? Nooo…. Non ne sono poi tanto sicura, anzi… per niente…

Mi rimorde la coscienza, ma dove sono finiti i miei principi? Beh guardalo lì, che meraviglia… potrei crescerlo io, finchè non ha le penne adatte a volare… Ma senza tentare di farne un animale domestico, non sono mica una criminale, no! Lo crescerò per essere libero! Ma intanto ci penso io a lui, tesoro, me lo tengo per un po’ … un gufo, santo cielo, ma quando mi ricapita?

<<Eh no, quale gufo!>> fa Fausto (si, lo stesso che mi ha aiutato a inseguire la gallinella Anna) <<questo è un piccolo di allocco!>> con questo dimostrando la mia ignoranza nel campo delle specie animali.

Eh si, un allocco, come li chiamiano noi perché, da bravi rapaci notturni, dormono tutto il giorno e non hanno certo un’aria intellettualmente brillante mentre se ne stanno appollaiati a ronfare… come se qualcuno osservasse noi, di notte, stesi nei nostri letti, con l’espressione ebete persa nei sogni, e dicesse: beh questo qui non mi pare troppo intelligente.

Contrariamente ai gufi e alle civette, amano fare il nido negli edifici abbandonati o poco frequentati (ecco cosa ci faceva nella vecchia cascina in ristrutturazione).

Mia madre e mia sorella diedero in escandescenza non appena varcai la porta di casa con quello che definirono “l’uccello del malaugurio”. Vista l’accoglienza ostile, decisi per un’altra sistemazione e lo portai al Casello delle Acque, una bellissima costruzione in mattoni rossi a cavallo tra due canali, vicino alla chiesa di Sant’Anna a Cilavegna; quella era allora la sede del mio circolo Legambiente. Nel giardino sul retro della costruzione c’è un vecchio rustico, dotato di posatoio per galline: l’ideale. Vi depositai il piccolo Filippo e me ne andai. Avevo molto da fare: dovevo documentarmi a fondo sulla vita, le abitudini e l’alimentazione degli allocchi.

 

Il piccolo rapace si rivelò un animale robusto, di carattere gagliardo e facilissimo da allevare.

Ogni sera andavo a Cilavegna per nutrirlo e controlare che tutto andasse bene. Su internet avevo trovato una quantità di informazioni sulle abitudini di comportamento e di alimentazione della sua specie.

Filippo, nei suoi rapporti con me, era molto ostile e sapeva per istinto di essere un dominatore. Ogni volta che mi avvicinavo per nutrirlo, spalancava le ali, gonfiava le piumette per mostrarsi più grosso e schioccava il becco… voleva che fosse chiaro da subito che, tra noi due, il predatore era lui! Poco importa se mi stava in una mano.

Le commesse del supermercato mi conoscevano ormai come “la mamma del gufo”; il reparto carne e pesce fresco erano le mie mete preferite. Per lui solo carne sceltissima, pollo e anche un po’ di pesce azzurro (gli allocchi normalmente non mangiano pesce, ma a quanto pare solo perché non sanno pescarlo, perché quando se lo ritrovano servito in tavola lo gradiscono eccome).

Mescolavo la carne trita con le piume tolte dal mio cuscino, lasciavo le ossicine al pollo e le lische e al pesce, triturandole con il pestacarne perché non si soffocasse. Infatti la mamma di solito li nutre con brandelli di piccoli animali, inclusi pelle, peli e ossa, e poi i piccoli rigurgitano tutti gli “scarti” poco nutrienti. Anche Filippo aveva imparato a fare il suo bel rigurgitino; ogni sera, quando andavo a nutrirlo, controllavo se per terra c’era una palletta compatta, lo scarto del pasto del giorno precedente.

Per nutrirlo indossavo guanti di pelle e occhiali protettivi, perché anche se piccolo aveva pur sempre dei begli artigli, e lo imboccavo con una comune e banalissima forchetta. Lui se ne stava posato sul trespolo per galline, a un paio di metri da terra, mangiava ma mi osservava circospetto, con l’aria enigmatica di chi non sa se considerarti un amico, una seccatura o una preda troppo cresciuta.

 

Andavo a trovarlo solo una volta al giorno, il tempo strettamente necessario a dargli la pappa, venti minuti, mezz’ora al massimo, poi molto a malincuore mi costringevo ad andarmene.

Avrei trascorso con lui ore e ore, ma si sarebbe abituato a me, e con me alla presenza dell’uomo in genere. Ben presto si sarebbe verificato quel fenomeno del comportamento animale noto come “imprinting”, che ogni cucciolo ha nei confronti di chi lo accudisce.

Quasi sempre le figure di riferimento sono i genitori, ma in questo caso Filippo avrebbe identificato me come un suo simile, smarrito la propria identità credendosi un essere umano, e non avrebbe mai più potuto essere liberato in natura.

Certo, desideravo essere io a crescerlo, non volevo rinuciare all’emozione di quel breve contatto quotidiano con una creatura così speciale. Ma non avevo certo l'intenzione di trasformarlo in un patetico surrogato di animale domestico. Lui mi permetteva di vivere un’esperienza meravigliosa finchè rimaneva se stesso, un animale selvatico destinato alla libertà.

Mi ritrovai ad avere le lacrime agli occhi mentre lo imboccavo, a raccontargli favole di luoghi che neanch’io avevo mai visto, di cose che non avrei mai potuto fare.

Gli raccontai di com’è bello trovare un buco accogliente nel tronco di un albero, in un bosco antico e frondoso, sonnecchiare tutto il giorno per poi uscire silenzioso in una notte stellata, cercare la preda, e planare infine micidiale su un succulento topo di campagna.

Gli raccontai persino di com’è bello volare.

 

Non ci volle molto perché la dieta iperproteica cui l’avevo sottoposto desse i suoi frutti.

Dopo quasi due mesi, il pulcino aveva più che triplicato le proprie dimensioni e molte, belle e lunghe penne spuntavano dalle ali e dalla coda. Era sempre più nervoso, svolazzava da un capo all’altro del capanno… Non era certo un adulto, ma era diventato un adolescente, e si sa, gli adolescenti vogliono i loro spazi.

Una sera di giugno gli diedi la pappa, e mi azzardai ad accarezzargli le penne (qualche schiocco del becco mi ricordò che non dovevo prendermi troppe confidenze).

Feci finta di niente, non mi piacciono gli addii, e poi perché doveva essere un addio? Ci saremmo certo rivisti. Lasciai la porta del capanno aperta, e gli raccomandai di volare bene e non finire dritto nel canale. Il giorno dopo non c’era più.

Ciao Filippo!

 

 
 
 
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