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l'india non è il tibet

Post n°336 pubblicato il 31 Agosto 2008 da monastero.invisibile

L’india non è il tibet
di Antonio Bruno
 
L’articolo di Marco Bellizzi sull’Osservatore Romano di oggi e la puntata della trasmissione TV “A Sua immagine” di questa mattina su RAI UNO pongono il problema di ciò che sta accadendo in India, delle violenze su sacerdoti, religiose e religiosi che in quella terra organizzano scuole, asili e servizi sociali.
Un cristianesimo che si realizza nella storia, che è storia, che diviene servizio di uomini e donne ad altri uomini e donne. Io penso che questo è il punto della faccenda.
In un paese democratico dell’Asia un gruppo di uomini e donne di fede cristiana che hanno delle organizzazioni che erogano servizi sono oggetto di un attacco violento rivolto sia alle loro persone che alle strutture di cui si servono per erogare i servizi sociali e i luoghi che utilizzano per il culto.
Spetta a quel governo, al governo dell’India che è sovrano, laddove si svolgono libere elezioni a cui prendono parte anche questi uomini e donne di fede cristiana, che gestiscono delle organizzazioni che erogano servizi sociali, consentire che le tali organizzazioni abbiano la possibilità di operare liberamente senza subire una concorrenza violenta da parte di altre concorrenti agenzie educative e di servizi che appartengono a diversa fede religiosa.
Secondo me il problema è tutto interno allo stato sovrano dell’India e non penso c’entri gran che il nostro comune credo in Gesù.
I nostri fratelli indiani che hanno la nostra stessa fede stanno subendo un attacco violento sia personale che alle organizzazione di servizi sociali che gestiscono da parte di altri indiani che hanno organizzazioni sociali concorrenti e che professano anche un diverso credo religioso.
Un problema di rivalità.
Io non sono in India e non so come si possa essere sviluppata questa rivalità mimetica violenta che ha individuato nella comunità dei cristiani (subiscono violenze anche i protestanti) il capro espiatorio. Sicuramente c’è una crisi di quella organizzazione che ha posto in essere questo attacco e certamente tale organizzazione ha individuato nell’organizzazione dei cristiani in India la causa della sua crisi. Quindi il meccanismo che si è generato è il seguente:
Noi Indiani Indù abbiamo dei problemi all’interno della nostra organizzazione, chi causa questi problemi sono gli Indiani cristiani che ci stanno togliendo i seguaci con tutte queste scuole asili e servizi di assistenza che hanno posto in essere, se noi eliminiamo gli Indiani cristiani il nostro problema è risolto.
Più o meno lo stesso ragionamento dei cinesi che ritengono il tibet un loro territorio in cui vivono degli altri cinesi di fede buddista e che tra loro si dicono:
Noi Cinesi Atei abbiamo dei problemi nella nostra organizzazione, chi li causa sono i Cinesi di fede Buddista che ci stanno togliendo i seguaci con tutte pratiche di padronanza di se che pongono in atto nelle loro strutture, se noi eliminiamo i Cinesi di fede Buddista il problema è risolto.
La differenza tra la Cina e l’India sta nella circostanza di non poco conto che i cinesi hanno un sistema di governo totalitario mentre gli Indiani sono certamente in una democrazia.
Se tutti noi sappiamo che in una situazione totalitaria è impossibile per una minoranza perseguitata tutelare le proprie credenze e tradizioni e quindi, esprimendo solidarietà a questa minoranza perseguitata, chiediamo l’intervento della comunità internazionale per liberare i tibetani perseguitati dalla dittatura cinese non possiamo fare altrettanto nel caso dei cittadini indiani che vivono in un paese democratico che, pur essendo sede di contraddizioni e di condizioni di povertà estrema, consente a tutti i cittadini di decidere chi li governa attraverso l’esercizio del voto in libere elezioni democratiche.
Nel caso dell’India quindi è del tutto evidente che spetta al governo indiano risolvere il problema dei cittadini indiani a qualunque fede essi appartengano. Che possiamo fare noi? Penso nulla!
Altrimenti sconfineremmo, qualunque cosa facessimo,  nell’ambito dell’ingerenza negli affari interni di uno stato sovrano che abbiamo sempre considerato una faccenda da evitare in ogni caso, come scrivemmo e dicemmo ai tempi dell’Iraq.

 
 
 
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