Creato da as_scacciapensieri il 19/09/2008
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Post n°180 pubblicato il 16 Gennaio 2010 da as_scacciapensieri

 
 
 

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Post n°179 pubblicato il 14 Gennaio 2010 da as_scacciapensieri

La dinamica dell'esercitazione è molto interessante. Tuttavia, ritengo sia meglio richiedere la ricezione con l'interno del piede più lontano rispetto alla traiettoria di arrivo della palla, (destro con palla proveniente da sinistra e viceversa) in modo da poterla subito giocare con l'altro piede.

 
 
 

Convegno

Post n°178 pubblicato il 13 Gennaio 2010 da as_scacciapensieri

"Integral - mente" è un convegno riguardante la preparazione atletica e mentale dell'atleta, negli sport di lunga durata, organizzato da Promo 2000, sabato 23 gennaio a Marotta (PU). Per info: promo@libero.it  

 
 
 

Salir jugando

Post n°177 pubblicato il 13 Gennaio 2010 da as_scacciapensieri

 
 
 

Articolo di giornale

Post n°176 pubblicato il 08 Gennaio 2010 da as_scacciapensieri

Giovedì, 24 Settembre 2009
La paura di insegnare dei nuovi professori
GABRIELLA JACOMELLA PER IL CORRIERE DELLA SERA

Hanno appena firmato un con­tratto di assunzione a tempo indeterminato, il che — so­prattutto di questi tempi — dovreb­be aiutare a mettere da parte una buo­na dose di pensieri e preoccupazioni. Hanno detto definitivamente addio agli anni di precariato, all’ansia da graduatorie, ai contratti che scadono con il suono dell’ultima campanella.

Eppure, gli insegnanti italiani non sono tranquilli. Li mette in ansia la difficoltà nel gestire classi dove è in aumento la presenza di bimbi e ragaz­zi stranieri, sfida affascinante ma complicata da gestire senza un’ade­guata preparazione. Li destabilizza la comunicazione sempre più zoppican­te con le famiglie, e non va granché meglio nel match con le nuove tecno­logie: alle scuole superiori, addirittu­ra il 49% riconosce di avere un rap­porto non facile con computer e Web. E più di 2 su 5, tra le new entries che ce l’hanno (finalmente) fatta, non possiedono un titolo di laurea.

Ritratto di insegnanti in un inter­no, quello della scuola italiana ai tem­pi delle riforme che si accavallano e dei fondi che non bastano mai. Ritrat­to accurato, perché le pennellate so­no davvero molte, e fittissime: 15.071, per la precisione, pari al nu­mero dei maestri e prof che hanno (volontariamente) risposto al que­stionario di 223 domande diffuso dal­la Fondazione Agnelli in otto regioni italiane. Piemonte, Emilia-Romagna, Puglia (che avevano già preso parte a una prima indagine, nel 2008); e an­cora, Lombardia, Veneto, Liguria, Marche e Campania. Otto gli Uffici scolastici regionali coinvolti. Com­plessivamente, 16.000 insegnanti ne­oassunti nell’anno scolastico 2008-2009 (il 64% del totale italiano). E quasi tutti, appunto, hanno voluto contribuire con il proprio personalis­simo tocco di pennello.

Le indagini precedenti, per dare l’idea, si aggiravano di norma intor­no alle cinquemila interviste. «Aver superato i 15 mila questionari compi­lati — ammette con un certo orgo­glio Stefano Molina, dirigente di ricer­ca della Fondazione e tra i coordinato­ri del lavoro — significa di gran lun­ga ottenere la più ampia analisi sugli insegnanti mai realizzata in Italia». Non solo: «In questi anni di vacche magre, di assunzioni a tempo indeter­minato se ne sentono poche. Qui, in­vece, parliamo di 50 mila ingressi in ruolo nel 2008, 25 mila nel 2009: stia­mo parlando del più grande fenome­no italiano di immissione a tempo in­determinato nel mondo del lavoro. E il paradosso è che finora non si sape­va bene chi fossero, queste persone: il meccanismo di reclutamento è un po’ opaco, lo stesso ministero ne co­nosce la classe di abilitazione, non i titoli di studio...».

I titoli di studio, ecco. Quella lau­rea che manca, ancora, al 40,7% degli intervistati. I picchi sono, ovviamen­te, nei primi ordini di scuola: nessun «pezzo di carta» per il 75,6% dei «nuo­vi » maestri d’asilo e per il 66,9% degli insegnanti delle primarie. Il motivo? Presto detto: «Si sta raschiando il fon­do del barile delle graduatorie — è la sintesi efficace di Molina —. I neoas­sunti arrivano, per la metà, dalle gra­duatorie di concorso: ma l’ultimo è del 1999, e queste sono persone che si trovavano in una posizione così bassa da vedersi passare davanti, ne­gli anni, moltissimi altri colleghi. L’al­tra metà, invece, viene dalle gradua­torie ad esaurimento, in questo mo­mento chiuse: supplenti che hanno avuto l’abilitazione in stagioni diver­se, con regolamenti diversi». Inse­gnanti del futuro, ma già da rottama­re? Certo che no, anzi: «Stiamo par­lando di professionisti che in media hanno superato i 40 anni di età, di cui quasi 11 di precariato. E se i titoli non sono sempre brillantissimi, han­no una buona esperienza e un’anzia­nità di servizio che sopperiscono in parte alla formazione iniziale inade­guata».

Perché poi, in questo quadro a for­ti chiaroscuri che ritrae l’ultimo batta­glione schierato nelle aule italiane, spiccano dei dati incontestabilmente positivi. «Nel corso degli anni — con­ferma Laura Gianferrari, dirigente dell’Ufficio scolastico regionale per l’Emilia-Romagna e coordinatrice in­sieme a Molina — abbiamo avuto la sorpresa di trovare sempre più la rap­presentazione di un lavoro che ha un’attrattività forte, che dà soddisfa­zione agli insegnanti. Nonostante al­cuni aspetti ben noti: la retribuzione bassa, il riconoscimento sociale che non viene avvertito, gli anni di preca­riato».

E in effetti, se l’80% dei neoassunti ribadisce di aver fatto una scelta «per passione», ben il 95% — un dato in crescita rispetto al 2008 — rifarebbe la stessa scelta. I motivi di soddisfa­zione: il lavoro con i ragazzi (93%), l’interesse per la disciplina (89%), la consapevolezza della propria utilità sociale (84%). Il livello retributivo, per contro, è ritenuto soddisfacente solo nell’11,7% dei casi, mentre il rico­noscimento sociale si ferma al 31,1% — con picchi positivi al Sud: oltre il 40% in Campania, poco sotto in Pu­glia. Il problema vero, però, è un altro. Nelle superiori il 49% dei docenti appena assunti ammette di non conoscere a sufficienza computer e Web Il giudizio «Per la prima volta chi sta in cattedra si sente fortemente inadeguato, soprattutto nel rapporto con gli allievi»

E va sotto il nome di «difficoltà nel­l’insegnare». Una sensazione «in au­mento » e «fortemente trasversale», commenta l’economista Andrea Ga­vosto, direttore della Fondazione Agnelli. «L’impressione è che forse per la prima volta gli insegnanti italia­ni inizino a sentirsi fortemente inade­guati, soprattutto nel rapporto con gli allievi: c’è la percezione di un diva­rio generazionale, tecnologico, di vi­ta e di apprendimento, e loro non sen­tono di avere tutti gli strumenti per affrontarlo». Soprattutto, dati (nuova­mente) alla mano, nelle scuole supe­riori: il 63% degli intervistati confes­sa problemi nel gestire la multicultu­ralità in classe, il 55% non sa interagi­re come vorrebbe con i genitori. Per­sino lavorare in équipe, per il 48% dei neodocenti, è complesso.

«Il punto — prosegue Gavosto — è che il meccanismo di formazione produce una tipologia di insegnante sempre uguale a se stessa, che però inizia a rendersi conto di non essere più quello che serve ai ragazzi di og­gi». E in questo senso, la programma­zione diventa fondamentale: «Più che annunciare tante riforme, l’obiet­tivo per il Paese dovrebbe essere inve­stire in una scuola di qualità. Sulla formazione iniziale, ad esempio: la bozza di regolamento del ministero punta molto su una preparazione di tipo disciplinare, mentre quella peda­gogica è ritenuta sovradimensionata. Bene, gli insegnanti ci stanno dicen­do esattamente l’opposto». Sarebbe il caso di prenderne atto.

 
 
 

dal sito us fossombrone calcio

Post n°175 pubblicato il 06 Gennaio 2010 da as_scacciapensieri

 

Non staremo qui a raccontavi chi era Nils Liedholm e cosa ha rappresentato per il calcio italiano e mondiale. Soprattutto la sua filosofia da allenatore, che applicata al campo ha avuto una portata rivoluzionaria, sicuramente pari solo al Calcio Totale olandese. In Italia, tra gli anni '70 e '80, ha introdotto concetti, principi e metodologie fino ad allora sconosciute, questo basta. Ci interessa  allora solo citarlo, estraendo sue parole da un meraviglioso libro di Sebastiano Catte, "Nils Liedholm e la memoria lieve del calcio" (Ethos edizioni) uscito poco dopo la morte del tecnico svedese, avvenuta il 5 novembre 2007.

Calcio ed estetica: "...mi  ha fatto riflettere quello che scrisse uno scrittore austriaco, per il quale il calcio costituisce per moltissime persone forse l'unica porta d'ingresso al godimento di tipo estetico. Anche per questo ho sempre ritenuto giusto non separare mai l'esigenza dello spettacolo e del bel gioco da quella della competizione. E' una strada molto difficile ma, se si vuole essere lungimiranti e si ha a cuore il futuro di questo sport, occorre sforzarsi sempre di percorrerla, anche a costo di rinunciare a qualche vantaggio immediato o a qualche vittoria..."

Giocare bene: "...per convincere i miei ragazzi cercavo di dimostrare loro che la squadra che riesce a tenere la palla e cerca la soluzione offensiva attraverso il gioco acquista una sempre maggiore consapevolezza delle proprie forze. Quando ho cominciato a giocare a calcio i miei primi allenatori (come del resto molti tecnici di oggi) parlavano di passaggi inutili quando assistevano al ripetersi costante di una fitta serie di scambi a centrocampo. Questi tecnici sottovalutavano l'importanza del mantenimento della palla sul morale dei giocatori. A volte un passaggio può apparire insignificante, però chi riceve la palla ha sempre una diversa visuale del gioco rispetto all'altro, il che gli può consentire di creare situazioni di maggiore pericolosità. Man mano che trascorrono i minuti cresce la fiducia in se stessi, subentra una certa euforia,  anche la fatica si avverte meno, mentre gli avversari invece finiscono per demoralizzarsi perchè corrono di più per conquistare il pallone e sprecano maggiori energie. Quindi cercavo di indurre i miei giocatori ad accettare l'idea che per loro non sarebbe mai stato conveniente entrare in campo con il solo obiettivo di non far giocare gli altri...."

 
 
 

Pep Guardiola

Post n°174 pubblicato il 05 Gennaio 2010 da as_scacciapensieri

       

 
 
 

El futbol seguns Johan Cruyff

Post n°173 pubblicato il 05 Gennaio 2010 da as_scacciapensieri

 
 
 

The Match

Post n°172 pubblicato il 05 Gennaio 2010 da as_scacciapensieri

"Si gioca come si vive, siamo come giochiamoe il calcio è il gioco che abbiamo scelto.... Ovunque rimbalza un pallone, lì c'è un uomo in nuce che si impegna con tutta l'anima. Corrono, e con la stessa espressionedel viso suggeriscono una realtà.... ci sono dei compagni, che danno un senso alla parola "solidarietà"; nemici che attraverso un regolamento si civilizzano o magari compiacciono il selvaggio che c'è in loro; e c'è pure un pò di ingiustizia, tanto per cominciare ad abituarsi da piccoli. Non sto parlando di un'aula di matematica, ma di un campetto di calcio precario inventato da qualche parte, con linee immaginarie e porte rasoterra delimitate da camicie sudate. Rimbalza il pallone, si scontrano due eserciti sbrindellati ai quali nessuno dice niente, ma non si tratta di un lavoretto ingenuo: stanno imparando a vivere."

Jorge Valdano

 
 
 

The Dutch 4 vs 4

Post n°171 pubblicato il 03 Gennaio 2010 da as_scacciapensieri

 
 
 

One touch combination

Post n°170 pubblicato il 03 Gennaio 2010 da as_scacciapensieri

 
 
 

Passing Game

Post n°169 pubblicato il 03 Gennaio 2010 da as_scacciapensieri

 
 
 

Liam Brady

Post n°168 pubblicato il 02 Gennaio 2010 da as_scacciapensieri

Brady era un centrocampista, uno che sapeva passare.......

Potrà sorprendere quanti hanno una conoscenza rudimentale delle regole del gioco, apprendere che una squadra di Prima Divisione può giocare anche senza un calciatore che sappia passare la palla, ma ormai non sorprende più noialtri: l'arte del passaggio andò fuori moda poco dopo i foulard di seta e poco prima delle banane gonfiabili.

Gli allenatori, i preparatori atletici e quindi i giocatori, adesso, preferiscono metodi alternativi per spostare la palla da una parte del campo all'altra, tra cui il principale è una specie di muro di muscoli innalzato lungo la linea di metà campo onde deviare il pallone nella generica direzione degli attaccanti.

......la tecnica del passaggio ci piaceva.......  Era bella da guardare, era l'optional più bello del football ( un bravo giocatore poteva passare a un compagno di squadra che noi non avevamo visto, o trovare un angolino a cui non avremmo mai pensato, così da creare una bella geometria), ma sembra che gli allenatori ci vedessero un sacco di problemi, e quindi smisero di preoccuparsi di sfornare calciatori che sapessero passare.

........

I giocatori degli anni Settanta non erano così veloci o così in forma, e probabilmente la maggior parte di loro non era neanche così abile; ma ogni squadra aveva qualcuno che sapeva passare.

.......

Era intelligente (Brady....). Quest'intelligenza si manifestava principalmente nei suoi passaggi, che erano incisivi e fantasiosi e sempre sorprendenti.

........

Guardate gli aggettivi usati per descrivere un playmaker: elegante, consapevole, ingegnoso, sofisticato, astuto, visionario.... sono parole che potrebbero descrivere altrettanto bene un poeta, un regista o un pittore. E' come se il giocatore di calcio veramente dotato fosse troppo bravo per il suo ambiente, e dovesse venir collocato su un altro piano, più alto.

(da "Febbre a 90" di N. Hornby)

 
 
 

You'll never walk alone

Post n°167 pubblicato il 02 Gennaio 2010 da as_scacciapensieri

..... Parte del piacere che si ricava dall'andare nei grandi stadi di calcio è un piacere parassita e riflesso, perchè a meno che uno non vada nel North Bank, nel Kop o nello Stretford End, vuol dire che, per l'atmosfera, si appoggia agli altri; e l'atmosfera è una delle componenti fondamentali nell'esperienza del calcio. Questi enormi settori sono tanto importanti per i club quanto i giocatori, non solo perchè i loro habituè offrono un supporto sonoro alla squadra, .......... ma perchè, senza di loro, a nessun altro gliene fregherebbe niente di andare allo stadio. (da Febbre a 90 di N. Hornby)

North Bank, Kop e Stretford End sono i nomi di 3 settori affollati di tifosi

 

 
 
 

Live Curious

Post n°166 pubblicato il 01 Gennaio 2010 da as_scacciapensieri

 
 
 

Sereno Natale

Post n°165 pubblicato il 24 Dicembre 2009 da as_scacciapensieri

Tanti Auguri di Buon Natale e Sereno 2010

 
 
 

Articolo di giornale

Post n°164 pubblicato il 18 Dicembre 2009 da as_scacciapensieri

Martedì, 15 Dicembre 2009
Troppa tensione, poche idee. Così affonda il calcio italiano
FABIO MONTI PER IL CORRIERE DELLA SERA

Un calcio affa­mato di soldi, ricco di debiti e povero di idee. Senza guardare al resto d’Europa, perché il pa­radiso
terrestre non esiste da nessuna parte, è evidente che il campionato italiano offre uno spettacolo di bassa quali­tà, in teatri del tutto inadegua­ti e su campi poco meno che vergognosi. Rivedere, per con­ferma, Juve-Inter 2-1 (5 dicem­bre), che avrebbe dovuto rap­presentare la migliore espres­sione del pallone italiano e che invece è stata una delle peggio­ri partite degli ultimi dieci an­ni. Ci si è preoccupati di tutto, tranne che di giocare. E anche nella penultima giornata pri­ma delle vacanze di Natale, la situazione non è migliorata, salvo pochissime eccezioni (Parma, Chievo, Bari): nessuna delle squadre impegnate in Champions League è riuscita a vincere. Un punto (l’Inter con­tro l’Atalanta) in quattro non è il massimo.

A guardare il quadro genera­le, sarebbe curioso se capitasse il contrario, perché gli argo­menti sono sempre gli stessi, così come è identica la voglia di ignorarli. Quando si discute di calcio, anche ai massimi li­velli istituzionali, non si affron­tano le questioni tecniche, mai che si senta parlare di un pro­getto globale, di un’idea comu­ne, del gioco in quanto tale, in­vece che del denaro. Nemme­no le disavventure dell’Under 21, che un tempo dominava l’Europa e adesso rischia di guardare l’Olimpiade di Lon­dra davanti alla tv, con i vivai travolti dall’ondata degli stra­nieri, sembrano aver mosso le acque. In Lega, da mesi, si liti­ga soltanto per i soldi, da dila­pidare nell’ingaggio di un gio­catore in più oppure nel cam­bio di un allenatore. Sono già stati cambiati 8 tecnici su 20, il segnale che, nel migliore dei casi, è stata sbagliata la scelta iniziale oppure si procede in nome di un avventurismo tec­nico inquietante. Ai vertici del calcio pro, c’è chi ha difeso il campionato di serie A a 20 squadre e quello di B a 22, per­ché così le tv versano più soldi ai club (da sperperare in fret­ta), mentre chiunque conosca un po’ il calcio sa che si tratta di un format pletorico, un bro­do allungato con l’acqua, e dunque senza sapore. Poi al­l’improvviso si scopre che chi fa le coppe gioca troppo e non ha tempo per allenarsi bene; aumentano le rose e anche gli infortuni; scende la qualità glo­bale del prodotto. Nonostante questo, si andrà avanti così al­meno fino al 2012, per questio­ni televisive. Anche i 90 club della Lega pro sono un’esagera­zione quantitativa, ma nessu­no ha il coraggio di fare la pri­ma mossa.

In Italia conta soltanto il ri­sultato; vincere significa tra­scorrere una settimana serena, al riparo dalle ire dei presiden­ti e da quelle degli ultrà, che spesso minacciano i giocatori,
senza che nulla accada. Le par­tite sono soprattutto scontro fi­sico, duelli uno contro uno, che la questione dell’arbitrag­gio all’inglese, formula ad alto gradimento, ma molto teorica, non ha risolto, perché di colpi proibiti se ne vedono sempre tanti, anche se spesso gli arbi­tri preferiscono ignorarli. Die­tro all’esasperazione tattica e allo studio dei dettagli, si na­scondono un calcio rattrappito e la voglia di non far giocare l’avversario, anche a costo di non giocare, sperando nel col­po di scena finale, che serva a casa i 3 punti.

Del resto, se dopo Asco­li- Reggina (1-3) Pillon è finito sotto processo per un gesto di fair play applaudito da tutta Eu­ropa, e la risposta al coraggio­so appello lanciato venerdì dal­l’avvocato Campana contro al­cuni comportamenti dei gioca­tori è stato il finale di Caglia­ri- Napoli, ci si rende conto di quanto il calcio italiano sia po­vero di valori sportivi. Ma il ca­so-
Pandev, nella sua quotidia­na evoluzione non soltanto temporale, riassume la totale assenza di etica del nostro pal­lone. La televisione ha svuota­to gli stadi, ma le società, salvo rare eccezioni (la lettera di Gal­liani agli ex abbonati), non fan­no nulla per cercare di ripopo­larli. Bisognerebbe chiedersi perché, domenica, in Atalan­ta- Inter, un terzo dello stadio di Bergamo fosse deserto, men­tre vent’anni fa (29 gennaio ’89, stesso risultato: 1-1) erano rimasti fuori dallo stadio in al­meno 3 mila. Chi va allo sta­dio, fa tutto tranne che il tifo per la propria squadra: i cori più gettonati sono gli insulti agli avversari, quando non si sconfina nel razzismo. Gli sta­di trasformati in arene, con l’Europa che guarda allibita lo spettacolo. Più che un calcio povero, un povero calcio.

 
 
 

Articolo di giornale

Post n°163 pubblicato il 07 Dicembre 2009 da as_scacciapensieri

Mercoledì, 02 Dicembre 2009
Leo, l’antidoto al peggio del calcio. Tutto tranne che un altro Maradona
GABRIELE ROMAGNOLI PER LA REPUBBLICA

Pallone d´oro all´anti-Maradona. All´antidoto. Contro il veleno che sta uccidendo il calcio come ogni forma di spettacolo, vita quotidiana inclusa. Lionel Messi è l´altra possibile faccia del dado e della realtà. Se gli concederanno di crescere e dimostrarcelo. Da anni si sente dire che è l´erede di Dieguito (tra i primi e più accesi sostenitori dell´investitura).

Se così fosse, significherebbe che anche il Dna sa fare i dribbling, scrollarsi la marcatura della follia a buon mercato, saltare l´avversario dell´autodistruzione e andare in porta con qualche gusto dell´etica non solo di un´estetica onnivora che tutto dovrebbe consentire. E insomma, basterebbe guardare le immagini: Diego è quella faccia indemoniata che si mangia la telecamera imperlata a Usa ´94 implorando la squalifica, Leo è quel ragazzino che esulta un po´ poi abbassa la testa. Di lui si poteva dire da subito, citando Francesco De Gregori: «Il ragazzo si farà anche se ha le spalle strette». Dell´altro, tuttalpiù: «Il ragazzo si farà».

A comprimere Messi nella cornice dell´erede di Diego lo si è spinto a togliersi in fretta i denti del giudizio. Si è fatto anche lui il suo bel gol saltando cinque avversari e, soprattutto, quello di mano con conseguente mancanza di scuse, anzi totale giustificazione (senza richiami però a interventi divini). Come l´aver Hegel liquidato in età giovanile la tentazione della fede e l´essersi certi uomini giocati nell´adolescenza i jolly della sregolatezza, il fatto che abbia già compiuto quei due gesti fa confidare in quel che verrà dopo la maturazione. Il Leo Messi incoronato è oggetto di ragionevole fiducia. Non esiste nel calcio del 2009 nessuno preferibile a lui e non solo per il talento che esibisce. La sua bravura è difficilmente esprimibile a parole.

Tutti i cantori che ci hanno provato sono, a diversa profondità, precipitati nel pozzo della retorica. Il modo in cui gioca Messi non richiede ricorso al vocabolario dell´improbabile o al cassetto delle metafore perché è l´opposto della ricercatezza: è la cosa più semplice che si possa vedere in una partita. Non fa trivele, passi doppi, cucchiai. Leo tiene la palla incollata al piede, salta l´uomo, va in porta. Tutte e tre le cose, che sono poi i fondamentali dell´attaccante, le fa in modo estremo, nel senso di massimizzazione delle possibilità. Nessuno come lui ha ridotto la distanza tra il piede e la sfera, non solo nell´impadronirsi del pallone, ma anche nel portarlo avanti: incollato, calamitato, agganciato è la triade degli aggettivi che si lascia alle spalle.

Nell´evitare il marcatore è oggi il più abile e meno plateale. Piccolo com´è, una sua finta di corpo è una virgoletta, quando ci mette l´altra, a chiudere, è già arrivato a destinazione. E la destinazione è la porta: non per la palla, per lui stesso. Cristiano Ronaldo scarica tiri saetta, Leo Messi fa la saetta. Non conosce scorciatoie, conta sulla propria rapidità e non su quella dello strumento di gioco per ottenere il risultato. Tira quando proprio non c´è altra soluzione, ma se può va dentro anche lui. E´ un ragazzo così: sofferto, gentile e perfino monogamico. Non ha amato mai altro che il Barcellona, forse l´amerà per sempre (eddai, facci questa grazia). Difficile davvero immaginarselo tipo Figo che giura con la mano sul cuore e la sera dopo si fa Madrid o come uno dei tanti che sbarcano senza neppure sapere dove, s´infilano la prima sciarpa che trovano e dicono alle telecamere: «Ho sempre sognato di vestire questi colori». Leo, se non lo perdiamo, dovrebbe essere l´apostolo della riconoscenza: il Barcellona ha fatto grande lui e lui fa grande il Barcellona.

Tutto perfetto, allora? Non c´è un solo problema? A parte la fragilità che gli procura frequenti infortuni, ci sono due limiti, in teoria. Dicono di lui: non è uomo squadra, non fa la differenza da solo, non si carica i compagni sulle spalle (strette, come da premessa). Lo dice soprattutto Maradona, che gli è per sventura allenatore in nazionale, sottintendendo: «A guardar bene, dopo di me han buttato lo stampo». Ora, foss´anche vero: il calcio è un gioco che si fa in undici, tutte le responsabilità (non solo quella penale) sono personali e perché dovrebbero 10 barattoli appendersi al paraurti di Messi e lui trascinarli al banchetto nuziale? Perché dovrebbe essere l´ennesimo invasato che urla ai compagni, agita le braccia eccitando le curve e risolve il rebus da solo? I migliori sono un esempio, non un alibi.

L´altro pericolo sta nel peso dell´attesa, nel gioco di parole del Messia, nell´incontinenza mediatica che già ai Mondiali di Germania ne faceva il protagonista delle partite dell´Argentina anche quando stava in panchina. Le iperboli sono trampolini verso il vuoto. Ballandoci sopra disse Maradona allo stadio di Pechino per Argentina-Brasile: «Meglio una notte a veder giocare Messi di una notte di sesso». Con tutto il rispetto per "la mano di Dio" e il piede di Leo: ho conosciuto l´amore e sono stato al Camp Nou, non avrei dubbi nel dare al pallone d´oro la medaglia d´argento.

 
 
 

Articolo di giornale

Post n°162 pubblicato il 20 Novembre 2009 da as_scacciapensieri

Venerdì, 20 Novembre 2009
Ma se l’avessimo fatto noi, che ci avrebbero detto?
BEPPE SEVERGNINI PER IL CORRIERE DELLA SERA

E se
Henry fosse stato Cassano? (scusi, Lippi: diciamo Pazzini).

Se questa frase — «... il gol può non essere valido ma ce lo prendiamo» — l’avesse pronunciata Fabio Cannavaro invece di Sebastien Squillaci? Se fosse stata l’Italia, magari con un presidente della Uefa italiano (e non francese come Platini) a qualificarsi in modo sleale ai Mondiali 2010, cosa ci avrebbero detto? Risposta facile: di tutto, come al solito.
Anzi: un po’ più del solito.

Evitiamo moralismi facili: anche il ri­gore contro l’Australia, quello che ci ha permesso di proseguire il cammino mon­diale (Germania 2006) non era cristalli­no: e non ricordo un atto collettivo di do­lore, in Italia. Ma un rigore è sempre di­scusso/ discutibile. Il fallo di mano, in uno sport che si gioca coi piedi, è la quin­tessenza della slealtà, e ha una spiacevo­lezza particolare. Ricordate il gol di Ma­radona contro l’Inghilterra, a Messico 1986? Indimenticabile, e infatti mai di­menticato.

Così nessuno dimenticherà quest’in­giustizia verso una della nazioni, delle nazionali e dei c.t. più simpatici in circo­lazione. L’angloirlandese brianzolizzato del Trap non è una lingua perfetta; ma l’ho ascoltato, l’uomo è efficace come un professore di Harvard. Il fatto che sia ita­liano ci consente di guadagnare qualche punto, nella classifica ufficiosa del fair
play. La Francia, invece, ne perde altri, dopo quelli lasciati sul campo (dell’Olym­piastadion) per colpa di Zidane, e dei successivi tentativi di difenderlo.

Perché, allora, se oggi l’Italia fosse al posto della Francia, ne avremmo sentite di tutti i colori? Per due motivi. I soliti. Il primo: abbiamo dei precedenti. Purtrop­po — lo scrivo con dispiacere — non ab­biamo la reputazione di essere un Paese corretto. Lo sport paga le colpe della poli­tica, dell’amministrazione e non solo. Tangentopoli, e il fastidio con cui l’abbia­mo rimossa, non ha aiutato. La rappre­sentazione giornalistica, letteraria e cine­matografica racconta un Paese poco tra­sparente (considerate questo understate­ment una forma di patriottisimo). Mi­chela Vittoria Brambilla e il suo principa­le direbbero che la colpa è dei giornalisti, dei letterati e del cinema: ma sappiamo che non è così. Transparency Internatio­nal, un’organizzazione anti-corruzione, ci piazza in
63ª posizione, dopo Malta, Capo Verde, la Polonia, la Malesia e la Turchia. La Francia è 24ª, appena sotto Regno Unito (18˚)e Usa (19˚).Ultima (180ª) la Soma­lia. Secondo motivo per cui, se la manina di Henry fosse stata italiana, sarebbe ca­scato il mondo: siamo un Paese ipnotico che attira invidie, rimpianti, amore delu­so, passioni non sempre corrisposte. L’Italia — sono in giro per conferenze ne­gli Usa, e lo vedo — non è mai indifferen­te. Ci manca, purtroppo, il senso dello Stato: non la personalità nazionale. Sia­mo fascinosi ma, troppo spesso, inaffida­bili. «The land of human nature», la ter­ra della natura umana, scrisse un viag­giatore
americano cinquant’anni fa. È cambiato poco: restiamo un Paese di grande attrazione, continue tentazioni e difficile lettura. A una giornalista che gli chiedeva cosa fosse il jazz, Louis Arm­strong rispose: «Lady, if you have to ask, you’ll never know» (signora, se deve chie­derlo, non lo saprà mai). Potremmo dire lo stesso a chi vorrebbe racchiudere l’Ita­lia in una definizione.

La spiegazione può sembrare troppo antropologica, ma è necessaria per capi­re cosa sarebbe successo se la qualifica­zione fraudolenta l’avessimo ottenuta noi, al posto della Francia: il finimondo. Francia che comunque, ripeto, guada­gna posizioni nella Classifica Mondiale dell’Antipatia. Vedremo come si compor­terà contro di noi in Sudafrica. Perché, state certi, ce la ritroviamo tra i piedi di
sicuro.

 
 
 

Articolo di giornale

Post n°161 pubblicato il 20 Novembre 2009 da as_scacciapensieri

Venerdì, 20 Novembre 2009
Dal Pibe fino a Titi tutte le mani di Dio
ROBERTO PERRONE PER IL CORRIERE DELLA SERA


Gioco di mano, gioco da villano. In generale, ma soprattut­to in uno sport che si interpreta con i piedi. Nel calcio, i falli di mano ci so­no sempre stati, ma come nella storia dell’umanità, c’è un prima e un dopo. Non per niente, a tirare in ballo No­stro Signore, fu proprio lui, l’autore della furbata che fa da spartiacque: Diego Armando Maradona che segnò con la mano all’Inghilterra nei quarti di finale del Mondiale messicano del 1986. I francesi lo hanno copiato (
L’Équipe : «La main de Dieu»), ma gli sarà girato di non essere loro a detene­re il copyright. Per quel gol Maradona è considerato un ladro in Inghilterra e un highlander in Scozia dove esordì un anno fa sulla panchina della Selec­cion tra feste e manate (sulle spalle). In questo senso gli inglesi sono iella­ti. Silvio Piola, il 13 maggio del 1939 a San Siro, segnò il 2-1 contro la perfi­da Albione (poi la partita finì 2-2) con una splendida rovesciata delle sue... di mano. Per nulla pentito, confessò il misfatto quindici anni dopo. I gol di mano ci sono sempre stati, ma da Ma­radona in poi, cioè dagli anni 80, con l’avvento del grande fratello tecnolo­gico, nulla sfugge all’occhio di quel dio che è la telecamera.

Da Maradona in poi, i grandi imbro­glioni sono stati tutti smascherati. Pic­coli
e grandi. Però, ed è questo che stona un po’, come al solito, c’è qual­cuno più uguale degli altri. Raul fece uno sgarbo al Leeds durante la Cham­pions League del 2000-2001. Lionel Messi, il pupillo di Maradona, in un derby con l’Espanyol (Liga 2006-2007) segnò di mano, la sini­stra, la stessa di Maradona con l’In­ghilterra. Ora c’è Titi Henry, con il suo assist manesco per Gallas. Lo sde­gno è unanime, la condanna pure, ma durano poco. Insomma, il gioco di mano, anche con punizione degli or­gani competenti tramite la prova tv, sembra passare, alla fine, come una simpatica furbata. Dipende dalla gran­dezza
del campione e, non dimenti­chiamolo, dalla sua nazionalità. L’uni­co aspetto che accomuna tutti, piccoli e grandi, è quello di venire beccati. Non si sfugge a quel minimo di go­gna mediatica. Tra gli iscritti al club pallavolistico ci sono Milan Rapajc (Perugia-Napoli, campionato 1996-97), e Andres Guglielminpietro (Bologna-Udinese 2003-2004) su, fi­no ai casi dello scorso campionato, quelli di Adriano nel derby (con brac­cio vicino al corpo) e quello di Gilardi­no con il Palermo.

Non ci si libera dei gol di mano. Perché fa parte dell’istinto del preda­tore, perché quando sei lì a un metro
dalla porta il pallone lo colpisci con tutto quello che hai, perfino con i pie­di. Perché non si rinuncia a un gol, perché il fair play è bello, ma poi al bar ti prendono in giro. Perché a fare come Daniele De Rossi al 35’ di Ro­ma- Messina, 19 marzo 2006, cioè am­mettere di aver segnato di mano e quindi rinunciare al 2-0, si finisce co­munque nel tritatutto. «Bravo, ma co­munque non doveva segnare». «Bra­vo, ma volevo vedere se la partita era 0-0». «Bravo? Un pirla, e se poi quelli pareggiavano?». Per dirla tutta, dipen­de dal punto di vista. Per esempio, nel caso in questione, noi italiani sia­mo irritati perché un gol di mano ha fatto fuori l’Irlanda di Trapattoni. Se, al contrario, l’avesse portata in Suda­frica ai danni della Francia, denunce­remmo la cosa, ci scandalizzeremmo strappandoci le vesti per il calcio de­fraudato, poi andremmo tutti a Dubli­no alla sagra del trifoglio col Trap.

 
 
 
 
 

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