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Creato da as_scacciapensieri il 19/09/2008
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Tattica, comunicazione e malintesi
Post n°180 pubblicato il 16 Gennaio 2010 da as_scacciapensieri
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Post n°179 pubblicato il 14 Gennaio 2010 da as_scacciapensieri
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Post n°178 pubblicato il 13 Gennaio 2010 da as_scacciapensieri
"Integral - mente" è un convegno riguardante la preparazione atletica e mentale dell'atleta, negli sport di lunga durata, organizzato da Promo 2000, sabato 23 gennaio a Marotta (PU). Per info: promo@libero.it |
Post n°177 pubblicato il 13 Gennaio 2010 da as_scacciapensieri
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Post n°176 pubblicato il 08 Gennaio 2010 da as_scacciapensieri
Giovedì, 24 Settembre 2009 La paura di insegnare dei nuovi professori GABRIELLA JACOMELLA PER IL CORRIERE DELLA SERA Hanno appena firmato un contratto di assunzione a tempo indeterminato, il che — soprattutto di questi tempi — dovrebbe aiutare a mettere da parte una buona dose di pensieri e preoccupazioni. Hanno detto definitivamente addio agli anni di precariato, all’ansia da graduatorie, ai contratti che scadono con il suono dell’ultima campanella. Eppure, gli insegnanti italiani non sono tranquilli. Li mette in ansia la difficoltà nel gestire classi dove è in aumento la presenza di bimbi e ragazzi stranieri, sfida affascinante ma complicata da gestire senza un’adeguata preparazione. Li destabilizza la comunicazione sempre più zoppicante con le famiglie, e non va granché meglio nel match con le nuove tecnologie: alle scuole superiori, addirittura il 49% riconosce di avere un rapporto non facile con computer e Web. E più di 2 su 5, tra le new entries che ce l’hanno (finalmente) fatta, non possiedono un titolo di laurea. Ritratto di insegnanti in un interno, quello della scuola italiana ai tempi delle riforme che si accavallano e dei fondi che non bastano mai. Ritratto accurato, perché le pennellate sono davvero molte, e fittissime: 15.071, per la precisione, pari al numero dei maestri e prof che hanno (volontariamente) risposto al questionario di 223 domande diffuso dalla Fondazione Agnelli in otto regioni italiane. Piemonte, Emilia-Romagna, Puglia (che avevano già preso parte a una prima indagine, nel 2008); e ancora, Lombardia, Veneto, Liguria, Marche e Campania. Otto gli Uffici scolastici regionali coinvolti. Complessivamente, 16.000 insegnanti neoassunti nell’anno scolastico 2008-2009 (il 64% del totale italiano). E quasi tutti, appunto, hanno voluto contribuire con il proprio personalissimo tocco di pennello. Le indagini precedenti, per dare l’idea, si aggiravano di norma intorno alle cinquemila interviste. «Aver superato i 15 mila questionari compilati — ammette con un certo orgoglio Stefano Molina, dirigente di ricerca della Fondazione e tra i coordinatori del lavoro — significa di gran lunga ottenere la più ampia analisi sugli insegnanti mai realizzata in Italia». Non solo: «In questi anni di vacche magre, di assunzioni a tempo indeterminato se ne sentono poche. Qui, invece, parliamo di 50 mila ingressi in ruolo nel 2008, 25 mila nel 2009: stiamo parlando del più grande fenomeno italiano di immissione a tempo indeterminato nel mondo del lavoro. E il paradosso è che finora non si sapeva bene chi fossero, queste persone: il meccanismo di reclutamento è un po’ opaco, lo stesso ministero ne conosce la classe di abilitazione, non i titoli di studio...». I titoli di studio, ecco. Quella laurea che manca, ancora, al 40,7% degli intervistati. I picchi sono, ovviamente, nei primi ordini di scuola: nessun «pezzo di carta» per il 75,6% dei «nuovi » maestri d’asilo e per il 66,9% degli insegnanti delle primarie. Il motivo? Presto detto: «Si sta raschiando il fondo del barile delle graduatorie — è la sintesi efficace di Molina —. I neoassunti arrivano, per la metà, dalle graduatorie di concorso: ma l’ultimo è del 1999, e queste sono persone che si trovavano in una posizione così bassa da vedersi passare davanti, negli anni, moltissimi altri colleghi. L’altra metà, invece, viene dalle graduatorie ad esaurimento, in questo momento chiuse: supplenti che hanno avuto l’abilitazione in stagioni diverse, con regolamenti diversi». Insegnanti del futuro, ma già da rottamare? Certo che no, anzi: «Stiamo parlando di professionisti che in media hanno superato i 40 anni di età, di cui quasi 11 di precariato. E se i titoli non sono sempre brillantissimi, hanno una buona esperienza e un’anzianità di servizio che sopperiscono in parte alla formazione iniziale inadeguata». Perché poi, in questo quadro a forti chiaroscuri che ritrae l’ultimo battaglione schierato nelle aule italiane, spiccano dei dati incontestabilmente positivi. «Nel corso degli anni — conferma Laura Gianferrari, dirigente dell’Ufficio scolastico regionale per l’Emilia-Romagna e coordinatrice insieme a Molina — abbiamo avuto la sorpresa di trovare sempre più la rappresentazione di un lavoro che ha un’attrattività forte, che dà soddisfazione agli insegnanti. Nonostante alcuni aspetti ben noti: la retribuzione bassa, il riconoscimento sociale che non viene avvertito, gli anni di precariato». E in effetti, se l’80% dei neoassunti ribadisce di aver fatto una scelta «per passione», ben il 95% — un dato in crescita rispetto al 2008 — rifarebbe la stessa scelta. I motivi di soddisfazione: il lavoro con i ragazzi (93%), l’interesse per la disciplina (89%), la consapevolezza della propria utilità sociale (84%). Il livello retributivo, per contro, è ritenuto soddisfacente solo nell’11,7% dei casi, mentre il riconoscimento sociale si ferma al 31,1% — con picchi positivi al Sud: oltre il 40% in Campania, poco sotto in Puglia. Il problema vero, però, è un altro. Nelle superiori il 49% dei docenti appena assunti ammette di non conoscere a sufficienza computer e Web Il giudizio «Per la prima volta chi sta in cattedra si sente fortemente inadeguato, soprattutto nel rapporto con gli allievi» E va sotto il nome di «difficoltà nell’insegnare». Una sensazione «in aumento » e «fortemente trasversale», commenta l’economista Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli. «L’impressione è che forse per la prima volta gli insegnanti italiani inizino a sentirsi fortemente inadeguati, soprattutto nel rapporto con gli allievi: c’è la percezione di un divario generazionale, tecnologico, di vita e di apprendimento, e loro non sentono di avere tutti gli strumenti per affrontarlo». Soprattutto, dati (nuovamente) alla mano, nelle scuole superiori: il 63% degli intervistati confessa problemi nel gestire la multiculturalità in classe, il 55% non sa interagire come vorrebbe con i genitori. Persino lavorare in équipe, per il 48% dei neodocenti, è complesso. «Il punto — prosegue Gavosto — è che il meccanismo di formazione produce una tipologia di insegnante sempre uguale a se stessa, che però inizia a rendersi conto di non essere più quello che serve ai ragazzi di oggi». E in questo senso, la programmazione diventa fondamentale: «Più che annunciare tante riforme, l’obiettivo per il Paese dovrebbe essere investire in una scuola di qualità. Sulla formazione iniziale, ad esempio: la bozza di regolamento del ministero punta molto su una preparazione di tipo disciplinare, mentre quella pedagogica è ritenuta sovradimensionata. Bene, gli insegnanti ci stanno dicendo esattamente l’opposto». Sarebbe il caso di prenderne atto. |
Post n°175 pubblicato il 06 Gennaio 2010 da as_scacciapensieri
Non staremo qui a raccontavi chi era Nils Liedholm e cosa ha rappresentato per il calcio italiano e mondiale. Soprattutto la sua filosofia da allenatore, che applicata al campo ha avuto una portata rivoluzionaria, sicuramente pari solo al Calcio Totale olandese. In Italia, tra gli anni '70 e '80, ha introdotto concetti, principi e metodologie fino ad allora sconosciute, questo basta. Ci interessa allora solo citarlo, estraendo sue parole da un meraviglioso libro di Sebastiano Catte, "Nils Liedholm e la memoria lieve del calcio" (Ethos edizioni) uscito poco dopo la morte del tecnico svedese, avvenuta il 5 novembre 2007. Calcio ed estetica: "...mi ha fatto riflettere quello che scrisse uno scrittore austriaco, per il quale il calcio costituisce per moltissime persone forse l'unica porta d'ingresso al godimento di tipo estetico. Anche per questo ho sempre ritenuto giusto non separare mai l'esigenza dello spettacolo e del bel gioco da quella della competizione. E' una strada molto difficile ma, se si vuole essere lungimiranti e si ha a cuore il futuro di questo sport, occorre sforzarsi sempre di percorrerla, anche a costo di rinunciare a qualche vantaggio immediato o a qualche vittoria..." Giocare bene: "...per convincere i miei ragazzi cercavo di dimostrare loro che la squadra che riesce a tenere la palla e cerca la soluzione offensiva attraverso il gioco acquista una sempre maggiore consapevolezza delle proprie forze. Quando ho cominciato a giocare a calcio i miei primi allenatori (come del resto molti tecnici di oggi) parlavano di passaggi inutili quando assistevano al ripetersi costante di una fitta serie di scambi a centrocampo. Questi tecnici sottovalutavano l'importanza del mantenimento della palla sul morale dei giocatori. A volte un passaggio può apparire insignificante, però chi riceve la palla ha sempre una diversa visuale del gioco rispetto all'altro, il che gli può consentire di creare situazioni di maggiore pericolosità. Man mano che trascorrono i minuti cresce la fiducia in se stessi, subentra una certa euforia, anche la fatica si avverte meno, mentre gli avversari invece finiscono per demoralizzarsi perchè corrono di più per conquistare il pallone e sprecano maggiori energie. Quindi cercavo di indurre i miei giocatori ad accettare l'idea che per loro non sarebbe mai stato conveniente entrare in campo con il solo obiettivo di non far giocare gli altri...." |
Post n°174 pubblicato il 05 Gennaio 2010 da as_scacciapensieri
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Post n°173 pubblicato il 05 Gennaio 2010 da as_scacciapensieri
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Post n°172 pubblicato il 05 Gennaio 2010 da as_scacciapensieri
"Si gioca come si vive, siamo come giochiamoe il calcio è il gioco che abbiamo scelto.... Ovunque rimbalza un pallone, lì c'è un uomo in nuce che si impegna con tutta l'anima. Corrono, e con la stessa espressionedel viso suggeriscono una realtà.... ci sono dei compagni, che danno un senso alla parola "solidarietà"; nemici che attraverso un regolamento si civilizzano o magari compiacciono il selvaggio che c'è in loro; e c'è pure un pò di ingiustizia, tanto per cominciare ad abituarsi da piccoli. Non sto parlando di un'aula di matematica, ma di un campetto di calcio precario inventato da qualche parte, con linee immaginarie e porte rasoterra delimitate da camicie sudate. Rimbalza il pallone, si scontrano due eserciti sbrindellati ai quali nessuno dice niente, ma non si tratta di un lavoretto ingenuo: stanno imparando a vivere." Jorge Valdano |
Post n°171 pubblicato il 03 Gennaio 2010 da as_scacciapensieri
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Post n°170 pubblicato il 03 Gennaio 2010 da as_scacciapensieri
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Post n°169 pubblicato il 03 Gennaio 2010 da as_scacciapensieri
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Post n°168 pubblicato il 02 Gennaio 2010 da as_scacciapensieri
Brady era un centrocampista, uno che sapeva passare....... Potrà sorprendere quanti hanno una conoscenza rudimentale delle regole del gioco, apprendere che una squadra di Prima Divisione può giocare anche senza un calciatore che sappia passare la palla, ma ormai non sorprende più noialtri: l'arte del passaggio andò fuori moda poco dopo i foulard di seta e poco prima delle banane gonfiabili. Gli allenatori, i preparatori atletici e quindi i giocatori, adesso, preferiscono metodi alternativi per spostare la palla da una parte del campo all'altra, tra cui il principale è una specie di muro di muscoli innalzato lungo la linea di metà campo onde deviare il pallone nella generica direzione degli attaccanti. ......la tecnica del passaggio ci piaceva....... Era bella da guardare, era l'optional più bello del football ( un bravo giocatore poteva passare a un compagno di squadra che noi non avevamo visto, o trovare un angolino a cui non avremmo mai pensato, così da creare una bella geometria), ma sembra che gli allenatori ci vedessero un sacco di problemi, e quindi smisero di preoccuparsi di sfornare calciatori che sapessero passare. ........ I giocatori degli anni Settanta non erano così veloci o così in forma, e probabilmente la maggior parte di loro non era neanche così abile; ma ogni squadra aveva qualcuno che sapeva passare. ....... Era intelligente (Brady....). Quest'intelligenza si manifestava principalmente nei suoi passaggi, che erano incisivi e fantasiosi e sempre sorprendenti. ........ Guardate gli aggettivi usati per descrivere un playmaker: elegante, consapevole, ingegnoso, sofisticato, astuto, visionario.... sono parole che potrebbero descrivere altrettanto bene un poeta, un regista o un pittore. E' come se il giocatore di calcio veramente dotato fosse troppo bravo per il suo ambiente, e dovesse venir collocato su un altro piano, più alto. (da "Febbre a 90" di N. Hornby) |
Post n°167 pubblicato il 02 Gennaio 2010 da as_scacciapensieri
..... Parte del piacere che si ricava dall'andare nei grandi stadi di calcio è un piacere parassita e riflesso, perchè a meno che uno non vada nel North Bank, nel Kop o nello Stretford End, vuol dire che, per l'atmosfera, si appoggia agli altri; e l'atmosfera è una delle componenti fondamentali nell'esperienza del calcio. Questi enormi settori sono tanto importanti per i club quanto i giocatori, non solo perchè i loro habituè offrono un supporto sonoro alla squadra, .......... ma perchè, senza di loro, a nessun altro gliene fregherebbe niente di andare allo stadio. (da Febbre a 90 di N. Hornby) North Bank, Kop e Stretford End sono i nomi di 3 settori affollati di tifosi
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Post n°166 pubblicato il 01 Gennaio 2010 da as_scacciapensieri
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Post n°165 pubblicato il 24 Dicembre 2009 da as_scacciapensieri
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Post n°164 pubblicato il 18 Dicembre 2009 da as_scacciapensieri
Martedì, 15 Dicembre 2009 Troppa tensione, poche idee. Così affonda il calcio italiano FABIO MONTI PER IL CORRIERE DELLA SERA Un calcio affamato di soldi, ricco di debiti e povero di idee. Senza guardare al resto d’Europa, perché il paradiso terrestre non esiste da nessuna parte, è evidente che il campionato italiano offre uno spettacolo di bassa qualità, in teatri del tutto inadeguati e su campi poco meno che vergognosi. Rivedere, per conferma, Juve-Inter 2-1 (5 dicembre), che avrebbe dovuto rappresentare la migliore espressione del pallone italiano e che invece è stata una delle peggiori partite degli ultimi dieci anni. Ci si è preoccupati di tutto, tranne che di giocare. E anche nella penultima giornata prima delle vacanze di Natale, la situazione non è migliorata, salvo pochissime eccezioni (Parma, Chievo, Bari): nessuna delle squadre impegnate in Champions League è riuscita a vincere. Un punto (l’Inter contro l’Atalanta) in quattro non è il massimo. A guardare il quadro generale, sarebbe curioso se capitasse il contrario, perché gli argomenti sono sempre gli stessi, così come è identica la voglia di ignorarli. Quando si discute di calcio, anche ai massimi livelli istituzionali, non si affrontano le questioni tecniche, mai che si senta parlare di un progetto globale, di un’idea comune, del gioco in quanto tale, invece che del denaro. Nemmeno le disavventure dell’Under 21, che un tempo dominava l’Europa e adesso rischia di guardare l’Olimpiade di Londra davanti alla tv, con i vivai travolti dall’ondata degli stranieri, sembrano aver mosso le acque. In Lega, da mesi, si litiga soltanto per i soldi, da dilapidare nell’ingaggio di un giocatore in più oppure nel cambio di un allenatore. Sono già stati cambiati 8 tecnici su 20, il segnale che, nel migliore dei casi, è stata sbagliata la scelta iniziale oppure si procede in nome di un avventurismo tecnico inquietante. Ai vertici del calcio pro, c’è chi ha difeso il campionato di serie A a 20 squadre e quello di B a 22, perché così le tv versano più soldi ai club (da sperperare in fretta), mentre chiunque conosca un po’ il calcio sa che si tratta di un format pletorico, un brodo allungato con l’acqua, e dunque senza sapore. Poi all’improvviso si scopre che chi fa le coppe gioca troppo e non ha tempo per allenarsi bene; aumentano le rose e anche gli infortuni; scende la qualità globale del prodotto. Nonostante questo, si andrà avanti così almeno fino al 2012, per questioni televisive. Anche i 90 club della Lega pro sono un’esagerazione quantitativa, ma nessuno ha il coraggio di fare la prima mossa. In Italia conta soltanto il risultato; vincere significa trascorrere una settimana serena, al riparo dalle ire dei presidenti e da quelle degli ultrà, che spesso minacciano i giocatori, senza che nulla accada. Le partite sono soprattutto scontro fisico, duelli uno contro uno, che la questione dell’arbitraggio all’inglese, formula ad alto gradimento, ma molto teorica, non ha risolto, perché di colpi proibiti se ne vedono sempre tanti, anche se spesso gli arbitri preferiscono ignorarli. Dietro all’esasperazione tattica e allo studio dei dettagli, si nascondono un calcio rattrappito e la voglia di non far giocare l’avversario, anche a costo di non giocare, sperando nel colpo di scena finale, che serva a casa i 3 punti. Del resto, se dopo Ascoli- Reggina (1-3) Pillon è finito sotto processo per un gesto di fair play applaudito da tutta Europa, e la risposta al coraggioso appello lanciato venerdì dall’avvocato Campana contro alcuni comportamenti dei giocatori è stato il finale di Cagliari- Napoli, ci si rende conto di quanto il calcio italiano sia povero di valori sportivi. Ma il caso- Pandev, nella sua quotidiana evoluzione non soltanto temporale, riassume la totale assenza di etica del nostro pallone. La televisione ha svuotato gli stadi, ma le società, salvo rare eccezioni (la lettera di Galliani agli ex abbonati), non fanno nulla per cercare di ripopolarli. Bisognerebbe chiedersi perché, domenica, in Atalanta- Inter, un terzo dello stadio di Bergamo fosse deserto, mentre vent’anni fa (29 gennaio ’89, stesso risultato: 1-1) erano rimasti fuori dallo stadio in almeno 3 mila. Chi va allo stadio, fa tutto tranne che il tifo per la propria squadra: i cori più gettonati sono gli insulti agli avversari, quando non si sconfina nel razzismo. Gli stadi trasformati in arene, con l’Europa che guarda allibita lo spettacolo. Più che un calcio povero, un povero calcio. |
Post n°163 pubblicato il 07 Dicembre 2009 da as_scacciapensieri
Mercoledì, 02 Dicembre 2009 Leo, l’antidoto al peggio del calcio. Tutto tranne che un altro Maradona GABRIELE ROMAGNOLI PER LA REPUBBLICA Pallone d´oro all´anti-Maradona. All´antidoto. Contro il veleno che sta uccidendo il calcio come ogni forma di spettacolo, vita quotidiana inclusa. Lionel Messi è l´altra possibile faccia del dado e della realtà. Se gli concederanno di crescere e dimostrarcelo. Da anni si sente dire che è l´erede di Dieguito (tra i primi e più accesi sostenitori dell´investitura). Se così fosse, significherebbe che anche il Dna sa fare i dribbling, scrollarsi la marcatura della follia a buon mercato, saltare l´avversario dell´autodistruzione e andare in porta con qualche gusto dell´etica non solo di un´estetica onnivora che tutto dovrebbe consentire. E insomma, basterebbe guardare le immagini: Diego è quella faccia indemoniata che si mangia la telecamera imperlata a Usa ´94 implorando la squalifica, Leo è quel ragazzino che esulta un po´ poi abbassa la testa. Di lui si poteva dire da subito, citando Francesco De Gregori: «Il ragazzo si farà anche se ha le spalle strette». Dell´altro, tuttalpiù: «Il ragazzo si farà». A comprimere Messi nella cornice dell´erede di Diego lo si è spinto a togliersi in fretta i denti del giudizio. Si è fatto anche lui il suo bel gol saltando cinque avversari e, soprattutto, quello di mano con conseguente mancanza di scuse, anzi totale giustificazione (senza richiami però a interventi divini). Come l´aver Hegel liquidato in età giovanile la tentazione della fede e l´essersi certi uomini giocati nell´adolescenza i jolly della sregolatezza, il fatto che abbia già compiuto quei due gesti fa confidare in quel che verrà dopo la maturazione. Il Leo Messi incoronato è oggetto di ragionevole fiducia. Non esiste nel calcio del 2009 nessuno preferibile a lui e non solo per il talento che esibisce. La sua bravura è difficilmente esprimibile a parole. Tutti i cantori che ci hanno provato sono, a diversa profondità, precipitati nel pozzo della retorica. Il modo in cui gioca Messi non richiede ricorso al vocabolario dell´improbabile o al cassetto delle metafore perché è l´opposto della ricercatezza: è la cosa più semplice che si possa vedere in una partita. Non fa trivele, passi doppi, cucchiai. Leo tiene la palla incollata al piede, salta l´uomo, va in porta. Tutte e tre le cose, che sono poi i fondamentali dell´attaccante, le fa in modo estremo, nel senso di massimizzazione delle possibilità. Nessuno come lui ha ridotto la distanza tra il piede e la sfera, non solo nell´impadronirsi del pallone, ma anche nel portarlo avanti: incollato, calamitato, agganciato è la triade degli aggettivi che si lascia alle spalle. Nell´evitare il marcatore è oggi il più abile e meno plateale. Piccolo com´è, una sua finta di corpo è una virgoletta, quando ci mette l´altra, a chiudere, è già arrivato a destinazione. E la destinazione è la porta: non per la palla, per lui stesso. Cristiano Ronaldo scarica tiri saetta, Leo Messi fa la saetta. Non conosce scorciatoie, conta sulla propria rapidità e non su quella dello strumento di gioco per ottenere il risultato. Tira quando proprio non c´è altra soluzione, ma se può va dentro anche lui. E´ un ragazzo così: sofferto, gentile e perfino monogamico. Non ha amato mai altro che il Barcellona, forse l´amerà per sempre (eddai, facci questa grazia). Difficile davvero immaginarselo tipo Figo che giura con la mano sul cuore e la sera dopo si fa Madrid o come uno dei tanti che sbarcano senza neppure sapere dove, s´infilano la prima sciarpa che trovano e dicono alle telecamere: «Ho sempre sognato di vestire questi colori». Leo, se non lo perdiamo, dovrebbe essere l´apostolo della riconoscenza: il Barcellona ha fatto grande lui e lui fa grande il Barcellona. Tutto perfetto, allora? Non c´è un solo problema? A parte la fragilità che gli procura frequenti infortuni, ci sono due limiti, in teoria. Dicono di lui: non è uomo squadra, non fa la differenza da solo, non si carica i compagni sulle spalle (strette, come da premessa). Lo dice soprattutto Maradona, che gli è per sventura allenatore in nazionale, sottintendendo: «A guardar bene, dopo di me han buttato lo stampo». Ora, foss´anche vero: il calcio è un gioco che si fa in undici, tutte le responsabilità (non solo quella penale) sono personali e perché dovrebbero 10 barattoli appendersi al paraurti di Messi e lui trascinarli al banchetto nuziale? Perché dovrebbe essere l´ennesimo invasato che urla ai compagni, agita le braccia eccitando le curve e risolve il rebus da solo? I migliori sono un esempio, non un alibi. L´altro pericolo sta nel peso dell´attesa, nel gioco di parole del Messia, nell´incontinenza mediatica che già ai Mondiali di Germania ne faceva il protagonista delle partite dell´Argentina anche quando stava in panchina. Le iperboli sono trampolini verso il vuoto. Ballandoci sopra disse Maradona allo stadio di Pechino per Argentina-Brasile: «Meglio una notte a veder giocare Messi di una notte di sesso». Con tutto il rispetto per "la mano di Dio" e il piede di Leo: ho conosciuto l´amore e sono stato al Camp Nou, non avrei dubbi nel dare al pallone d´oro la medaglia d´argento. |
Post n°162 pubblicato il 20 Novembre 2009 da as_scacciapensieri
Venerdì, 20 Novembre 2009 Ma se l’avessimo fatto noi, che ci avrebbero detto? BEPPE SEVERGNINI PER IL CORRIERE DELLA SERA E se Henry fosse stato Cassano? (scusi, Lippi: diciamo Pazzini). Se questa frase — «... il gol può non essere valido ma ce lo prendiamo» — l’avesse pronunciata Fabio Cannavaro invece di Sebastien Squillaci? Se fosse stata l’Italia, magari con un presidente della Uefa italiano (e non francese come Platini) a qualificarsi in modo sleale ai Mondiali 2010, cosa ci avrebbero detto? Risposta facile: di tutto, come al solito. Anzi: un po’ più del solito. Evitiamo moralismi facili: anche il rigore contro l’Australia, quello che ci ha permesso di proseguire il cammino mondiale (Germania 2006) non era cristallino: e non ricordo un atto collettivo di dolore, in Italia. Ma un rigore è sempre discusso/ discutibile. Il fallo di mano, in uno sport che si gioca coi piedi, è la quintessenza della slealtà, e ha una spiacevolezza particolare. Ricordate il gol di Maradona contro l’Inghilterra, a Messico 1986? Indimenticabile, e infatti mai dimenticato. Così nessuno dimenticherà quest’ingiustizia verso una della nazioni, delle nazionali e dei c.t. più simpatici in circolazione. L’angloirlandese brianzolizzato del Trap non è una lingua perfetta; ma l’ho ascoltato, l’uomo è efficace come un professore di Harvard. Il fatto che sia italiano ci consente di guadagnare qualche punto, nella classifica ufficiosa del fair play. La Francia, invece, ne perde altri, dopo quelli lasciati sul campo (dell’Olympiastadion) per colpa di Zidane, e dei successivi tentativi di difenderlo. Perché, allora, se oggi l’Italia fosse al posto della Francia, ne avremmo sentite di tutti i colori? Per due motivi. I soliti. Il primo: abbiamo dei precedenti. Purtroppo — lo scrivo con dispiacere — non abbiamo la reputazione di essere un Paese corretto. Lo sport paga le colpe della politica, dell’amministrazione e non solo. Tangentopoli, e il fastidio con cui l’abbiamo rimossa, non ha aiutato. La rappresentazione giornalistica, letteraria e cinematografica racconta un Paese poco trasparente (considerate questo understatement una forma di patriottisimo). Michela Vittoria Brambilla e il suo principale direbbero che la colpa è dei giornalisti, dei letterati e del cinema: ma sappiamo che non è così. Transparency International, un’organizzazione anti-corruzione, ci piazza in 63ª posizione, dopo Malta, Capo Verde, la Polonia, la Malesia e la Turchia. La Francia è 24ª, appena sotto Regno Unito (18˚)e Usa (19˚).Ultima (180ª) la Somalia. Secondo motivo per cui, se la manina di Henry fosse stata italiana, sarebbe cascato il mondo: siamo un Paese ipnotico che attira invidie, rimpianti, amore deluso, passioni non sempre corrisposte. L’Italia — sono in giro per conferenze negli Usa, e lo vedo — non è mai indifferente. Ci manca, purtroppo, il senso dello Stato: non la personalità nazionale. Siamo fascinosi ma, troppo spesso, inaffidabili. «The land of human nature», la terra della natura umana, scrisse un viaggiatore americano cinquant’anni fa. È cambiato poco: restiamo un Paese di grande attrazione, continue tentazioni e difficile lettura. A una giornalista che gli chiedeva cosa fosse il jazz, Louis Armstrong rispose: «Lady, if you have to ask, you’ll never know» (signora, se deve chiederlo, non lo saprà mai). Potremmo dire lo stesso a chi vorrebbe racchiudere l’Italia in una definizione. La spiegazione può sembrare troppo antropologica, ma è necessaria per capire cosa sarebbe successo se la qualificazione fraudolenta l’avessimo ottenuta noi, al posto della Francia: il finimondo. Francia che comunque, ripeto, guadagna posizioni nella Classifica Mondiale dell’Antipatia. Vedremo come si comporterà contro di noi in Sudafrica. Perché, state certi, ce la ritroviamo tra i piedi di sicuro. |
Post n°161 pubblicato il 20 Novembre 2009 da as_scacciapensieri
Venerdì, 20 Novembre 2009 Dal Pibe fino a Titi tutte le mani di Dio ROBERTO PERRONE PER IL CORRIERE DELLA SERA
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Inviato da: cjeannine0000
il 25/07/2014 alle 11:51
Inviato da: piersm
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