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INNO DELLA X MAS - ANNI '40

Quando pareva vinta Roma antica
sorse l'invitta Xª Legione;
vinse sul campo il barbaro nemico
Roma riebbe pace con onore.
Quando l'ignobil otto di settembre
abbandonò la Patria il traditore
sorse dal mar la Xª Flottiglia
e prese l'armi al grido "per l'onore".
Decima Flottiglia nostra
che beffasti l'Inghilterra,
vittoriosa ad Alessandria,
Malta, Suda e Gibilterra.
Vittoriosa già sul mare
ora pure sulla terra
Vincerai!

Navi d'Italia che ci foste tolte
non in battaglia ma col tradimento
nostri fratelli prigionieri o morti
noi vi facciamo questo giuramento.
Noi vi giuriamo che ritorneremo
là dove Dio volle il tricolore;
noi vi giuriamo che combatteremo
fin quando avremo pace con onore.
Decima Flottiglia nostra
che beffasti l'Inghilterra,
vittoriosa ad Alessandria,
Malta, Suda e Gibilterra.
Vittoriosa già sul mare
ora pure sulla terra
Vincerai!

 
 
 
 
 
 
 

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« CESARE MORI IL PREFETTO ...L'ULTIMA INTERVISTA DI ... »

L'ULTIMA INTERVISTA DI MUSSOLINI - 20 APRILE 1945 (parte prima)

Post n°7 pubblicato il 22 Marzo 2009 da ilpunitore78
 

Benito Mussolini - immagine d'epocaChi scrive è il giornalista Gian Gaetano Cabella, ex direttore del "Popolo di Alessandria". Nell'aprile del 1945, non appena seppi che Mussolini era arrivato a Milano, chiesi e ottenni un'udienza dal capo della Repubblica Sociale. L'intervista cominciò come una delle tante conversazioni che Mussolini aveva non di rado con questo o con quel direttore di giornale, ma ben presto assunse una portata eccezionale: sia perché fu l'ultima che Mussolini concesse, sia perché egli stesso volle rivederla, completarla e correggerla nella sua redazione definitiva.
    Fu il ministro Zerbino che il 19 aprile mi comunicò l'invito. Mussolini mi avrebbe ricevuto all'indomani, in Prefettura. Feci subito rilegare i numeri del giornale: tutta la edizione milanese dal settembre 1944 fino all'ultimo numero, uscito con la data del 21 aprile 1945. Volevo offrire al Duce l'intera collezione, insieme coi prospetti e i grafici della tiratura, che da 18.000 copie vendute nel primo anno di vita era ora asceso a 270.000. Molti camerati mi consegnarono scritti e messaggi da presentare al Duce. Preparai anche una breve relazione delle lunghe trattative che avevo condotto con elementi partigiani, i quali mi avevano scritto invitandomi a prendere contatto con alcuni loro rappresentanti.
    Alle 14.30 del 20 aprile ero in Prefettura. Nella prima sala d'aspetto passeggiavano e discorrevano ufficiali e gerarchi. Il Prefetto attraversava spesso la sala che divideva lo studio di Mussolini dal suo ufficio. Nel secondo salone c'erano il colonnello Colombo, comandante della "Muti", il vice comandante ed altri.
    Alle 15 giunsero il comandante della Decima, Borghese, accompagnato da alcuni ufficiali e dal capo di Stato Maggiore della GNR. Il ministro Fernando Mezzasoma parlava con un gruppo di giornalisti. Un'apparente serenità regnava fra quelle persone. Un ufficiale delle SS germaniche passeggiava fumando. Il servizio di guardia era limitato al portone d'ingresso del palazzo del Governo e a due sentinelle armate (una SS tedesca e un milite della Guardia) alla postierla della scaletta che dal cortile conduceva all'appartamento occupato dal Duce e dai membri del governo.
    Alle 15.20 giunse il Questore, che parlò col Prefetto Bassi. Poco dopo uscì dallo studio del Duce, Pellegrini. Nel frattempo, mi aveva raggiunto Galileo Lucarini Simonetti, mio redattore capo e già direttore di "Leonessa", settimanale della Federazione bresciana. Finalmente, la porta del Duce si aprì. L'usciere disse forte il mio nome. Mi precipitai dentro. Deposti i pacchi sopra una sedia alla mia destra, salutai sull'attenti. Mussolini mi accolse con un sorriso. Si alzò e mi venne vicino. Subito osservai che stava benissimo in salute, contrariamente alle voci che correvano. Le tre volte che mi aveva ricevuto, nel '44, non mi era mai apparso così florido come ora. Il colorito appariva sano e abbronzato, gli occhi vivaci, svelti i suoi movimenti. Era scomparsa quella magrezza che mi aveva tanto colpito nel febbraio dell'anno avanti. Indossava una divisa grigio-verde senza decorazioni né gradi. Lasciò i grossi occhiali sul tavolo, sopra un foglio pieno di appunti a matita azzurra. Notai che il tavolo era piccolo: molti fascicoli erano stati collocati sopra un tavolino vicino. Alcuni giacevano perfino in terra, presso la finestra. Sopra una sedia, scorsi due borse in cuoio grasso ed una di pelle giallo scura.
    Mussolini mi posò la destra sulla spalla e mi chiese: "Cosa mi portate di bello?". Non seppi rispondere lì per lì. Come succedeva a molti davanti a lui, mi sentii alquanto disorientato e dopo una breve esitazione risposi che ero felice di vederlo e che gli portavo la raccolta del giornale. Mi batté la mano sulla spalla. Fissandomi, mi disse: "Vi elogio per quanto avete fatto per il consolidamento della Repubblica Sociale. Pavolini mi ha riferito del vostro discorso a Torino per il 23 marzo e del successo che avete ottenuto. Non vi sapevo anche oratore".
    Gli offersi la raccolta del giornate e gli mostrai i grafici della diffusione e della vendita. Gli consegnai diversi scritti di fascisti, di combattenti, di giovanissimi. Sfogliò la raccolta soffermandosi su alcuni numeri.
    Poi mi chiese: "Desiderate qualche cosa da me?". Dopo un momento di perplessità risposi: "Il mio premio l'ho già avuto, è stato l'elogio che avete voluto farmi. Oso troppo se vi chiedo una dedica?". Gli mostrai una grande fotografia. La fissò un attimo, poi tornò al tavolo, si sedette, prese la penna e scrisse: "A Gian Gaetano Cabella, pilota de “Il Popolo di Alessandria”, con animo della vecchia guardia. Benito Mussolini, 20 aprile XXIII".
    Posò la penna. Volle ancora vedere i grafici della tiratura del giornale. Esposi brevemente i criteri che seguivo e che mi parevano giusti, quindi il Duce si soffermò sul grafico che riguardava la corrispondenza ricevuta dal pubblico, e osservò: "Molte lettere anonime, vedo…".
    "Nel mese di marzo - precisai - su 2785 lettere ricevute, 360 sono state anonime. Però quando le vicende dell'Asse vanno meglio, le lettere anonime diminuiscono".
    Mussolini prese il pacchetto delle lettere che gli avevo portato insieme con altre cose. Volle tenerle tutte: "Se avrò tempo, le leggerò stasera".
    Ebbi l'impressione che l'udienza fosse per finire. Allora mi feci animo: "Duce, permettete che vi rivolga qualche domanda?". Mussolini si alzò. Mi venne vicino. Guardandomi negli occhi, con un accento e un'espressione che non dimenticherò mai, mi chiese d'improvviso: “Intervista o testamento?”.
    A quella domanda inaspettata rimasi esterrefatto. Non sfuggì la mia emozione a Mussolini, che cercò di dissipare la mia confusione con un sorriso bonario. “Sedetevi qui. Ecco una penna e della carta. Sono disposto a rispondere alle domande che mi farete”.
    In preda ad una grande agitazione , mi sedetti alla sua sinistra. Molte idee mi si affollavano nella mente, ma tutte imprecise. Finalmente formulai una domanda assai generica: “Qual è il vostro pensiero, quali sono le vostre disposizioni, in questa situazione?”.
    Alla mia domanda, Mussolini, a sua volta domandò: “Voi cosa fareste?”.
    Debbo aver accennato un gesto istintivo di sorpresa. Mussolini mi toccò il braccio, e sorrise di nuovo: “Non stupitevi. Desidero sentire il vostro parere”.
    “Duce, non sarebbe bello formare un quadrato attorno a voi e al gagliardetto dei Fasci e aspettare, con le armi in pugno, i nemici? Siamo in tanti, fedeli, armati...”.
    “Certo, sarebbe la fine più desiderabile... ma non è possibile fare sempre ciò che si vuole. Ho in corso delle trattative. Il Cardinale Schuster fa da intermediario. Ho l’assicurazione che non sarà versata una goccia di sangue. Un trapasso di poteri. Per il governo, il passaggio fino in Valtellina, dove Onori sta preparando gli alloggiamenti. Andremo anche noi in montagna per un po’ di tempo” .
    Osai interromperlo: “Vi fidate, Duce, del Cardinale?”.
    Mussolini alzò gli occhi e fece un gesto vago con le mani: “E’ viscido, ma non posso dubitare della parola di un ministro di Dio. E’ la sola strada che debbo prendere. Per me è, comunque, finita. Non ho più il diritto di esigere sacrifici dagli italiani”.
    “Ma noi vogliamo seguire la vostra sorte...”.
    “Dovete ubbidire. La vita dell’Italia non termina in questa settimana o in questo mese. L’Italia si risolleverà. E questione di anni, di decenni, forse. Ma risorgerà, e sarà di nuovo grande, come l’avevo voluta io”.
    Dopo una brevissima pausa, continuò: “Allora sarete ancora utili al paese. Trasmetterete ai figli e ai nipoti la verità della nostra idea, quella verità che è stata falsata, svisata, camuffata da troppi cattivi, da troppi malvagi, da troppi venduti e anche da qualche piccola aliquota di illusi”.
    La sua voce aveva i toni metallici che tante volte avevo udito nei suoi discorsi. Poi, con fare più pacato, continuò: “Dicono che ho errato, che dovevo conoscere meglio gli uomini, che ho perduta la testa, che non dovevo dichiarare la guerra alla Francia e all’Inghilterra. Dicono che mi sarei dovuto ritirare nel 1938. Dicono che non dovevo fare questo, e che non dovevo fare quello. Oggi è facile profetizzare il passato. Eppure, a fine maggio e ai primi di giugno del 1940, se critiche venivano fatte erano per gridare allo scandalo di una neutralità definita ridicola, impolitica, sorprendente. La Germania aveva vinto. Noi non solo non avremmo avuto alcun compenso; ma saremmo stati certamente, in un periodo di tempo più o meno lontano, invasi e schiacciati.“E cosa fa Mussolini? Quello si è rammollito. Un’occasione d’oro così, non si sarebbe mai più ripresentata”: così dicevano tutti e specialmente coloro che adesso gridano che si doveva rimanere neutrali e che solo la mia megalomania e la mia libidine di potere, e la mia debolezza nei confronti di Hitler aveva portato alla guerra. La verità è una: non ebbi pressioni da Hitler. Lui aveva già vinta la partita continentale. Non aveva bisogno di noi. Ma non si poteva rimanere neutrali se volevamo mantenere quella posizione di parità con la Germania che fino allora avevamo avuto. I patti erano chiarissimi. Non abbiamo mai avuto divergenze di idee. Già all’epoca delle trattative per lo sgombero dell’Alto Adige, controprova indiscutibile delle sue oneste e solidali intenzioni, il Führer dimostrò buon volere e comprensione. Solo la vittoria dell’Asse ci avrebbe dato diritto di pretendere la nostra parte dei beni del mondo. La vittoria delle potenze cosiddette alleate non darà al mondo che una pace effimera e illusoria. Per questo voi, miei fedeli, dovete sopravvivere e mantenere nel cuore la fede. Il mondo, me scomparso, avrà bisogno ancora dell’idea più audace, più originale e più europea delle idee. Non ho bluffato quando affermai che l’idea fascista sarebbe stata l’idea del secolo XX. Non ha assolutamente importanza una eclissi, anche di un lustro. Indietro non si può tornare. La Storia mi darà ragione”.
    A questo punto Mussolini tacque. Scosse alcune volte la testa come per scacciare un pensiero molesto. Parlò della sua presa di posizione nel 1933-’34 fino ai colloqui di Stresa dell’aprile ’35. Affermò che la sua azione non era stata interamente compresa e tanto meno seguita né dall’Inghilterra né dalla Francia. E soggiunse: “Siamo stati i soli ad opporci ai primi conati espansionistici della Germania. Mandai le divisioni al Brennero, ma nessun gabinetto europeo mi appoggiò. Impedire alla Germania di rompere l’equilibrio continentale ma nello stesso tempo provvedere alla revisione dei trattati; arrivare ad un aggiustamento generale delle frontiere fatto in modo da soddisfare la Germania nei punti giusti delle sue rivendicazioni, e cominciare col restituirle le colonie: ecco quello che avrebbe impedito la guerra. Una caldaia non scoppia se si fa funzionare a tempo una valvola. Ma se invece la si chiude ermeticamente, esplode. Mussolini voleva la pace e questo gli fu impedito”.
    Dopo qualche istante di silenzio ardii chiedergli: “Avete detto che l’eventuale vittoria dei nostri nemici non potrà dare una pace duratura. Essi nella loro propaganda affermano...”
    “Indubbiamente abilissima propaganda, la loro. Sono riusciti a convincere tutti. Io stesso a volte mi sono chiesto la ragione di questa specie di ubriacatura collettiva. Sapete che cosa ho concluso? Che ho sopravvalutato l’intelligenza delle masse. Nei dialoghi che tante volte ho avuto con le moltitudini, avevo la convinzione che le grida che seguivano le mie domande fossero segno di coscienza, di comprensione, di evoluzione. Invece, era isterismo collettivo... Ma il colmo è che i nostri nemici hanno ottenuto che i proletari, i poveri, i bisognosi di tutto, si schierassero anima e corpo dalla parte dei plutocrati, degli affamatori, del grande capitalismo”.

(segue...)

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