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Maestri

Post n°473 pubblicato il 15 Settembre 2008 da monari



Amarcord13a
Ieri ho letto in due belle pagine di "Repubblica" sui maestri elementari, un articolo di Jenner Meletti, un breve testo di ElleKappa sul meraviglioso panino della sua insegnante mangiato durante la ricreazione, e quattro ricordi autobiografici affidati agli scrittori Margherita Oggero, Marco Lodoli, Mauro Corona, Simona Vinci.

Mi è tornato in mente che tempo fa avevo progettato di comporre un testo intitolato (appunto) "Maestri". Stamani l'ho cercato sul computer, scoprendo che lunedì 23 dicembre 2002 avevo steso soltanto una "Divagazione" introduttiva, intitolandola "Del guardaroba mentale". Tutto qui:

"Avanzano, della gioventù, le consapevolezze che allora non c’erano. Di null’altro adesso conosci il valore, che delle cose non possedute.
E’ la ricchezza dei sogni di allora. Ragazzi, significava invece sentire il senso del limite. Crescere era scontrarsi con l’impossibilità. Desiderare ma non avere.
La febbre della vita brucia nelle regole da rispettare. Dovevamo non scottarci. E scegliere, cercare la via dell’uscita dal labirinto.
C’era a fianco delle nostre parole, in mezzo ai nostri giorni, il gioco delle eventualità, il rimescolarsi delle varianti, l’affacciarsi a trivi e quadrivi. Era vicino a noi, più minaccioso che confortevole, il guardaroba mentale dove scegliere che cosa indossare.
La volontà respingeva, ogni abito si faceva sentire stretto, come se un panno di cattiva qualità si fosse ritirato ancor prima dell’uso, e deluso c’insegnasse la morale della favola: non sei tu che modelli il vestito.
Le prove le fanno i sarti, con ago e fili e spilli da puntare. La vita ti offre la carità d’un panno non su misura.
Cerchi il meno peggio tra quelli che sono già confezionati. Uno che abbia sintonia con il tuo modo di leggere la pianta topografica della realtà, dove tutto è disegnato. Tranne le strade. (Arràngiati, lo ripetono da millenni.)
Ti dicono che ci sono gli orchi, i precipizi, le sublimazioni amorose. Ma devi indovinare dove si nascondono, o fugacemente si mostrano, quando le luci delle giornate favoriscono l’osservazione, e se soprattutto le apparizioni o le scoperte permettono d’essere annotate con un lapis ormai spuntato, sopra un muro a secco che delimita la corsa e la vista.
Lì hai scritto un appunto, confidando di ritrovarlo ogni volta. Ogni volta che fossi passato. Ma poi diluvia sulla piccola traccia della matita. Oppure si scuotono i mattoni antichi senza più l’impegno di testimoniare ad altri del loro stare di guardia al disinteresse del viandante.
In quel muro avevi segnato una traccia per percorrere il labirinto invisibile, raccontarti l’itinerario possibile, riposare l’affanno, raccogliere l’unica testimonianza onesta: io ci ho provato, non è per colpa mia se ora tutto mi sfugge, scusate l’ardire, ma io avevo scoperto che la strada passa di qua.
Non avevo altra bussola che quella del sole. Ma subito arrivarono le nuvole a confondere l’ansia di uscire da un deserto che non c’è, a giudicarmi indocile perché ho firmato il contratto dell’esistenza ed adesso non trovo le clausole a cui appigliarmi, per preparare la difesa.
Provo a cercare nell’abito che mi hanno consegnato, non so più se all’ingresso in casa o all’uscita di scuola. Ma le tasche sono cucite, e lentamente i calzoni cedono, le gambe s’allungano, comicamente il panno si restringe.
Non ci sto più. Forse sono cresciuto. Oppure è la cattiva stoffa che ti rende ridicolo. Riprova a cercarne un altro, di vestiti. Ma per andare al guardaroba devi ricominciare daccapo. Il giudice della gara non azzera il tempo.
Sul taccuino registra le penalità degli errori di percorso. Hai abbattuto ostacoli, dice.
Dov’erano, chiedi. Io non li ho visti, lo giuro. Era notte, o per colpa del sole? Ti deride. Non preoccuparti mugugna: devi proseguire.
Ma il guardaroba dov’è, gli chiedo. Continua, mi ordina.
Così, passo dopo passo, riprendevi a camminare.
Un attimo mi fermo. Per dire grazie a chi non fu giudice di gara, ma maestro per l’intelletto".

Una quindicina d'anni fa composi altri meno impegnativi ricordi poi pubblicati in un volumetto dal titolo "Anni Cinquanta".
Di lì riprendo il passo sul grembiule, capo di vestiario oggi diventato simbolo politico nelle chiacchiere correnti sulla scuola, in mancanza di meglio (sotto l'aspetto pedagogico):


"La nostra divisa scolastica era composta di tre parti. Un grembiule nero, un colletto bianco ed un fiocco azzurro. Il colletto era concepito come indipendente dal grembiule. Il grembiule aveva una sua antica caratteristica oggi per fortuna scomparsa: doveva inevitabilmente chiudersi sul retro. Chi avrà mai inventato questa straordinaria divisa, priva di ogni praticità? L'apertura posteriore del grembiule ai maschi poneva un problema funzionale, perché in taluni frangenti non coincideva con quella dei calzoni.

Il colletto girava perennemente su se stesso, per cui il fiocco cedeva a posizioni oblique volando da ogni parte, tranne che in quella giusta. Sul petto dalla parte sinistra, infine, la decorazione della riga doveva indicare la classe che si frequentava. Qualcuno si fregiava della decorazione sul braccio come i militari. E tali forse erano i padri dei figli che così venivano esibiti.

Il mio grembiule, con quale stoffa fosse stato confezionato, me lo spiegò mia madre pochi anni fa. Era la camicia nera di mio padre. La fortuna volle che io fossi stato soltanto "figlio della Lupa". Mi avevano dichiarato tale alla nascita, nel 1942. La guerra, con le sue tragiche pagine, mi evitò di salire ai gradi superiori del cursus fascista. Così, non sono mai stato "balilla". Tuttavia, ho portato in me il segno del passato regìme con il candore dell'innocenza, pari a quello con cui mio padre aveva indossato la camicia nera, obbligatoria per mangiare, quando la tessera del fascio veniva chiamata la "tessera del pane". Candore che capisco soltanto ora, ripensando che mio padre non ricordava mai "lui", cioè il duce, e che non ha poi avuto nostalgie politiche. Aveva capìto durante la guerra (penso io), quanto fossero state scioccamente illusorie le sfilate, le parole d'ordine, che nessuno tranne pochi, sul finire di quegli anni Quaranta, voleva rammentare o riproporre a noi giovani, a conflitto mondiale concluso".

L'immagine che metto in testa a questo post, c'entra (di riflesso) con un altro breve passo di "Anni Cinquanta":

"Il carro funebre che stazionava difronte alla chiesa, dichiarava lo stato sociale del defunto. C'erano "accompagni" di prima, seconda o terza classe, come i viaggi in treno. I più benestanti offrivano un supplemento di presunta filantropia, rivolto agli orfanelli che, accompagnati dalle suore, prestavano servizio all'inizio del corteo, nelle loro divise con una corta mantellina, come si vedono anche in certe immagini di Fellini relative però agli Anni Trenta. I maschi anche d'inverno portavano calzoni corti su minuscole gambe arrossate dal freddo. Per primi uscivano dalla chiesa dopo la funzione, e poi dovevano stazionare immobili, ci fosse il sole o la neve, fino a che si completava il rito del saluto dei parenti, recitando preghiere a suffragio dell'anima del defunto. Che la pietà con cui le orazioni venivano pronunciate, fosse o no pari alla spontaneità, nessuno può sapere: ma è facile immaginare quanti amari segni abbia lasciato in quei bambini l'esibizione, oltre tutto frequente, in scenari di dolore che rubavano loro ogni ipotesi di sorriso, instillandogli invece gocce di tristezza supplementare al loro già amaro destino di creature senza un padre o una madre.

Altri poveri passavano per il Borgo San Giovanni, salendo dall'arco d'Augusto alla Caserma Giulio Cesare lungo la via Flaminia, nel pomeriggio, all'ora della distribuzione del rancio. Portavano in mano una gavetta militare ed indossavano abiti la cui abbondanza, rispetto al corpo che ricoprivano, denunciava la provenienza in gesti caritatevoli di soccorso. Era una fila lunga soprattutto d'inverno, costituita in prevalenza da persone anziane che s'affidavano alla pietà dello Stato che non aveva altri modi per intervenire. I Comuni, per l'assistenza sanitaria ai "bisognosi", rilasciavano un documento su cui, a scanso di equivoci, si leggeva: "Tessera di povertà". Un Commissario prefettizio di Rimini, in quegli anni, rifiuterà la domanda per una dentiera, allegando un consiglio: "Se non può mangiare, inzuppi del pane nell'acqua"."

Tornando all'immagine. Non ho trovato la scena del funerale di "Amarcord" di cui parlo nel testo. Mi sono accontentato del solenne cortile del ginnasio liceo "Giulio Cesare" che fu frequentato anche dallo stesso Federico Fellini. Ed a cui io da ragazzino non volli iscrivermi per il terrore che da quella scuola emanava in città.

Post scriptum. Un maestro universitario da me ricordato sul web è il pedagogista Giovanni Maria Bertin.




[Anno III, post n. 282 (659), © by Antonio Montanari 2008]

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