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« epifenomeno all'esserein un'oasi d'ebbrezza »

salomé

Post n°24 pubblicato il 16 Marzo 2010 da imagomentis

In questa stanza imprecisa, millimetrata dai segni dell'esistenza, si ripete, ogni giorno con l'esattezza netta dei suoi punti mobili, dislocati altrove, che non s'incontrano mai, il rituale semantico di una visione, isolata per scelta e per scelta accettata, che la mia natura incorporea si accinge a cercare ogni notte, inquieta e appiccicata dai miraggi all'ironico antefatto dell'essere, e la percorre a piedi nudi e pietosi tra la brace, alleggeriti da una falda terrestre, color azzurro intenso ritoccato da anime che galleggiano sulla superficie di piccole polle scavate ai lati e colme d'ambrosia asprigna, sotto uno strato cedevole cosparso di chicchi di melograno misti a fragole e acini d'uva rossa, dal sapore dolciastro.

(Ha gli occhi che si muovono come tessuti porosi su ogni centimetro del mio corpo. Si fermano negli spazi non ancora esplorati dalle dita. Dapprima le inaridisce, queste figure piane inarticolate e immobili sotto il suo sguardo che eccita - forme instabili disegnano, sul mio senso inatteso dal suo senso avvertito, molteplici giochi tattili frementi di tocco, desiderosi di tatto - e li prosciuga fino all'ultima goccia, questi acquitrini al confine della trasfigurazione semantica. Dopo, con una lentezza infinita che suscita interminabili spasmi intermedi di sussulto e stasi, li rende fertili con la preghiera e l'urlo che mormora appena, soffiando sulla cute nel suo accostarsi successivo di labbra inumidite sulla pelle.)

Poi mi stendo sulle lenzuola bianche del letto, amniotico placebo di un passato indocile che sfido nell'ebbrezza carnale dei sensi, capillare come un soffio caldo che rappreso si materializza, ecumenico e vendicatore, in smodati pretesti lasciati fluire copiosamente per mancanza di perfezione e di scioglimento e, tra le pieghe discoste del tessuto umido, la mia pelle s'incolla alla calura ossessiva di questa stagione asmatica e slacciata, che sposta schegge di vuoto e d'indifferenza.

(Vivo da solo e giro nudo per le stanze, in estate. Ascolto Mozart e bevo tequila. Ogni tanto, se la sete è sproporzionata, verso un sorso abbondante del liquore in un boccale di birra fresca, colmo fino all'orlo, che trattiene a stento la schiuma bianca, gonfia e scivolosa sul bordo esterno, in strisce soffici a corolla che inumidiscono il ripiano come una scia di panna e sale mischiati.)

(Sei già in immagine. Mi piacerebbe stringere la tua mano. Magari sfiorandoci con i polpastrelli, per cercare, tra le impronte delle dita e le linee inspiegabili del dorso e del palmo, l'identico a me in te, e a te in me, che ci rassomiglia.)

E lì, nello spazio vuoto alla mia destra dove poggio i fogli del quotidiano e i libri, se chiudo gli occhi e giro il capo bagnato di cose, c'è un'immagine di donna viva in un'idea rarefatta che, con delicatezza e forza, risveglia la musica dei profili accostati nelle fessure della mia solitudine.

(Ora è un universo scavato, il lato destro del mio giaciglio. In questo momento ci sono quattro giornali, tre libri - un saggio, un romanzo, alcune poesie - numerosi fogli A4 pieni di segni inchiostrati, non tutti miei, e un portacenere pieno. Il mio letto ha due lati appoggiati. Si può aderire solo dalla mia parte, perché il lato sinistro è libero dai muri. Sulle due pareti che lo circondano non ci sono quadri, immagini o icone. Il colore della notte è il bianco, da tinteggiare con i sogni. Spesso, al mattino, quando dormo solo, mi sveglio adagiato in diagonale, forse perché intendo tracciare, col mio corpo, l'ipotenusa del materasso a due piazze. C'è spazio anche per te, se vuoi, sogniamo gli stessi sogni, sfidiamo gli stessi incubi e nel lindore della notte potremo congiungerli e spezzettarli insieme, questi moti della coscienza indivisa.)

Abbagliato da una luce improvvisa che non vuole accecare o illuminare, ma solo accendersi nel suo apparire, sono sorpreso dalla grazia inattesa di questa presenza, non caso reale ma necessità vera, che sento spargersi nel rimembrare altre sembianze, separate e disgiunte, dalla loro imprecisa rapina vorace dei miei sfondi nascosti e sottintesi.

(La luce e il buio: metafore abusate di sensi spenti o simboli aciduli di una ridottissima ricerca ontologica, a tratti misurata da uno sguardo obliquo di una divinità sdoppiata, perciò teleologica nella sua divisione blasfema. Voglio piuttosto cercare la mezza luce muschiata, che diluisce l'inconsistenza del bagliore nella solidità della vita inattesa, aggrappata, sensibile. Rifinisco appena i contorni un corpo discinto attenuando i riflessi dei suoi lampi. Un gesto, pieno di luce, svela troppo di sé. Diventa domestica esibizione. Con te, semmai dovessi davvero incontrarti, sarà luminosa penombra.)

Sfiorato dal ricordo che è mosaico intricato di un antico sommuoversi di memoria, irragionevole nello scambio ruvido di baratto nervoso e contrabbandiere di frasi e di sensi, ambigui e consolatori nella loro devastazione infelice, mi specchio nell'acqua limpida della primitiva brocca di terracotta che l'estrema figura, docile e decisa, cingendola tra le sue braccia antiche, offre alla mia bocca socchiusa alla sete, e il mio sguardo si posa a lungo sulla superficie increspata del vaso che cede fresche stille minute e intrise d'umanità, e la mia fronte, ora imperlata, accetta il tocco della mano e si riposa al gesto mite e leggero delle dita.

(Devo tornare indietro nel tempo. E' essenziale il ritorno per segnare le tappe di questo tragitto su un carro d'uragano, calpestato da tutto ciò che sembra forma straniera del divenire. Ho distrutto i ponti alle mie spalle, il cerchio che attraversa in verticale i ricordi, come una lama rotonda e affilatissima, sarà lungo periplo irto di diagonali. Tu potresti essere, se agiti le braccia lentamente e senza fretta ti prendi cura dell'attesa, la mia tregua devota e la mia frescura eretica, il mio digiunare sacro, il mio banchetto festoso, l'inizio e la fine di questo mio vagare. Il ricominciamento.)

La seguirò ovunque vada, dico a me stesso, e chiedo alle mie parole di scortarla nel suo percorso di gemito e di guerra, perché mi riconosco e intendo persino il mormorare sommesso e dignitoso di quel patire insistente, di quel lottare tenace, fino a smarrirsi un pezzo alla volta nello scontro irriducibile tra l'indifferenza di un mondo sordo, ladro di libertà, che cinge d'assedio per estirpare l'anima.

(Tu non celare le tracce. Non trascinare artifici sulla sponda. Anche se sposterai le pietre per coprire le impronte, nella risacca dell'anima, resterò ad aspettarti, nel mondo estraneo delle apparenze, dove tutto è possibile e il soffrire reale è privilegio di pochi. Il resto è maschera pigmentata di sentimento osceno.)

Il percorso delle parole fu semplice. Senza alcuna fatica le mie frasi si mescolavano alle sue. Si appiccicavano insieme e si cercavano, come si fossero riconosciute complici. Persino i suoni, nel ricordo, erano simili ai miei e combaciavano perfettamente agli stati d'animo che un poco alla volta sporgevano dai frantumi del respiro usurpato. L'unica differenza era il mio tacere al dolore, il mio scontrarmi ostinato.
Lei, questa sembianza troppo simile a me, scivolava, sul dolore che l'opprimeva, come trasparente acqua di fiume e limo opaco che straripavano insieme, inondando e rendendo nuovamente fertile di sentimento la mia polverosa memoria.

(Ci scambieremo balsami e unguenti e andremo a bagnarci nel fiume con gli occhi socchiusi.. Se tu lo vorrai, ti permetterò di prenderti cura delle mie ferite invisibili che lascio sanguinare, non riconoscendo loro il diritto di esistere, da qualche tempo. Io cerco di medicare le tue.
Il dolore è assurdo solo perché esiste. Solo per questo.)

Così, per accompagnarla, spontaneamente ritornai nell'inferno di terra e di fuoco infestato dalla privazione e dall'assenza di gesti leggeri e di carezze non chieste, percosso dalla fuga delle cose nei visi alterati di nebbia. Mi gettai in quella ricerca implacabile di verità rabbonita, abbozzata nell'intuire e compiuta dal ragionare, che porta con sé una coscienza allentata dal dondolio, come nenia dell'incanto travolta dallo sciabordio, come vortice del liquame, arrossato e denso, untuoso messaggero dell'inservibile mattanza umana, fatta di sentimento infinito, diventato scaglioso di nulla per allontanare da sé ciò che nasce nell'apparenza, una possibile identificazione rarefatta di parti in spirito e ritagli corporei, e scaturisce come pantomima, inservibile e abusata di ombre che solo per caso si impossessano di noi e ci deridono, ma non resistono all'incedere ripetuto del rivelarsi di sé.

(Troveremo insieme i fuochi fatui del malessere e li spegneremo uno ad uno, così torneremo a sorridere e la voce dirà finalmente la guerra, se guerra deve essere, o racconterà, nel muschio docile del vero esistere, del desiderio di armonia e di pace.)

Fu un respiro reale, non il soffio irreale dell'anima smagliata da esoteriche oscurità, che si mosse vicino, spolverando il ricordo, e non fu fatica riprendere lo scandagliare interrotto negli anfratti scoscesi della psiche e dell'eros, a mio rischio e pericolo. Nel mio intelletto romito, all'inizio fui incerto, poi distinsi la strada del ritorno. Non tremai nell'atrio fumoso di questo posto brulicante di spettri millenari e li riconobbi tutti, nei loro trucchi blasfemi e affamati di parole che non svelano, strappando l'anima di ogni uomo, come lo sguardo, che cade tra le cose e le creature imperfette e li descrive in silenzio, perché smuove un coccio di infinito e lo conserva intatto nell'originario suo manifestarsi a tratti.

(Sento, nel suono duttile della tua voce, i piccoli mutamenti di una mente libera che non tace, incantevole nel piegarsi dolce del viso per contemplare, in uno sguardo puro, il labirinto dell'anima incatenata. Il tuo segreto, poggiato sul manto ceruleo dell'iride, è indicato a piccoli cenni, e io lo proteggo per conservarlo tra le immagini di questo nostro dissotterrarci.)

Il mio sogno si ripresenta leggero e dolce, nel caos indugiato nelle contraddizioni semantiche dell'essere uomini liberi con una coscienza, non corrosa ma chiusa al dolore e dilatata da una percezione dell'umano indistinto tra il bene e il male, che non si estingue nonostante il condono giurato da falsi idolatri corrotti da parole mercenarie che ricevono il soldo derubato.

(Lasciando gocciolare su di noi le stille dense del nostro sfiorarci, scrosteremo la caligine dell'ipocrisia, il vuoto orribile della menzogna brumosa che spacca e separa la certezza dell'annunciare e marchieremo feroci, col sigillo acceso del silenzio, la miseria morale che non ci appartiene e taglieremo implacabili, con la lama della furia indomata, i falsi idiomi aggressori per imprigionarci.)

Poi, lontano, mi siederò pensoso su una gran pietra bianca, levigata dal mare, e lì, nella vaghezza del mio silenzio di roccia, aspetterò, nella memoria ferita, gli ultimi sussulti del disastro, per ricominciare nomade, a piedi scalzi sulla battigia, il cammino lento sulla costa, nell'attesa inquieta di stranieri che daranno dal mare nuove idee e saranno amici nella conoscenza, oppure chiederanno nuove battaglie e saranno nemici da respingere, anche da solo, tra le onde rumorose della loro disfatta o della mia.

(Così tu, agli occhi del mio accadimento luminoso, non appari per ora straniera ma potresti diventarlo, e se dovessi invadere il mio mondo inclinato per farne scempio, questo mio semplice mondo chiuso nel mio terrapieno, ti lascerò il bastione e ti guarderò osservare il mio passo dalle guglie di pietra compatta che mi divise dalla gente, e che ora protegge te che custodisci il mio segreto.)

 

 

 
 
 
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