Creato da: cavallo140 il 15/08/2009
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I Dieci Comandamenti di Benigni

Post n°274 pubblicato il 21 Dicembre 2014 da cavallo140
 

Milano, ore 09:00. Da sacerdote paolino, sto iniziando la mia giornata da pastore della comunicazione nella redazione di Famiglia Cristiana. Accendo il mio computer, seleziono i programmi di videoscrittura e accedo alla mia pagina Facebook. Controllo gli umori della Rete e mi accorgo che gli utenti sono in totale visibilio. La maggior parte di loro ha visto lo spettacolo televisivo di Roberto Benigni sui Dieci Comandamenti, andato in onda ieri sera su Rai 1, e ne è rimasta entusiasta: “Ha lasciato un segno! Grandioso. I preti prendano esempio da lui! Così si comunica la gioia della fede!”, commenta Luigi, il cui post riceve oltre 400 “mi piace” e un centinaio di conferme da parte dei suoi contatti. “Benigni, è strabiliante e commovente! Un vero credente. Voglio essere come lui”, scrive Magda, al cui entusiasmo si associano quasi 600 adesioni.

 Il frizzante comico toscano ha fatto il botto. Si, non c’è dubbio. Ma l’esplosione più grande è avvenuta nei cuori di chi lo ha ascoltato. Un linguaggio semplice e scoppiettante quello usato da Benigni, ma mai banale o scontato. Una passione travolgente e genuina quella che ha trasmesso, capace di “risvegliare” le anime portandole alla radice della nostra storia. Una fede incarnata nell’oggi. Un sapiente dosaggio tra il significato profondo della relazione Dio/uomo e la stringente attualità. E che saggio di cultura! Attraverso la storia di Mosè, ha messo in contatto il messaggio eterno del nostro Padre con il cuore rassegnato dei credenti. E non solo. Pare aver riacceso scintille ormai coperte di cenere nei cuori di chi da tempo ha scelto la via della “latitanza” dalla chiesa e da Dio. La scossa, in sostanza, c’è stata. “Ma lo facciamo da sempre anche noi. Adesso non esageriamo!”, ha provato a ricordare un mio amico prete sulla bacheca di Luigi. Un’amica comune, Angela, ha risposto: “La differenza è stata lo stile. Ha detto tutto ciò che sappiamo in modo nuovo, bello, vitale, agganciato alla realtà. Dove le nostre sofferenze e le delusioni che proviamo di fronte al mondo politico e sociale hanno trovato una risposta diversa”. “I preti prendano esempio da lui”. Forse Luigi ha ragione. Roberto Benigni ci ha dimostrato come si può evangelizzare ai nostri giorni. Ha saputo valorizzare un mezzo comunicativo e di intrattenimento come la Tv per portare la “presenza di Dio” nella vita di ogni uomo e di ogni donna. Ha preso a “schiaffi”, ma con grande affetto, tutti i preti come me. Ha voluto suggerirci una via alternativa. È come se ci avesse fatto capire che non dobbiamo mai abbandonare la passione per l’annuncio della “buona novella”, e, tanto meno, sederci su ciò che crediamo aver conquistato. L’esempio di Benigni non può non interrogare il nostro modo di essere cristiani. E, allo stesso tempo, rivitalizzarlo, soprattutto di fronte all’arrivo del Natale. Sarebbe splendido se riuscissimo a dare ancora più vigore a quanto ricordato ieri sera: “Io sono il Signore Dio tuo... quel "tuo" rende il comandamento una professione d'amore di Dio

per ogni persona... Io sono tuo e tu sei mio/mia”. Una storia d’amore che non avrà mai fine.

 
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AUTUNNO

Post n°273 pubblicato il 09 Dicembre 2014 da cavallo140
 

Autunno
Autunno mansueto, io mi posseggo
e piego alle tue acque a bermi il cielo,
fuga soave d’alberi e d’abissi.
Aspra pena del nascere
mi trova a te congiunto;
e in te mi schianto e risano:
povera cosa caduta
che la terra raccoglie.
Salvatore Quasimodo

 

Immagine

Due strade divergevano in un bosco d’autunno
e spiacente di non poterle percorrere entrambe,
essendo uno solo, mi fermai a lungo
e guardai, per quanto possibile, in fondo alla prima,
verso dove svoltava, in mezzo agli arbusti.
Poi presi l’altra, anch’essa discreta,
forse con pretese migliori, perché era erbosa e meno segnata
sebbene in realtà le tracce fossero uguali in entrambe le strade.
Ed entrambe quella mattina erano ricoperte di foglie
che nessun passo aveva annerito.
Tenni la prima per un altro giorno,
anche se, sapendo che una strada porta verso un’altra strada,
dubitai di poter mai tornare indietro.
Racconterò questo con un sospiro
Tra anni e anni:
due strade divergevano in un bosco e io,
io presi la meno battuta.
Questo ha fatto la differenza.
Robert Frost, “La strada non presa

 
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Leonardo Sciascia

Post n°272 pubblicato il 16 Novembre 2014 da cavallo140

Leonardo Sciascia nasce a Racalmuto, nell’entroterra agrigentino, l’8 gennaio 1921, primo di tre fratelli. La madre viene da una famiglia di artigiani, il padre è impiegato in una delle miniere di zolfo della zona. Sciascia trascorre con il nonno e le zie la maggior parte dell’infanzia e il loro ricordo ricorrerà spesso nelle numerose interviste successivamente rilasciate dall’autore, nelle quali spiegherà anche il profondo legame con la Sicilia delle zolfare, a cui lo avvicinano il nonno e il padre.

A sei anni Sciascia inizia la scuola. Da subito affiora la sua forte passione per la storia, unita all’amore per la scrittura e gli strumenti dello scrivere: matite, penne, carta e inchiostro sono oggetto dei suoi giochi; sulla prima pagina di un quadernetto bianco il piccolo Leonardo scrive: "Autore: Leonardo Sciascia". A partire dagli otto anni si dedica intensamente alla lettura di tutti i libri che gli è possibile reperire a Racalmuto fra la cerchia dei parenti, un centinaio di pubblicazioni che riescono per un poco a placare la sua bulimia di lettura. Nel 1935 l’autore si trasferisce a Caltanissetta con la famiglia e si iscrive all’Istituto Magistrale IX Maggio, nel quale insegna Vitaliano Brancati. Lo scrittore diventerà per Sciascia un modello, mentre all’incontro con il giovane insegnante Giuseppe Granata (futuro senatore del PCI) Sciascia riconosce la scoperta degli illuministi e della letteratura americana. Per due volte rimandato alla visita di leva, la terza è considerato idoneo al servizio militare ed è assegnato ai servizi sedentari, anche se non viene richiamato alle armi. Nel 1941 supera l’esame per diventare maestro elementare. Nello stesso anno lo scrittore è assunto all’ammasso del grano di Racalmuto dove resterà fino al 1948: un’esperienza che gli permette di conoscere il mondo contadino siciliano. Nel 1944 sposa Maria Andronico, maestra nella scuola elementare di Racalmuto. Da lei Sciascia avrà le sue due figlie, Laura e Anna Maria. Pochi anni dopo, nel 1948, il suicidio del fratello Giuseppe lascia un segno profondo nell’animo dell’autore. Nel 1949 inizia ad insegnare nella scuola elementare nel suo paese. È del 1952 la pubblicazione del «primo lemma di Leonardo Sciascia» (Scalia): si tratta di Favole della dittatura, ventisette testi brevi di prosa assai studiata. Sempre nel 1952, esce la raccolta di poesie La Sicilia, il suo cuore, illustrata con disegni dello scultore catanese Emilio Greco. Sciascia vince nel 1953 il Premio Pirandello per un suo importante intervento critico sull’autore di Girgenti (Pirandello e il pirandellismo). Dal 1954 si trova alla direzione di «Galleria» e di «I quaderni di Galleria», riviste antologiche dedicate alla letteratura e agli studi etnologici. Frequenta in quegli anni la Caltanissetta di Luigi Monaco e del suo omonimo Salvatore Sciascia, ricavandone forti stimoli che si traducono in frequenti collaborazioni con diversi giornali e riviste letterarie. Nell’anno scolastico ‘57-’58 viene distaccato a Roma, al ministero della pubblica istruzione. Al suo ritorno si ristabilisce con la famiglia a Caltanissetta, ma interrompe l’attività di insegnamento per lavorare in un ufficio del Patronato scolastico. Nel 1956 esce il primo libro di rilievo Le parrocchie di Ragalpetra, a cui seguono nell’autunno del ’58 i tre racconti della raccolta Gli zii di Sicilia: La zia d’America, Il quarantotto e La morte di Stalin. Nel 1960 è pubblicata la seconda edizione de Gli Zii di Sicilia, a cui s’è aggiunto un quarto racconto, L’antimonio. Del 1961 è invece Il giorno della civetta, il romanzo sulla mafia che porterà a Sciascia la maggior parte della sua celebrità: e proprio l’impegno civile e la denuncia sociale dei mali di Sicilia saranno uno dei tratti più pertinenti per la definizione della fisionomia dello scrittore e intellettuale Leonardo Sciascia. Oltre a Il consiglio d’Egitto (1963), gli anni Sessanta vedranno nascere alcuni dei romanzi più sentiti dallo stesso autore, dedicati proprio alle ricerche storiche sulla cultura siciliana: A ciascuno il suo (1966) un libro bene accolto dagli intellettuali e da cui Elio Petri ha tratto un film nel 1967; e Morte dell’Inquisitore (1967), che prende spunto dalla figura dell’eretico siciliano Fra Diego La Matina. Nello stesso anno esce per l’editore Mursia un’Antologia di narratori di Sicilia, curata da Sciascia insieme a Salvatore Guglielmino. Lo scrittore tenterà anche di applicare al teatro la propria propensione alla scrittura fortemente dialogata, ma l’incontro/scontro con la mediazione operata dal regista gli appare come "devastatrice" dei testi e lo induce ad abbandonare il proprio impegno teatrale. Sul finire del decennio Sciascia si trasferisce a Palermo in una casa zeppa di libri e d’estate torna a Racalmuto per scrivere. Il 1970 è l’anno del pensionamento e dell’uscita de La corda pazza, una raccolta di saggi su cose siciliane nella quale l’autore chiarisce la propria idea di "sicilitudine" e dimostra una rara sensibilità artistica espressa per mezzo di sottili capacità saggistiche. Il 1971 è l’anno de Il contesto, libro destinato a destare una serie di polemiche, più politiche che estetiche, alle quali Sciascia si rifiuta di partecipare ritirando la candidatura del romanzo al premio Campiello. Tuttavia si fa sempre più forte la propensione ad includere la denuncia sociale nella narrazione di episodi veri di cronaca nera: gli Atti relativi alla morte di Raymond Roussel (1971), I pugnalatori (1976) e L’affaire Moro (1978) ne sono un esempio. Nel 1974, nel clima del referendum sul divorzio e della sconfitta politica dei cattolici, nasce Todo modo, un libro che parla «di cattolici che fanno politica» (Sciascia) e che viene naturalmente stroncato dalle gerarchie ecclesiastiche. Alle elezioni comunali di Palermo nel giugno ’75 lo scrittore è candidato come indipendente nelle liste del partito comunista: eletto con un forte numero di preferenze Sciascia si dimette da consigliere già all’inizio del 1977. La sua contrarietà al compromesso storico e il rifiuto per certe forme di estremismo lo portarono infatti a scontri molto duri con la dirigenza del partito comunista. Significativamente, quell'anno pubblicherà Candido. Ovvero, un sogno fatto in Sicilia. In questi anni aumenta la frequenza dei suoi viaggi a Parigi e si intensificano i contatti con la cultura francese, da lui sempre tenuta come essenziale punto di riferimento. Nel 1979 accetta la proposta dei radicali e si candida sia al Parlamento europeo sia alla Camera. Eletto in entrambe le sedi istituzionali opta per Montecitorio, dove rimarrà fino al 1983 occupandosi quasi esclusivamente dei lavori della commissione d’inchiesta sul rapimento Moro. In seguito a nuovi contrasti con il PCI di Berlinguer Sciascia abbandona l’attività politica, ma non rinuncia all’osservazione delle vicende politico-giudiziarie dell’Italia, in particolare per quanto riguarda la mafia. In un articolo sul «Corriere della sera» dal titolo I professionisti dell' antimafia, nel 1987 Leonardo Sciascia afferma che in Sicilia, per far carriera nella magistratura, nulla vale più del prender parte a processi di stampo mafioso. La memoria, privata e collettiva, restano però al centro della produzione letteraria sciasciana. Dalla collaborazione con la casa editrice Sellerio di Palermo origina una collana chiamata appunto "La memoria", che si apre con un suo libro, Dalle parte degli infedeli (1979), e che con le sue Cronachette festeggia nel 1985 la centesima pubblicazione. Per un ritratto dello scrittore da giovane è un’opera considerata “minore” di Leonardo Sciascia. In realtà, ci troviamo di fronte a un altro importante scritto che aiuta a cogliere l’ispirazione più profonda dell'autore, attraverso la letture di pagine e la scoperta di luoghi letterari ancora poco frequentati. Gli ultimi anni di vita dello scrittore sono segnati dalla malattia che lo costringe a frequenti trasferimenti a Milano per curarsi. Sia pure a fatica prosegue la sua attività di scrittore, mentre i continui attacchi di una sinistra opportunista e ideologizzata lo impegnano in sempre più taglienti e ironiche reazioni. Carichi di dolenti inflessioni autobiografiche sono i brevi racconti gialli Porte aperte (1987), Il cavaliere e la morte (1988) e Una storia semplice (in libreria il giorno stesso della sua morte), in cui si scorgono tracce di una ricerca narrativa all'altezza della difficile e confusa situazione italiana di quegli anni. Pochi mesi prima di morire pubblica Alfabeto pirandelliano, A futura memoria (pubblicato postumo), e Fatti diversi di storia letteraria e civile edito da Sellerio. Opere nelle quali si ritrovano le principali tematiche della produzione sciasciana, dalla "sicilitudine" a quell’impegno civile che lo aveva caratterizzato lungo tutta la sua vita intellettuale, di cui rimane una testimonianza anche nelle numerose interviste rilasciate durante tre decenni della storia nazionale italiana. Sciascia muore a Palermo il 20 novembre 1989, salutato da numerose parole di stima, fra cui quelle del grande amico Gesualdo Bufalino. Il suo corpo riposa all’ingresso del cimitero di Racalmuto.

 
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La famiglia...

Post n°271 pubblicato il 15 Agosto 2014 da cavallo140
 

C'era una volta la famiglia...

Esistono molteplici forme di famiglia, come esistono molteplici forme di unione tra le persone. Ogni famiglia ha le sue peculiarità, delle difficoltà specifiche e dei punti punti di forza.La nostra costituzione all'articolo 29, sancisce che la Repubblica Italiana riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio; ciò sta ad indicare che le leggi dello stato concepiscono esclusivamente un unico modello di famiglia, quello “classico”, formato da uno o più figli e da un uomo e una donna uniti in matrimonio.
Ma andiamo a vedere quali altre forme di famiglia esistono.Pensiamo alle famiglie monogenitoriali, nelle quali un genitore da solo, deve fare fronte all'educazione e al mantenimento dei figli. Indipendentemente dal motivo per il quale viene a mancare uno dei due genitori (separazione, divorzio, morte ...) è innegabile che le difficoltà di una famiglia di questo tipo sono innumerevoli. Ma è anche vero che in queste famiglie forse proprio grazie alla situazione particolare, si deve sapere prendere delle decisioni da soli ed essendo meno coccolati si impara prima ad affrontare le avversità della vita e a combattere per i propri diritti. Crescere in una famiglia “ristretta” quindi può fare maturare più in fretta e insegnare a vivere con responsabilità e rigore.

Ci sono poi le famiglie allargate che sono in constante aumento. Questa forma di famiglia relativamente nuova è composta prevalentemente da una coppia di genitori, i figli di precedenti matrimoni, dagli eventuali ex- coniugi e ovviamente da tanti nonni. Gli inglesi chiamano la famiglia allargata patchwork, come le trapunte fatte recuperando i pezzi di stoffa migliori di capi ormai consumati. Tanto quanto le tradizionali trapunte patchwork, la famiglia allargata per forza di cose è sempre variopinta, allegra e magari un po' incasinata.

Poi ci sono le famiglie affidatarie e le famiglie adottive. Nelle prime i bambini passano un determinato periodo di tempo con altri genitori per poi tornare alla famiglia di origine, mentre nel secondo tipo di famiglia i bambini entrano a far parte definitivamente della famiglia adottiva. Questi bambini hanno spesso due famiglie: una adottiva ed una biologica, spesso di culture diverse.

Poi ci sono quelle famiglie nelle quali i genitori hanno deciso di non sposarsi, uguali in tutto e per tutto alla famiglia classica, se non per il fatto che i due genitori non sono uniti da una unione regolamentata.

Inoltre ci sono le cosiddette famiglie arcobaleno, nelle quali uno dei genitori è omosessuale e il figlio è nato da una relazione eterosessuale precedente. Oppure entrambi i genitori sono omosessuali e i figli sono frutto di una procreazione assistita.

Alla fine di questo elenco è lecito chiedersi se una coppia senza figli non sia anch'essa da considerarsi un nucleo famigliare?

Sicuramente in questa fase storica il concetto di famiglia sta per essere rivisto e allargato anche a livello giuridico. Come è sempre avvenuto nel corso della storia, si svilupperanno altre forme di famiglia e forse altre cadranno in disuso. Una cosa è comunque certa: la famiglia contemplata dall'articolo 29 è solo una delle forme di convivenza possibili, e non per forza sempre la migliore.
A nostro parere la famiglia è il luogo dove vige la solidarietà, l'affetto e l'amore indipendentemente dal vincolo di matrimonio e dalla presenza o meno di figli.
lotta di famiglia 585x418 Lotta di famiglia
Ciò che accadrà nei mutamenti dell’idea di famiglia non ci è ancora dato di sapere, se non sforzando notevolmente la fantasia, ma l’accettazione delle varie forme di famiglia, diverse e variabili, rappresenta l’unico vero profilo di comprensione che umanamente ci appartiene .
 
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Quando Sarò Capace d'Amare

Post n°270 pubblicato il 01 Agosto 2014 da cavallo140
 
Tag: L'amore

Quando sarò capace di amare 
probabilmente non avrò bisogno 
di assassinare in segreto mio padre 
né di far l'amore con mia madre in sogno.

Quando sarò capace di amare 
con la mia donna non avrò nemmeno 
la prepotenza e la fragilità 
di un uomo bambino.

Quando sarò capace di amare 
vorrò una donna che ci sia davvero 
che non affolli la mia esistenza 
ma non mi stia lontana neanche col pensiero.

Vorrò una donna che se io accarezzo 
una poltrona un libro o una rosa 
lei avrebbe voglia di essere solo 
quella cosa.

Quando sarò capace di amare 
vorrò una donna che non cambi mai 
ma dalle grandi alle piccole cose 
tutto avrà un senso perché esiste lei.

Potrò guardare dentro al suo cuore 
e avvicinarmi al suo mistero 
non come quando io ragiono 
ma come quando respiro

Quando sarò capace di amare 
farò l'amore come mi viene 
senza la smania di dimostrare 
senza chiedere mai se siamo stati bene.

E nel silenzio delle notti
con gli occhi stanchi e l'animo gioioso
percepire che anche il sonno è vita
e non riposo.

Quando sarò capace di amare 
mi piacerebbe un amore
che non avesse 
alcun appuntamento col dovere

Un amore senza sensi di colpa 
senza alcun rimorso 
egoista e naturale 
come un fiume che fa il suo corso

Senza cattive o buone azioni
senza altre strane deviazioni
che se anche il fiume le potesse avere 
andrebbe sempre al mare.

Così vorrei amare

Giorgio Gaber

In un tempo senza ideali ne' utopia, dove l'unica salvezza è un'onorevole follia...

 
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Italia: il paese che ruba anche i sogni......

Post n°269 pubblicato il 31 Luglio 2014 da cavallo140
 

Scrivere è la mia forma di sognare Scrivere è la mia forma di sognare e faccio fatica a sognare ultimamente in questo Paese. Purtroppo non vedo più nemmeno un barlume di luce, che possa salvare l’Italia da una fine indecorosa, è un paese economicamente destinato a fallire e governato da gente incompetente, truffaldina e non scelta dal popolo. Ah il popolo… Pure quello non mi dà speranza alcuna. E’ possibile che la televisione ci abbia fatto diventare così ciechi, così ignoranti. Anche i più giovani che possono cercare notizie ed informarsi sul web non fanno altro che stare su facebook a parlare della neve e a fotografare quello che mangiano. I telegiornali non parlano di nulla, al massimo di cosa fa Belen Rodriguez, la diva della televisione italiana. E poi che importa come ha fatto ad essere così famosa, ora è Belen. Ed è questo il sogno delle ragazze italiane, essere come lei. In Italia sicuramente il fine giustifica i mezzi, tutti i mezzi… E quelli che hanno più potere sono i più sporchi e i più protetti della piramide sociale. In Italia non si può sperare nemmeno di vincere due spiccioli alle slot machine o alle scommesse, perché sono truccate e servono a fare arricchire quelli che ricchi già sono.Che sogno dovrei avere allora vivendo qua? Purtroppo sono nato onesto e mia madre mi ha inculcato quella sua maledetta bontà d’animo, non sono fatto per questo paese, qua non sarò mai nessuno. Mi piace rispettare la fila quando vado a comprare il pane e anche quando vado dal medico, pur sapendo che tutti mi supereranno perché loro hanno solo bisogno di una ricetta. Mi piace rispettare i limiti di velocità e fare attraversare la strada a una vecchietta con le buste della spesa. Non mi piace invece farmi raccomandare, chiedere lo sconto se me lo fa pagare senza fattura e avere vantaggi che non mi spettano. Non mi piace essere rappresentato da condannati, che nessuno ha votato. Non mi piace vivere in un paese incoerente, subdolo, arretrato. Stanotte vorrei addormentarmi e aspettare che nel sonno Peter Pan venga e mi faccia volare via con lui… Ma Peter non portarmi all’Isola che non c’è, sono troppo grande per stare ancora con i bimbi sperduti, mi basta che mi porti in un paese dove si possa sognare ogni mattina quando suona la sveglia.

 
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Verità nascoste

Post n°268 pubblicato il 26 Luglio 2014 da cavallo140
 

L’importanza dell’agenda rossa di Borsellino
Storia di un mistero lungo ventidue anni

Si dice che Paolo Borsellino non si separasse mai dalla sua agenda rossa. Era sempre con lui, quando lavorava con Giovanni Falcone, quando andava in chiesa, quando citofonava alla madre. Ed era con lui quando il 19 luglio di 22 anni fa una Fiat 126 esplose, squarciando via D’Amelio, portando via l’ultimo baluardo, forse il più forte, della lotta contro la mafia. Usarono 100 chilogrammi di tritolo per uccidere Borsellino. “È finito tutto”, fu il commento del capo del pool antimafia, Antonino Caponnetto.

E invece non finì tutto. La presa di coscienza di un’intera Nazione, la lotta, i processi: il vaso di Pandora della mafia a quel punto non poteva più restare chiuso. Però nella morte ancora senza giustizia di Paolo Borsellino si cela anche uno dei grandi misteri della storia italiana. Quell’agenda rossa che il magistrato aveva riposto con cura nella ventiquattrore con cui era uscito di casa, quell’agenda che aveva avuto in dono dall’Arma dei Carabinieri all’inizio dell’anno, nessuno l’ha più trovata.

C’erano gli occhiali da sole, un costume da bagno, qualche effetto personale. E nient’altro. Eppure la moglie Agnese e il figlio Manfredi erano sicuri che l’agenda rossa fosse con Borsellino nel momento più brutto. Lì dentro, il magistrato aveva appuntato ciò che lo crucciava sin dalla morte dell’amico Giovanni Falcone. Ad assicurarlo è la testimonianza di uno dei suoi più fidati investigatori, il tenente Carmelo Canale, a cui Borsellino disse, scrivendo nell’agenda: “Sono successi troppi fatti in questi mesi, anch’io ho le mie cose da scrivere”.

Tra i tanti, troppi, fatti che Borsellino stava analizzando, c’erano le prime rivelazioni dei pentiti di mafia. Uno su tutti, Gaspare Mutolo, l’ex autista di Totò Riina, che svelò i nomi delle “talpe” di Cosa nostra nelle istituzioni. Borsellino però aveva anche avuto notizia di una “trattativa” tra i mafiosi e lo Stato. In un’altra agenda, stavolta grigia, Borsellino scrisse il cognome dell’allora ministro degli Interni Nicola Mancino: lui ha sempre negato quell’incontro.

L’importanza di quell’agenda rossa è proprio in ciò che non sappiamo della storia. Quei fogli rilegati per prendere appunti avrebbero potuto nascondere una verità che si cerca da anni ormai, con un processo aperto a Palermo e che sembra non avere fine. L’importanza di quell’agenda rossa è nel modo in cui è sparita, fumoso, incomprensibile, un colpo di scena in una scena tetrissima.

Esiste un video in cui si vede un carabiniere in borghese, Giovanni Arcangioli, prendere la borsa di Borsellino e allontanarsi da via D’Amelio. La borsa poi verrà ritrovata nell’auto blindata del magistrato. Arcangioli venne indagato per il reato di furto dell’agenda rossa con l’aggravante di aver favorito la mafia ma poi fu prosciolto per “non aver commesso il fatto”. Ma allora chi ha preso l’agenda rossa?

Il mistero è lungo 22 crudelissimi anni, quelli che sono passati dalla morte di Borsellino. Le indagini continuano, i processi non si fermano. Soltanto quattro giorni fa al processo “Borsellino quater” di Caltanissetta, Fausto Cardella, il sostituto procuratore incaricato di indagare sulle stragi del ’92, ha ricordato che la borsa di Paolo fu trovata abbandonata, quasi con noncuranza: “All’interno c’era sicuramente un’agenda marrone, di quelle appartenenti ai carabinieri. C’era poi un’agenda con alcuni numeri di telefono ma l’agenda rossa, di cui aveva parlato il maresciallo Canale, non c’era”. Il mistero dell’agenda rossa insomma sembra indissolubilmente legato alla mancanza: di prove, di chiarezza, di verità. Di Paolo Borsellino.

 
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Vivere con passione

Post n°267 pubblicato il 26 Giugno 2014 da cavallo140

Vivere con passione

Ho perdonato errori quasi imperdonabili, ho provato a sostituire persone insostituibili e dimenticato persone indimenticabili. Ho agito per impulso, sono stato deluso dalle persone che non pensavo lo potessero fare, ma anch’io ho deluso. Ho tenuto qualcuno tra le mie braccia per proteggerlo; mi sono fatto amici per l’eternità. Ho riso quando non era necessario, ho amato e sono stato riamato, ma sono stato anche respinto. Sono stato amato e non ho saputo ricambiare. Ho gridato e saltato per tante gioie, tante. Ho vissuto d’amore e fatto promesse di eternità, ma mi sono bruciato il cuore tante volte! Ho pianto ascoltando la musica o guardando le foto. Ho telefonato solo per ascoltare una voce. Io sono di nuovo innamorato di un sorriso. Ho di nuovo creduto di morire di nostalgia e… ho avuto paura di perdere qualcuno molto speciale (che ho finito per perdere)… ma sono sopravvissuto! E vivo ancora! E la vita, non mi stanca… E anche tu non dovrai stancartene. Vivi! È veramente buono battersi con persuasione, abbracciare la vita e vivere con passione, perdere con classe e vincere osando, perchè il mondo appartiene a chi osa! La Vita è troppo bella per essere insignificante!

Charlie Chaplin

 
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Scelte di vita

Post n°266 pubblicato il 13 Maggio 2014 da cavallo140
 

Mai stato meglio...

Giovanni era un tipo che Vi sarebbe piaciuto conoscere.

Era sempre di buon umore e non di rado aveva qualcosa di positivo da dire.
Quando qualcuno gli chiedeva come stava, la sua risposta era qualcosa come:

- "Mai stato meglio!"

Lui era un maître speciale per i suoi camerieri che lo seguivano di ristorante in ristorante conquistati dalle sue attitudini. Era un ottimista nato.
Se un suo collaboratore si trovava in una giornata no, Giovanni lo incoraggiava a vedere il lato positivo della situazione.

Incuriosita dal suo stile di vita, un giorno gli ho chiesto:

- "Non si può essere così ottimista tutto il tempo. Come fai? "

Lui mi ha risposto:

"- Nel risvegliarmi ogni mattina dico a me stesso: Giovanni, oggi hai due scelte: puoi stare di buono o di cattivo umore. Io scelgo il buon umore. Ogni volta che mi capita qualcosa di spiacevole posso scegliere di sentirmi una vittima o di imparare qualcosa dall'accaduto. Scelgo di imparare qualche cosa. Ogni volta che sento qualcuno lamentarsi posso decidere di accettare il suo reclamo o di fargli vedere il lato positivo della vita."

"- Certo ma non è poi così facile!" - ho pensato.

"- È facile." - mi rispose Giovanni.

"- La vita è fatta di scelte. Quando analizzi ogni situazione profondamente, trovi sempre una possibilità di scelta. Sei tu a scegliere come reagire davanti ai fatti. Sei tu a scegliere come le persone potranno influire sul tuo umore. Scegli tu come vivere la tua vita."

Ho valutato quanto dettomi da Giovanni, mi ricordavo di lui ogni qualvolta dovevo fare una scelta.

Anni dopo, seppi che una mattina Giovanni commise l'errore di lasciare aperta la porta di servizio nel retro, così fu assalito dai rapinatori. Tenuto in ostaggio, mentre cercava di aprire la cassaforte, con la mano tremante per il nervosismo, fece inceppare la combinazione. I malviventi colti dal panico, finirono per sparargli e lo colpirono. Fortunatamente Giovanni fu trovato in tempo per essere soccorso e portato in ospedale. Dopo 18 ore di chirurgia e settimane di trattamenti intensivi, fu dimesso ma gli rimasero nel corpo frammenti delle pallottole che lo colpirono.

In seguito quasi per caso ho incontrato Giovanni. Quando gli ho chiesto come stava, mi ha risposto:

"- Mai stato meglio!"

Mi raccontò dell'accaduto chiedendomi:

"- Vuoi vedere le mie cicatrici?"

Mi sono rifiutato di vederle ma gli ho domandato cosa fosse passato per la sua mente durante la rapina.

"- La prima cosa che ho pensato è che avrei dovuto chiudere la porta nel retro. Allora, sdraiato per terra, in una pozza di sangue, avevo due scelte: avrei potuto vivere o morire. Ho scelto di vivere."

"- Non avevi paura?" - gli ho chiesto.

"- I paramedici sono stati grandiosi. Mi dicevano che sarebbe andato tutto bene e che io mi sarei ripreso presto. Ma quando sono entrato nella sala d'emergenza e vidi l'espressione dei medici e degli infermieri, mi terrorizzai. Nelle loro labbra lessi: "questo qui è già spacciato". Allora decisi che avrei dovuto fare qualcosa.

"- Cosa hai fatto?" - ho domandato.

"- Bene, c'era un'infermiera che faceva un sacco di domande. Mi chiese se ero allergico a qualche cosa. Le risposi: "siiii!!!!!…". Tutti si fermarono per sentire la mia risposta. Presi un po' di fiato e urlai: "Sono allergico alle pallottole." Fra le loro risate dissi ancora: "Sto scegliendo di vivere, per favore, operatemi come un essere vivo e non come un essere già morto!""

*************

Ho imparato che ogni giorno abbiamo quasi sempre la scelta di vivere pienamente, di decidere del bene e del male, di accostarci alle persone ed ai sentimenti più giusti per noi, di fare o non fare certe esperienze, di affrontare fatiche che potranno migliorarci domani e rendere dopodomani la vita ancora più utile e felice per noi e gli altri.

L'ATTITUDINE è quindi una nostra libera scelta e di conseguenza la decisione di avvicinarci o allontanarci dal TUTTO.


 
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Prima di tutto l'uomo

Post n°265 pubblicato il 17 Marzo 2014 da cavallo140
 

Non vivere su questa terra

come un estraneo

e come un vagabondo sognatore.

 Vivi in questo mondo

come nella casa di tuo padre:

credi al grano, alla terra, al mare,

ma prima di tutto credi all’uomo.

 Ama le nuvole, le macchine, i libri,

ma prima di tutto ama l’uomo.

Senti la tristezza del ramo che secca,

dell’astro che si spegne,

dell’animale ferito che rantola,

ma prima di tutto senti la tristezza

e il dolore dell’uomo.

 Ti diano gioia

tutti i beni della terra:

l’ombra e la luce ti diano gioia,

le quattro stagioni ti diano gioia,

ma soprattutto, a piene mani,

ti dia gioia l’uomo!

 

Nazim Hikmet

 

L’uomo è l’alfa e l’omega di tutte le cose, il principio e la fine ultima. Che cosa infatti si può dire o fare prescindendo dalla nostra condizione esistenziale?

Nazim Hikmet, una voce artistica straordinaria nel panorama novecentesco, ci induce a riflettere su tutto questo, e lo fa attraverso un componimento poetico che è una lettera, un invito, un ultimo appello. Un invito a non considerarci estranei, vagabondi, clandestini del e nel mondo, ma protagonisti, temporanei sicuramente, eppur sempre protagonisti.

Dunque che cosa rappresenta l’uomo per l’uomo?

Il senso di precarietà che talvolta avvertiamo, anche forte e preponderante, può farci smarrire l’obiettivo. L’obiettivo non è altro che l’uomo stesso, nei suoi punti di forza così come nelle sue fragilità. Il poeta con decisione afferma tale concetto.

Allora sminuire tutto ciò che ci circonda? Certo che no, tuttavia è importante, necessario, ineludibile comprendere come quel tutto ha valore se noi vogliamo dargliene e lo perde se scegliamo che non debba averne. Spesso però veniamo travolti dalle cose e smarriamo la rotta.

“Nuvole, macchine, libri, tutti i beni della terra” possono darci gioia,così come potrebbero scaturire in noi tristezza “il ramo che secca”, “l’animale ferito che rantola”, ma prima di tutto dovrebbero darci gioia e dolore l’uomo e i legami tra uomo e uomo.

Quanto conforto scopriamo in questi versi! Leggere che il mondo deve essere per noi la “casa del padre”, la nostra fissa dimora e l’uomo ne è principe. Il tempo che ci è toccato di vivere, infatti, così miseramente scandito dall’incertezza, dalla diffidenza non sembra di essere in grado di definirci, di darci un’identità stabile. Hikmet suggerisce a questo punto di recuperare la dimensione umana, di prediligere l’uomo, di collocarlo “prima di tutto”.

Potrebbe apparire scontata come proposta, già sentita, banale. Eppure non è così.

Nella nostra scala valoriale infatti, nella successione delle priorità l’uomo che posto occupa?

 
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IL valore di un sorriso

Post n°264 pubblicato il 22 Febbraio 2014 da cavallo140

Il valore di un sorriso – P. Faber

Donare un sorriso
Rende felice il cuore.
Arricchisce chi lo riceve
Senza impoverire chi lo dona.
Non dura che un istante,
Ma il suo ricordo rimane a lungo.
Nessuno è così ricco
Da poterne fare a meno
Né così povero da non poterlo donare.
Il sorriso crea gioia in famiglia,
Da sostegno nel lavoro
Ed segno tangibile di amicizia.
Un sorriso dona sollievo a chi è stanco,
Rinnova il coraggio nelle prove,
E nella tristezza è medicina.
E poi se incontri chi non te lo offre,
Sii generoso e porgigli il tuo:
Nessuno ha tanto bisogno di un sorriso
Come colui che non sa darlo.

 
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Auguri

Post n°263 pubblicato il 24 Dicembre 2013 da cavallo140
 

Caro Gesu’ bambino, ti scrivo dopo tanti anni, perché i “grandi” non ti scrivono più. L’ultima volta che ti ho scritto me la ricordo ancora, ti chiedevo tanti giochi, tante cose, tanti dolci.. adesso ti chiedo ancora di più. I bambini diventano grandi, crescono, maturano.. e tu dal cielo li osservi e li ami; ma piu’ crescono e più hanno bisogno di te, del tuo aiuto, ma hanno vergogna a dirtelo. I “grandi” hanno bisogno di te, loro lo sanno, ma non te lo dicono, pensano di farcela da soli… io oggi te lo dico e ti scrivo una “letterina”. per Natale, caro Gesu’ Bambino, vorrei anzitutto un po’ di stupore. Si’, perché la gente non si stupisce piu’ di niente: ha tutto e vuole ancora di piu’, dice cio’ che vuole e non gli bastano mai le parole, vede di tutto ed è sempre piu’ curiosa… la gente non si stupisce piu’ di niente: donaci un po’ di stupore, di quello che ci lascia senza fiato, a bocca aperta, proprio come qualche anno fa. Per Natale vorrei anche un po’ di libertà, libertà di sognare come quando ero bambino!

 
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L'indifferenza

Post n°262 pubblicato il 22 Dicembre 2013 da cavallo140
 

 

L’indifferenza

A volte bisognerebbe trovare il coraggio di reagire. Ma manca il coraggio di combatterla e diventa l’assoluta normalità

 

L'indifferenza rappresenta sempre più il male della società moderna. Ai nostri giorni diventa sempre più difficile prendere posizione o schierarsi. Oggi si è portati ad indignarsi. A sconcertarsi. Ad esprimere giudizi sommari. Ma subito dopo si è capaci di farsi prendere dall'indifferenza. Subentra a quel punto una voluta ignoranza sui fenomeni che ci circondano. Li minimizziamo. Non facciamo nulla per cercare strumenti per comprendere. Per assumerci responsabilità che appaiono ai nostri occhi diventare realtà dure e faticose da affrontare. Si diventa abulici. Parassiti e persino un pò vigliacchi. L'indifferenza ci attanaglia. Riesce ad avere il sopravvento. Chi mostra un pò di sensibilità umana, sente nel suo animo una certa irritazione. Ma continua a sottrarsi alle conseguenze che potrebbero derivare da un suo eventuale atto eroico. Reagendo in qualche modo. Non è facile, ma bisognerebbe provarci qualche volta nella vita. Invece ci si ritrova a giustificare questo comportamento. Ci si giustifica estraniandosi da qualsiasi responsabilità. Non ci si vuole fare una colpa per questa indifferenza. Si diventa scettici. Si diventa vittime di quel male sottile. Ci si trincera dietro quel meccanismo di difesa. Almeno fino a che qualcosa di particolarmente grave non ci tocca da vicino. Altrimenti non ci spostiamo neanche di quel tanto, pur di non rimanere coinvolti. Nella società moderna l'indifferenza sembra essere diventata di assoluta normalità. Non ci si meraviglia più di niente. Appare tutto scontato. Ci si sente in apparente impotenza ad una qualsiasi reazione. Specialmente quando bisogna prendere posizione contro qualche potente di turno. Si tende a diventare vassalli e servitori. Piuttosto che schierarsi a favore della giustizia e della moralità. C'è il timore di soccombere. Manca il coraggio per combattere. Subentra una rassegnazione sconcertante. A volte ci si chiede: "ma in che mondo, in che società viviamo?". Senza renderci conto che rendendoci indifferenti a tante situazioni del nostro vivere civile siamo noi stessi a dare i connotati a quello stesso mondo, a quella stessa società sulla quale ci interroghiamo. L'indifferenza ci blocca. Soffoca ogni anelito di coraggio. E' il segno dei nostri tempi? E' il decadimento della morale? E' la società che si definisce moderna? Stento a credere che possa essere così! Pur trovandomi spesso a sbattere contro un muro di gomma. Il muro dell'indifferenza e della superficialità della gente. L'annullamento delle idee che porta alla massificazione dei cervelli. Timorosi di reagire e di affermare i principi di lealtà e giustizia. Propensi più a sopportare le angherie della società. Pur di non esporsi, di non prendere una posizione netta, precisa. Con la maggiore disponibilità a comprendere e anche giustificare ciò che è amorale, piuttosto che schierarsi con il senso della moralità. Una situazione che il più delle volte  ci potrebbe lasciare quanto meno perplessi. Ma spesso così non è ed allora continuo a chiedermi:"come è possibile essere così indifferenti di fronte a tanta indifferenza". 



 

 

 

 
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Papa Francesco

Post n°261 pubblicato il 18 Dicembre 2013 da cavallo140

 

Papa Francesco persona dell’anno: capace di rivoluzionare un secolo

Anche quest’anno, come ogni anno, la rivista Time, ha deciso, tenendo conto anche anche delle indicazioni dei lettori, chi è stato il personaggio più popolare dell’anno. E la scelta quest’anno è caduta su papa Francesco.

Nancy Gibbs, la direttrice della notissima rivista americana, spiega che essere il più “popolare” non significa essere il più importante, ma essere colui o colei che, in modo positivo o negativo, è stato più di tutti in cima all’attenzione dei media e della gente. Al secondo posto infatti (in termini molto negativi però) c’è Edward Snowden, considerato in America un grande traditore per aver svelato non pochi imbarazzanti segreti dell’amministrazione americana; terzo è Ted Cruz, il politico texano superconservatore diventato recentemente il beniamino dei Tea Party per aver fatto della lotta alla riforma sanitaria di Obama (cosiddetta “Obamacare”) il suo cavallo di battaglia (comunque perdente, nonostante i numerosi passi falsi della riforma stessa). Ma è proprio la stessa Nancy Gibbs, che nella rivista dedica a Papa Francesco un servizio di ben 22 pagine, a fare il commento più incisivo.

Lei dice: “Stiamo vivendo un periodo di grande cambiamento e incertezze, persino coloro che avviano rivolte vengono a trovarsi spesso spiazzati. Ma a sorpresa una voce nuova si è levata con fermezza sopra tutte le altre per suggerire che “la cultura della temporarietà è la strada per la rovina”.

Il papa con questa semplice frase ha voluto certamente rievocare la vanità di altri periodi storici e culturali impostati sulla completa negazione del trascendente, già finiti nell’oblio. Rievocando il vuoto culturale della società moderna, che ha scelto di venerare solo il dio quattrino e di onorare soltanto chi dispone di largo benessere, ammonisce con fermezza sulla vanità di questi valori, non solo di fronte a Dio, ma anche di fronte all’armonia che solo una società civilmente organizzata e capace di riconoscere i meriti anche di chi non dispone di grandi ricchezze può avere.  

Poi la Gibbs cita le stesse parole del papa: “Senza rendercene conto, ci ritroviamo incapaci di provare compassione per i lamenti dei poveri; di soffrire per le altrui sofferenze; di sentire il bisogno di aiutarli. Per quanto tutto questo possa essere responsabilità d’altri, la cultura della prosperità ci ha resi sordi a tutto.           

Ecco le due parole chiave che spiegano l’unico ideale che guida il nostro tempo: la “temporarietà’” e la “prosperità”. Con la temporarietà il papa si riferisce evidentemente alla mancanza di fede, alla resa di chi crede che tutto finisca con la nostra morte corporale e perciò dedica tutto se stesso alla conquista della ricchezza immolando tutto e tutti al raggiungimento di questo traguardo. Questo, secondo il papa, è il pericolo più grave per l’uomo. E ci ammonisce che senza una fede capace di guidare la nostra vita secondo l’insegnamento cristiano, noi non smarriamo solo, individualmente, la pace del Signore, ma contribuiamo anche, tutti insieme, a costruire una società che si chiude nell’ego, e perde in questo modo ogni capacita’ di crescere secondo un ordine di convivenza umana, civile e sociale.

In meno di un anno il papa ha fatto qualcosa di assolutamente rimarchevole: ha risvegliato la coscienza di un miliardo e duecento milioni di cristiani per esortarli a non lasciarsi ancora una volta ingannare dall’idolatria del denaro. Ma lui non si è fermato ai moniti verbali, proprio come il santo di cui ha scelto il nome egli ha fatto della moderazione il suo stile di vita. Rifiuta i paramenti costosi, prega in ogni istante della giornata e, naturalmente, invita tutti i fedeli a pregare.

La sua popolarità è in continua crescita in tutto il mondo. Negli Stati Uniti, dove i cattolici non sono maggioranza, c’è chi, come Jesse Jackson lo ha paragonato a Martin Luther King. Oppure c’è chi, al contrario, come Rush Limbaugh (un popolare conduttore televisivo iperconservatore) lo ha paragonato nientemeno che ad un seguace di Karl Marx.

Lui non bada a questi commenti, sa perfettamente quello che deve dire e quello che vuole fare, tuttavia alle critiche più severe talvolta risponde, e spesso riesce a spiazzare tutti semplicemente seguendo alla lettera il tracciato già segnato dal Cristo. Come quella volta che ha detto a chi gli rimproverava di essere troppo aperto alle altre religioni “Dio redime tutti, non solo i cattolici”.

Francesco ama tutti, ma il suo monito ai ricchi e a chi politicamente li favorisce, è poderoso: “Non è ammissibile un mondo dove il 50% della popolazione controlla solo l’1% della sua ricchezza”. Il capitalismo deve rivedere i suoi principi di libertà e aprire ad una distribuzione della ricchezza più equilibrata.

La Gibbs quindi motiva l’assegnazione del riconoscimento in questo modo: “Per aver portato il papato fuori dal palazzo e nella strada, per aver impegnato la più grande chiesa del mondo a confrontarsi con i suoi desideri più profondi e per aver saputo bilanciare il rigore con la misericordia, per queste ragioni papa Francesco è il personaggio dell’anno 2013”.

Francamente, benché la rivista Time abbia fatto un ritratto di papa Francesco tutt’altro che riduttivo, c’è molto di più. Francesco ha aperto una strada che in poco tempo sarà seguita da migliaia di seguaci e milioni di fedeli, una strada che, benché aperta nel segno della fede, non riguarderà solo la fede ma tutto un modo diverso di interpretare la distribuzione della ricchezza nella società civile globalizzata, non più affidata alla semplice carità, ma a concreti progetti di redistribuzione.

 

 

 

 
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Essere donna

Post n°260 pubblicato il 26 Novembre 2013 da cavallo140

 

DONNA


...e si rinnova l'avvenimento umano
e ritorna il calore della vita
e la luce di un altro giorno
rischiara la nostra esistenza,
e tu, per la creatura che nutri in grembo gioisci,ridendo felice.

 

 

Agli albori del terzo millennio

si parla sempre di parità

tra uomo e donna.

E’ giusto che sia così

ma c’è  una cosa in cui la natura

interviene e non permette

parità ad entrambi:

“E’ la maternità.”

E’ solo la donna che può portare

in grembo il frutto dell’amore

per il suo uomo.

E’ solo la donna che sente

quell’esserino scalciare dentro di sé,

il suo cuoricino battere

e ringraziare Dio

per quella vita che cresce in lei.

L’uomo è lì assiste

 ai cambiamenti del suo corpo,

coglie una nuova dolcezza nel suo viso,

appoggia la mano sul suo ventre,

lo sente muoversi,

si emoziona, gioisce

ma non sarà mai

come la tenerezza e l’amore

che prova la donna ancor prima

di tenere il suo bimbo tra le braccia.

 
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Chi desidera un mondo diverso

Post n°259 pubblicato il 31 Ottobre 2013 da cavallo140

Un mondo migliore. Perchè?

Qualche volta capita di chiedersi: cosa si può fare per avere un mondo migliore?

Una risposta sensata sembra essere: per avere un mondo migliore, bisogna costruirlo.

Come lo si può costruire?

 

 

Lo si può costruire con le azioni, con l'impegno, intervenendo nella realtà: a volte amando, a volte pensando, a volte costruendo, a volte lottando. Piano, lentamente, ma inesorabilmente. Queste azioni non devono essere casuali, ma devono avere come obiettivo quello di migliorare il mondo.

Quindi, prima di agire, bisogna riflettere. Bisogna interrogarsi, per capire cosa bisogna fare, come occorre intervenire.

A volte è facile, o almeno appare facile, darsi delle risposte, ma spesso non è così. In questi casi bisogna riflettere a fondo, senza lasciarsi trascinare dall'impulsività.

A volte ci verrebbe spontaneo reagire in un certo modo a certe situazioni, quando spesso questa spontaneità è nociva. Perché la reazione più immediata è quella che gratifica il proprio io. Faccio un esempio: se qualcuno offende, si comporta male, si è portati a reagire in modo tale da rafforzare il solco che divide, e ciò non è bene. La persona grande di animo e di spirito cerca di avvicinarsi agli altri, anche quando questo implica una rinuncia per il proprio ego. La persona grande di spirito, a costo di soffrire, cerca sempre di avvicinarsi al prossimo, perché l'amicizia è ricchezza, perché così si potrà costruire qualcosa di migliore.

La situazione è abbastanza complessa,perchè la risposta non deve neanche essere tale da mortificare il proprio io. Bisogna tendere verso una situazione in cui il mondo esterno, con tutti i suoi attori, non è in grado di mortificare il proprio io, in nessun caso; in una tale situazione sarebbe possibile rispondere sempre nel modo più giusto e corretto, nel modo più appropriato per migliorare la realtà. Per raggiungere questa condizione di invulnerabilità, è necessario un cammino lungo e faticoso, ma la metà che si consegue è di migliorare se stessi ed essere pronti a fare qualcosa per cambiare il mondo.

Grande non è colui che dice "occhio per occhio, dente per dente". Grande è colui che è capace di convertire il male in bene, colui che trasforma in positivo. Il primo atteggiamento è da tutti, il secondo da pochi. Questo non vuol dire che bisogna essere buonisti in ogni circostanza. Per fare un esempio estremo si può dire che probabilmente i metodi di Gandhi non potevano essere utilizzati contro Hitler, e a volte essere buoni ad ogni costo produce effetti negativi, quando certi gesti non vengono compresi. Ma a volte un gesto buono può produrre degli effetti positivi, e in questi casi bisogna sforzarsi di agire come suggerisce la razionalità.

Cambiare il mondo è difficilissimo, anche sforzarsi di cambiarlo è difficile, ma è un obiettivo elevato.

A volte ci si chiede anche se con il passare dei secoli le cose siano migliorate, oppure no. E' una domanda difficile, però possiamo considerare che forse diecimila anni fa il concetto di fratellanza, l'idea di fare del bene, di migliorare il mondo, non erano nella testa di nessuno. Ora non solo queste idee sono nella testa di alcuni, ma addirittura sembra esserci una ampia condivisione di questi concetti.

 
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Festa dei morti

Post n°258 pubblicato il 31 Ottobre 2013 da cavallo140

 

Commemorazione dei defunti, festa dei morti in Sicilia

 

La "Festa dei Morti" in Sicilia è una ricorrenza molto sentita, risalente al X secolo, viene celebrata il 2 novembre per commemorare i defunti. Si narra che anticamente nella notte tra l'1 ed il 2 novembre i defunti visitassero i cari ancora in vita portando ai bambini dei doni. Oggi questi doni vengono acquistati dai genitori e dai parenti nelle tradizionali "fiere", che si svolgono in molte parti della Sicilia. Qui vi si trovano bancarelle di giocattoli e oggetti vari da donare ai bambini, che vengono poi nascosti in casa e trovati da quest'ultimi, al mattino presto, con una sorta di caccia al tesoro. Oltre a giocattoli di ogni sorta, esiste l'usanza di regalare scarpe nuove, talvolta piene di dolcetti, come i particolari biscotti tipici di questa festa: i crozzi 'i mottu (ossa di morto) o i pupatelli ripieni di mandorle tostate, i taralli ciambelle rivestite di glassa zuccherata, i nucatoli e i Tetù bianchi e marroni, i primi velati di zucchero, i secondi di polvere di cacao. Frutta secca e cioccolatini, accompagnano 'U Cannistru', un cesto ricolmo di primizie di stagione, frutta secca altri dolciumi come la frutta di martorana ei Pupi ri zuccaru statuette di zucchero dipinte, ritraenti figure tradizionali come i Paladini. Tradizione esclusivamente palermitana, vengono chiamati “pupi a cena” o “pupaccena”, per via di una leggenda che narra di un nobile arabo caduto in miseria, che li offrì ai suoi ospiti per sopperire alla mancanza di cibo prelibato. In alcune parti della sicilia viene preparata la muffoletta, pagnottella calda appena sfornata "cunzata", la mattina nel giorno della commemorazione dei defunti, con olio, sale, pepe e origano, filetti di acciuga sott'olio e qualche fettina di formaggio primosale.

 

 

 
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Guerra ...perchè

Post n°257 pubblicato il 08 Settembre 2013 da cavallo140

I BAMBINI GIOCANO diBertold Brecht

I bambini giocano alla guerra.
E' raro che giochino alla pace
perché gli adulti
da sempre fanno la guerra,
tu fai "pum" e ridi;
il soldato spara
e un altro uomo
non ride più.
E' la guerra.
C'è un altro gioco
da inventare:
far sorridere il mondo,
non farlo piangere.
Pace vuol dire
che non a tutti piace
lo stesso gioco,
che i tuoi giocattoli
piacciono anche
agli altri bimbi
che spesso non ne hanno,
perché ne hai troppi tu;
che i disegni degli altri bambini
non sono dei pasticci;
che la tua mamma
non è solo tutta tua;
che tutti i bambini
sono tuoi amici.
E pace è ancora
non avere fame
non avere freddo
non avere paura.

 

 

 
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La superficialità ...

Post n°256 pubblicato il 21 Giugno 2013 da cavallo140

la superficialità dei giovani

Molti mas-media, come i giornali, internet o il telegiornale, sostengono che i giovani di oggi siano affetti dalla “sindrome della superficialità”. Non è una nuova malattia virale, nemmeno una grave patologia psicotica, ma una vera e propria mania.

La superficialità è una tendenza molto comune tra i ragazzi, in particolare tra quelli più giovani.

Esistono tre cause più rilevanti in questo contesto:

per prima, è la società moderna che sta cambiando e muta per migliorare, o meglio, facilitare la vita dell’uomo. Dal momento in cui questo si trova ad affrontare una realtà che porta ad una totale mancanza del desiderio, a causa di agevolazioni, si vede costretto alla chiusura nell’ozio; infatti, sempre più giovani diventano pigri e sempre più stanchi, non sentono più il bisogno di fare sport o acculturarsi con un buon libro.

La società è come una madre iperprotettiva che tenta di svincolarli dalla fatica o dall’intelletto stesso. La superficialità nasce dalla mancanza di desiderio di sforzarsi a pensare e agire secondo i propri ideali, quindi dal dover ricorrere al silenzio e alla fragilità di un pensiero poco elaborato.

Come, ad esempio, accade spesso nelle scuole. Certi studenti credono che basti studiare una mezz’oretta prima di qualche verifica, o l’intera giornata precedente. Altri, invece, sostengono che non sia nemmeno utile adoperarsi e perdere, di conseguenza, energie, che potrebbero, invece, essere impiegate in una partita di calcio o esser sprecate a guardare la televisione. E’ dimostrato che l’alunno che studia giorno per giorno una materia, al giorno del “fatidico” tema sarà tranquillo e sicuro, quello che invece studia, incoscientemente, qualche minuto prima, si ritroverà agitato e avvolto dal manto dell’ansia che gli farà commettere errori, a volte anche gravi. Quindi è da riconoscere che quei due ragionamenti, molto comuni nei giovani, sono sintomi della superficialità e della pigrizia.

La seconda causa sono le nuove tecnologie che avanzano sempre più, ogni giorno, e favoriscono la riduzione del tempo, sino a farne perdere la concezione. Ciò porta nei giovani ad una mancanza disastrosa di organizzazione e di responsabilità, anch’essa, presagio di trascuratezza.

Ad esempio, molti giovani, dopo esser tornati da scuola, si stravaccano sul sofà e accendono la televisione. In questo modo passano i minuti e così anche le ore tra un programma e l’altro. Accade però, che a fine giornata, non hanno ricavato profitti dal loro ozio, anzi, si ritrovano a dover svolgere in poche ora ciò che avrebbero dovuto fare in tutta la giornata.

Il terzo motivo è il rapporto che i ragazzi hanno con i propri genitori.

E’ necessario delineare che nella fase dell’adolescenza esistono due tipi di rapporti. Il primo consiste nel fatto che i genitori proteggano avidamente la propria prole, rendendola viziata e capricciosa. Avendo, quindi, a disposizione ogni favoritismo possibile, i figli non nutrono il bisogno di ricercare una vita e una mentalità propria e si rifugiano nella superficialità.

La seconda categoria di rapporto, invece, è formato da dei genitori che sono tutt’altro che iperprotettivi, padri e madre che non badano ai propri figli, per svariati motivi. Ciò rende i giovani più irritati e arrabbiati. Alcuni si credono abbastanza maturi e commettono stoltezze che ritengono che gli adulti possano fare; altri cercano di attirare l’attenzione su di sé stessi, facendo cose poco mansuete. Certi arrivano anche a fare uso di stupefacenti o a far del male alle altre persone. Questi sono altri sintomi della superficialità, ma soprattutto della mancanza di intelligenza.

A mio parere questa “sindrome” colpisce i ragazzi, in fondo più deboli, coloro che non hanno una corteccia troppo grossa e si lasciano trapassare da ideali altrui. Sono dell’idea che la causa, realmente più rilevante, sia il “fattore adolescenza” che rende i giovani più vulnerabili, per via dei forti cambiamenti che avvengono durante la pubertà. I ragazzi sono spesso combattuti tra l’essere infantili e l’essere adulti e ciò li rende fragili, come le foglie d’autunno, che cadono al suolo. Ritengo che ognuno sia costretto a passare un momento oscuro e confuso della vita, durante l’adolescenza, in cui si viene “infettati”, inconsciamente dalla “sindrome della superficialità”.Ogni adulto può ammettere di aver passato questo periodo, in cui la mente viene offuscata da pensieri frivoli e banali.

L’unica cura a questa “malattia” è lo scorrere del tempo, che rende gli uomini sempre un po’ più maturi. Dunque tutto ciò si supera, semplicemente, aspettando con molta pazienza, poiché è sintomo di saggezza.

 
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AMARE...

Post n°255 pubblicato il 26 Aprile 2013 da cavallo140

amare non significa rinunciare alla propria libertà, significa darle un senso

 

Ho atteso molto prima di pronunciarmi su questa parola, perché è la più importante e difficile da definire. Sull’amore sembra si sia già detto di tutto.

Definizioni retoriche, romantiche, ciniche, o semplicemente originali; ce n’è per tutti i gusti. La stessa parola “amore” si presta a mille interpretazioni perché è utilizzata per esprimere una vasta gamma di sentimenti che possono anche non avere quasi nulla in comune tra loro.

L’amore per un figlio, l’amore per la patria, l’amore per il prossimo, l’amore per un Dio, ecc., sono espressioni di stati d’animo molto diversi tra loro. Ma quando si dice “amore” e basta, penso che tutti noi sappiamo bene a cosa ci si riferisce, o almeno per me è così.

L’amore più importante, dirompente, incontrollabile, che può renderci schiavi o pazzi, inermi o aggressivi, colmi di gioia o disperati, è senz’altro e soltanto quello che può nascere tra una coppia.

L’amore è un sentimento irrazionale, non c’è dubbio.

Non conosce confini di sorta: può colpire persone di età, razze, religioni, culture diverse. Possiamo avere vissuto per anni a fianco di una persona senza avere provato alcuna attrazione particolare per lei e poi, di punto in bianco, sentire una vampata di desiderio irrefrenabile, accorgerci che non possiamo più farne a meno, che desideriamo con tutte le nostre forze la sua presenza, il suo contatto, il suo affetto ... in una sola parola: il suo amore.

Non so dare una spiegazione a questi fenomeni, che hanno anche origini sicuramente  fisiologiche, ma so per certo che esistono, così com'è vero che il più delle volte queste improvvise esplosioni di sentimenti sono reciproche. La stessa cosa può accadere a due persone che si incontrano per la prima volta. Anche in questi casi il fenomeno d’attrazione è inspiegabile, anche se meno facile che sia reciproco.

L’amore, come tutti i sentimenti più forti, è invadente e molto esigente. Nessun rapporto umano può dare più di quanto dia l’amore, come è vero che nessun rapporto umano può far soffrire quanto l'amore.

L’unico sentimento che gli assomiglia è l’odio, che potrebbe comunque considerarsi un aspetto negativo dello stesso amore. Sempre restando nel concetto di amore di coppia, amare vuol dire non essere più capaci di vivere bene con noi stessi e sentirci soli anche tra mille persone, se manca la persona amata, così come sentirsi amati vuol dire non sentirsi mai completamente soli.

 
Lo stato d’innamoramento è a metà strada tra la malattia e la beatitudine fisico-intellettuale. Come “malattia” coinvolge tutta la nostra fisicità, che risulta attratta esclusivamente dal contatto con l’altra persona, mentre come “beatitudine” invade tutta la nostra sfera psichica, che non trova modo di concentrarsi su null’altro che non sia il ricordo, la presenza o il desiderio dell’altra persona.

Durante la fase acuta dell’innamoramento scompaiono tutti i difetti della persona amata: si potrebbe dire che essa rappresenti in quel momento l’ideale della nostra vita. Nessuno è più desiderabile, attraente, bello, dolce, affettuoso dell’oggetto del nostro amore. Ma sotto l'amore spirituale verso un'altra persona, quanto gioca la pulsione sessuale, che cerchiamo di "nobilitare" caricando di passione un semplice desiderio istintivo? 

L’idea che nel tempo questo stato d’animo possa evolversi, lasciando una grande delusione o un grande vuoto o più semplice tanta indifferenza, sembra inaccettabile a chi è veramente innamorato. Ma la vita insegna che nessun grande amore si mantiene costante nel tempo, anzi, forse si potrebbe dire che più è stato grande un sentimento e più facilmente ne avverrà un crollo rapido e ingovernabile. Una parabola come tante altre: nascita, crescita, culmine, decadimento. Tutto l'Universo è una parabola.

In amore fanno eccezione quei rapporti che hanno la fortuna di trasformarsi lentamente in profondi sentimenti d’affetto; affetto alimentato da stima reciproca e condivisione di interessi.

Parlando più in generale dell’amore io direi che assai spesso il sentimento nasconde un’origine egoistica e possessiva, mentre il puro concetto d’amore dovrebbe essere totalmente altruistico, ma è molto difficile trovarne validi esempi. In questo gioca un ruolo importante la società, che ci insegna e ci spinge ad amare più in un modo che nell’altro, a parte il nostro innato senso egoistico.
 
Il bacio di Hayez

Laddove il possesso di beni è considerato un elemento di successo è naturale che anche il possedere persone si allinei al principio generale. Ed è per questo che molte madri non sanno praticare l’arte di allontanare i figli dal loro seno, neppure quando i figli giungano ad età più che matura. L’amore per i propri figli è comunque un sentimento originato dal nostro stesso istinto di mammiferi, quindi in esso non c’è nobiltà, ma condizionamento genetico. Ma esistono tante altre forme che definiamo “amore” e di cui sarebbe interessante parlare. L’amicizia, per esempio. Fa anch’essa parte dell’amore?  O l’attaccamento che abbiamo per un amico nasce dalla solidarietà verso qualcuno che riconosciamo molto simile a noi, come vedute, comportamenti, problemi, stato sociale, passioni e interessi, e via dicendo? Anche l’amicizia sottintende un criterio di reciprocità, compresi i casi in cui si sia amici di qualcuno che ci faccia pena, che sentiamo fragile e bisognoso del nostro aiuto.  Nel nostro profondo ciò che oggi facciamo per lui nasce da un processo di identificazione. Se fossimo nei suoi panni vorremmo essere aiutati, così scatta in noi il gesto d’aiuto. Oggi a te, domani a me.  Forse l’amore più disinteressato che riusciamo a manifestare è rivolto alla natura. Ma è giusto dire che si “ama” la natura? O piuttosto la si ammira, ne godiamo, la usiamo a piacer nostro? Basti vedere con quanto spirito poco rispettoso la sfruttiamo, la natura, per i nostri bisogni e piaceri!

 
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