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Post N° 129

Post n°129 pubblicato il 31 Gennaio 2005 da john.keating
Foto di john.keating

Ad A., che sa di cosa parlo, ed a tutti quelli che... beh, ci siamo capiti

Quando voglio farmi veramente del male, ascolto Rod Stewart. Ho praticamente tutto quello che ha inciso tra il ’69 ed il ’76, con Jeff Beck, i Faces, e soprattutto, soprattutto, da solo.
È una bella idea, a pensarci, quella di scegliere della musica per farsi del male. Dopotutto sono convinto che molta gente lo faccia abitualmente, in un modo o nell’altro. Chi ascoltando musica francamente orrenda (e non per cattivo gusto musicale, ma proprio nella consapevolezza di ascoltare cose brutte, o volutamente ostiche); chi ascoltando musica che gli ricorda momenti molto tristi che farebbe meglio a dimenticare; e chi momenti molto belli e dolci, che farebbe meglio a dimenticare anche di più (e mi ci metto anche in questa categoria).

In realtà, la sofferenza indotta da Rod Stewart è di un grado diciamo così ontologicamente superiore. Non mi riporta a niente – anche perché, pur avendomi sempre divertito il personaggio, e la sua voce – ho scoperto le sue cose migliori in età già un po’ avanzata, dopo i trenta insomma. E sono anche convinto che un motivo ci sia.
No, la musica di Stewarty fa male di per sé, a patto naturalmente di esserci portati: di apprezzare il genere per cominciare, e di esser disposti a farsi far del male da una canzone. Io ci sono portato, è un fatto.

Perché di canzoni che fanno male nei suoi dischi ce ne sono almeno tre per disco.
Prendiamo Farewell, da Smiler – forse il disco più debole del periodo. C’è questa melodia scozzese, su un tempo veloce, mandolino e tutto il resto, apparentemente allegra, solare, gioiosa, ma parla del suo addio alla casa natale, al fratello, alla sorella, alla prima fidanzatina, all’ambiente provinciale, per diventare una rock’n’roll star.
E quella melodia che nel suo andar su e giù, scava scava, scava dentro. E l’allegria si trasforma in nostalgia, in malinconia, e quando la canzone finisce, e finisce la bellezza della melodia, ti resta un senso di rimpianto che maledizione non sai per cosa o per chi; e se ti va, lo puoi incollare a chi ti pare, a chiunque tu abbia perduto, e alla parte di te che hai perduto con lui.

E che dire di Maggie May, la sua canzone più (giustamente) famosa, la storia dell’amore tra uno studente ed una prostituta. Una delle rock ballads per eccellenza, ed ancora una melodia che disegna quel senso di malinconia, di ineluttabile perdita, vissuta con la serena consapevolezza della inevitabilità del tutto.

E You Wear It Well, e Lost Paraguayos, e Cut Across Shorty, e Mandolin Wind, e Blind Prayer, e Handbags & Gladrags, e I Wouldn’t Ever Chance a Thing, e Cindy's Lament, e…
Tutte con quella tensione, quella tristezza di fondo, nascosta tra le pieghe di melodie così ariose da sembrare persino solari.
Tutte melodie cantate da quella voce così terrena da ricordare il nostro esser concreti, il nostro esser carne e sangue, che ti portano in qualunque posto, luogo dello spirito tu voglia, in cui godere del piacere di soffrire, di godere di una canzone sino a star male per non riuscire a fermarne l’intima essenza, per non riuscire a farti melodia a tua volta, e sparire, nell’aria, come e insieme all’ultima nota, magari per tornare con lei nell’Ombra da cui essa proviene, da cui senti di provenire, cui senti di essere appartenuto, di appartenere ancora, ma le cui porte inesorabilmente ti si chiudono allo spegnersi dell’ultimo suono. E resti, lì, da solo, con la nostalgia di quel che hai vissuto, di quel che sei stato e non sei e non sarai mai più.

Quando ho voglia e bisogno di straziarmi l’anima, vado da Stewarty. So di trovare quel che cerco.

 
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