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Metafisica della Terra della Sera

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"Höre"

Post n°166 pubblicato il 02 Ottobre 2005 da john.keating

«Chi sa le lingue è un imbecille.»
Friedrich Nietzsche


I cinesi non parlano. Cantano.

Le parole cinesi sono nella loro grandissima parte monosillabiche (e le rimanenti sono al massimo bisillabiche); ma la vera particolarità del cinese sono i quattro diversi toni con cui ciascuna parola può esser pronunciata. In pratica, dei suoni, a ciascuno dei quali corrisponde un significato diverso.
Questa dei toni è una cosa difficile da comprendere per noi occidentali, abituati al mono-tono, piatto, uniforme, delle nostre lingue. I cinesi invece desumono il significato dalla intonazione delle parole, e intendo proprio la loro denotazione, mentre nelle nostre lingue il tono al massimo serve alla loro connotazione.
In pratica, parlare il cinese (o uno delle migliaia dei suoi dialetti parlati, spesso irriducibili e incomprensibili gli uni agli altri) significa in senso letterale interpretare uno spartito musicale, esattamente come si interpreta una melodia da suonare.

Ora, come si fa a tradurre una cosa così? Grossomodo, tradurre il cinese è come far la prosa di una poesia, o più esattamente come raccontare a parole una melodia.

Questo problema sussiste naturalmente per qualsiasi traduzione da/a qualsiasi lingua, per il fatto che le parole non sono isolate, ma si spiegano, si connotano, si richiamano con altre parole; e questo echeggiare incessante, questo andar su e giù dalla sfera del cosciente a quella dell’inconscio, è ciò che rende impossibile rendere un significato tra lingue diverse: “intanto si può trasporre un termine da una lingua all’altra in quanto non ci si è inabissati nel suo senso e la parola non ci ha fatto prigionieri della sua profondità” come dice Umberto Galimberti. Ed ecco che chi parla le lingue è in fondo “un imbecille”, perché certo sa riconoscere le cose con tutte le diverse parole possibili, senza ascoltarne perciò coglierne il senso, di nemmeno una.

E questo fatto della irriducibilità dei significati profondi, non è limitato al problema della traduzione. Io dico sempre che possiamo parlare per ore con una persona, intendendoci perfettamente con essa, comprendendo esattamente cosa dice il nostro interlocutore e persino con la certezza assoluta di essere allo stesso modo compresi, e tuttavia non condividere il senso profondo del rispettivo dire.
Se ad esempio si parla di una strada, possiamo intenderci sino al minimo dettaglio su ciò che diciamo di essa, ma se “strada” a me richiama “viaggio, apertura, possibilità, ignoto”, mentre per il mio interlocutore è “lontananza, noia, traffico, pericolo”, è più che dubbio che la nostra comunicazione sia altro che uno scambio di anodine informazioni. Insomma possiamo capirci benissimo, senza tuttavia intenderci per nulla.

Il che, en passant, è ciò che avviene innanzitutto e perlopiù nelle comunicazioni interpersonali quotidiane. E già questo dovrebbe far piazza pulita della convinzione che la parola sia una cosa che denota altre cose, a loro volta dotate di un senso che prescinde il linguaggio che le esprime: grossomodo, le kantiane “cose in sé”. Ma la metafisica è piuttosto dura d’orecchi.

Perché qui non si tratta di spiegare quanto di ascoltare il linguaggio, con buona pace della tizia che giusto un anno fa di questi tempi si lamentava del fatto che io dovessi “spiegare sempre tutto”. (Il che tra parentesi dice quanto poco avesse capito della mia persona; e semmai nel suo spiegare me, come difettasse nell’attitudine per l’appunto di ascoltare piuttosto che in quello di dir la sua sempre e comunque.)

In mancanza di ascolto delle parole, esse rivelano solo il loro nichilismo quando vengono private del loro echeggiare poetico: nel senso esatto che nell’assenza del loro ascolto, dietro, oltre ad esse, non resta che il niente.

Non c’è dubbio che il linguaggio abbia un uso pratico di essenziale importanza, solo che il linguaggio non si limita a questo, e soprattutto è tutt’altro che questo. Come ci insegna Nietzsche, le parole non sono etichette che si appiccicano alle cose, ma sono una ragnatela leggerissima e profonda di rimandi, un sistema di metafore che in nessun caso scaturiscono dalle cose stesse. E che con le parole noi coloriamo e diamo forma al mondo, è cosa che chiunque abbia anche solo una volta sperimentato l’emozione di una poesia, ha provato, e compreso.

Non dovremmo parlare tutti la stessa lingua, perché la lingua di ciascuno è il suo modo di disegnare e colorare il mondo. E il condividerla con qualcuno, sino a costruire un mondo insieme, qualunque cosa possa voler dire, è l’atto più intimo, e prezioso, che chiunque possa fare.

E in fondo, senza rendercene conto, è proprio quello che facciamo. Anche se la metafisica fa di tutto per nascondercelo.

"Höre": ascolta.

 
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