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Post N° 414

Post n°414 pubblicato il 25 Marzo 2008 da quotidiana_mente
 






Questo blog era nato come sfogo nei confronti della mia collega e, invece, è da un po’ che non le dedico nemmeno una riga. Non che lei si sia ritirata a fare l’anacoreta sul cucuzzolo di un monte sperduto in qualche luogo raggiungibile solo dopo giorni e giorni di camminate tra una natura impervia e animali selvatici. Purtroppo no, la mia collega esiste ma ultimamente non mi riesce scrivere di lei. Nemmeno è diventata affabile e la sua presenza gradevole, no, niente di tutto questo, semplicemente non riesco più a parlare di lei. Credo che stia scivolando inesorabilmente verso la mia indifferenza ed è la cosa peggiore. Per lei.

A. un collega che illuminava le mie giornate con il cappuccino mattutino, con le sue battute al vetriolo (sempre rivolte alla nostra collega) e con il suo accento pieno di sole ha pensato bene di rassegnare le sue dimissioni dopo tanti tentennamenti: “mi si nota di più se mi dimetto o se rimango qui? Mi si nota di più se mi dimetto e aspetto l’ultimo giorno per annunciare la buona novella oppure parlo subito e, forse, qualcuno cercherà di convincermi a rimanere?”.

Io non mi pronunciavo, dicevo solo che mi sembrava cosa giusta e buona comunicare per tempo la dimissione e che tanto non sarebbe successo niente visto che non c’era mai stato un patto di sangue con l’azienda. Lui continuava a tentennare.

Per tutto il suo periodo lavorativo (quattro anni) non c’è stato un giorno in cui lui non veniva di fronte alla mia scrivania per confessarmi quanto sentisse la mancanza delle spiagge, del sole, del mare e persino dei vicoli della sua isola. Si sentiva tutto il senso di appartenenza e di possesso verso la sua isola.

Le sue confessioni  si facevano sempre più venate di nostalgia: certi giorni si sentiva il suo dolore fisico per via di quella lontananza. Mi sembrava di vedere (ma soprattutto di ascoltare) mio padre quando per qualche motivo non poteva ritornare alla terra natale per un lungo periodo. Però A. era giovane, la sua isola a poco meno di un’ora di volo e con la continuità territoriale era un viaggio che si poteva permettere. Queste mie parole non l’hanno mai consolato: “non capisci cosa intendo, io qui sto male, soffro, è come avere un arto in meno, ecco mi sento amputato di qualcosa di importante, di troppo importante. Sei una insensibile eppure io pensavo che…”. Anch’io pensavo che, rispondevo sempre e nemmeno a mia difesa. Pensavo che, in fondo, una grande città potesse offrire tante possibilità, pensavo che essendo giovane, carino, intelligente, simpatico e con tanta voglia di fare… Ma soprattutto se vuoi tornare a casa, perché non cerchi un lavoro lì, perché… Mi tagliava sempre la frase, lui tornava a perdersi nei suoi pensieri, poi scendeva a prendere un caffé o un cappuccino e per qualche ora sembrava di nuovo rinfrancato.

Dopo tanto soffrire, finalmente arrivò la buona notizia: una borsa di studio per due anni che l’avrebbe permesso di tornare a casa non da sconfitto ma con un lavoro anche se a termine, mi sembrava, in fondo, una situazione perfetta.

Non capisci, diceva lui, poi cosa farò, non è facile trovare lavoro? Il demone che è in me si scatenava in quel frangente, saliva una irresistibile voglia di strangolarlo, tanto per non sentirlo più. Capivo, ovviamente, i suoi dubbi ma in due anni potevano succedere tante cose. Ma anche niente, aggiungeva subito lui. Mi arrabbiavo perché va bene essere nostalgico, va bene stare sempre a piangere per l’isola che è lontana ma essere disfattisti no, quello non lo potevo sopportare soprattutto da parte di A. che ha tutta la vita davanti e un vero insuccesso ancora non l’ha assaggiato.

Se ne andò. Tornò a Cagliari. Preparò tutto in pochi giorni, rassegnò le dimissioni, nessuno lo pregò, in ginocchio, di rimanere a lavorare con noi, ci rimasse un po’ male ma nemmeno tanto ed io subito a dire: per anni hai scocciato tutti con la tua nostalgia e ora sono tutti contenti per te che, finalmente, hai raggiunto il tuo obiettivo: quello di tornare a casa. Lui sorrideva e non rispondeva.

Mentre un giorno me ne stavo per fatti miei, lui mi mandò un messaggio: “se ti dico che mi manca Roma mi prendi per un pazzo?”

Mi sono caduta le braccia. Regolarmente, da qualche giorno mi sottopone lo stesso quesito se, secondo me, lui è pazzo o meno. Intanto ha iniziato a cercare lavoro a Roma che la sua città natale è bellissima ma nemmeno questa di città è da buttare via.

Capisco, capita anche a me di stare qui e volere stare lì e una volta lì volere stare là, però ad un certo punto ci si deve anche fermare, almeno il tempo di preparare un’altra partenza… forse è quello che lui sta facendo.





 
 
 
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